J’accuse
di Roman Polański
Con: Jean Dujardin (Marie Georges Picquart), Grégory Gadebois (Joseph Henry), Louis Garrel (Alfred Dreyfus), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Didier Sandre (Raoul Le Mouton De Boisdeffre), Damien Bonnard (Jean-Alfred Desvernine)
Sceneggiatura di Robert Harris [II]
Francia, 2019
Trailer del film
«Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia».
Questa affermazione di Alessandro Manzoni (Storia della colonna infame, in «Tutte le opere», G. Barbèra Editore 1923, p. 772) costituisce un paradigma del potere giudiziario quando esso viene esercitato, e spesso è così che viene esercitato, a difesa di istituzioni e di gruppi che pongono le leggi al proprio servizio. A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che le leggi da sole non bastano, neppure le migliori (Platone era forse su questo punto troppo fiducioso) e che le forme giuridiche possono con relativa facilità essere piegate a un interesse parziale. È quanto può accadere nel Seicento, nell’Ottocento, nel XXI secolo.
Come la Colonna infame comincia in una mattina di giugno del 1630, così J’accuse inizia in una mattina di gennaio del 1895, quando il capitano Alfred Dreyfus (qui a sinistra) viene pubblicamente degradato nel cortile dell’École Militaire di Parigi e subito dopo inviato come prigioniero all’isola del diavolo, uno scoglio nell’Atlantico. Dreyfus è stato infatti riconosciuto colpevole di spionaggio a favore della Germania. Tra gli inquirenti, il maggiore Georges Picquart (foto in basso), il quale condivideva l’ostilità verso gli ebrei che pervadeva la Francia della Terza Repubblica. Quando viene chiamato a dirigere i Servizi Segreti, Picquart comprende tuttavia che l’ebreo Dreyfus è innocente e che la spia è Jean Marie Auguste Walsin-Esterhazy, un soggetto assai corrotto, diventato ufficiale in maniera truffaldina. Ma i capi di Picquart rifiutano qualunque ipotesi di riapertura del processo e allontanano Picquart. Anche per questo Émile Zola il 13 gennaio 1898 pubblica il suo J’accuse contro lo Stato Maggiore dell’esercito francese. I poteri politico, militare e giudiziario reagiscono in modo scomposto, condannando sia Zola sia Picquart. Dopo alcuni anni, Picquart e Dreyfus vengono riconosciuti innocenti ma Esterhazy e i generali francesi non saranno mai condannati.
Il modo nel quale Roman Polański racconta il più famoso caso giudiziario della modernità è esemplare per freddezza e rigore formale. Il film rispetta il principio fondamentale del naturalismo francese e del verismo italiano: un’«opera d’arte [che] sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore» (Verga, L’amante di Gramigna, in «Tutte le novelle», Einaudi 2015, p. 187). I colori accesi delle uniformi si stagliano sullo sfondo scuro dei cieli, le passioni più feroci sono a stento trattenute dentro le strutture formali dell’esercito e dei tribunali, la miseria della storia emerge in tutta la sua ampiezza.
L’esercito francese è sempre stato quello del caso Dreyfus, delle torture praticate durante la guerra d’Algeria, del sadismo che pervade Paths of Glory (1957), il capolavoro con il quale Stanley Kubrick ha detto una parola decisiva non soltanto su tutti gli eserciti del mondo, i cui capi gettano nel fango e nella morte milioni di soldati mentre se ne stanno tranquilli nei loro confortevoli uffici, ma anche sulle conseguenze che ogni struttura rigidamente gerarchica ha sui comportamenti di chiunque, e in generale sulla natura umana. In quel film -che narra la vicenda di tre soldati francesi scelti a caso e fucilati per codardia durante la Prima guerra mondiale- non è della guerra che si parla ma della tenebra delle relazioni umane. Quella che Marcel Proust ha descritto con una precisione scintillante e che, a proposito dell’Affaire, gli fece scrivere questo: «Si perdonano i delitti individuali, ma non la partecipazione a un delitto collettivo. Quando lo seppe antidreyfusista, mise fra sé e lui dei continenti e dei secoli; il che spiegava come, da una tale distanza nel tempo e nello spazio, il suo saluto fosse sembrato impercettibile a mio padre, e lei dal canto suo non avesse pensato a una stretta di mano e a parole che non avrebbero potuto valicare gli abissi che li separavano» (I Guermantes, trad. di M. Bonfantini, Einaudi 1978, p. 161). Uno scrittore amico di Proust, Paul Morand, nel suo 1900 così descrive gli effetti del caso Dreyfus: «L’Affare aveva scatenato degli odi implacabili, aveva diviso delle famiglie, distrutto dei focolari, guastato le più vecchie amicizie: aveva spezzato in due il paese, con una violenza di cui soltanto le guerre di religione possono darci un termine di confronto» (citato da Carlo Emilio Gadda in Divagazioni e garbuglio, Adelphi 2019, p. 28).
Naturalmente nella vicenda Dreyfus a contare fu non la verità, che era abbastanza evidente a tutti, ma il potere e il modo in cui la storia umana, vale a dire una particolare conformazione della biologia, lo esercita.
Nella recensione che ha dedicato al film, Pasquale D’Ascola ha riportato per intero il testo di Zola, con una parziale traduzione in italiano. D’Ascola fa dell’opera di Polański un documento, una prova, un J’accuse rivolto contro l’oblio che dimentica i criminali e quindi li assolve, contro la demenza di «una banda di indemoniate» simili alla banda dei generali di Zola, contro la viltà di un linguaggio che trasforma l’icasticità dell’originale nella melensaggine di un titolo italiano senza forza e senza senso, qual è L’ufficiale e la spia. E tutto questo trasmettendo il rigore formale e la potenza narrativa di uno splendido film.
5 commenti
agbiuso
Un nouveau fascisme méconnaissable
par Denis COLLIN, le 7 mars 2020
La « nuit des Césars » 2020 et sa suite ont relancé un « débat » (il n’est pas sûr que ce soit le bon mot) qui part dans tous les sens et où les absurdités se suivent à grande vitesse. Prenons les choses de manière un tant soit peu ordonnée.
1) Faut-il séparer l’auteur et l’œuvre ? Autrement dit, un salopard peut-il écrire, peindre, sculpter, jouer des œuvres non seulement belles mais peut-être géniales. La réponse est évidemment « oui ». Ceux qui disent « non » se préparent à vider bibliothèques et musées. Faut-il des noms ? Que penser d’André Gide et de tant d’autres ? Faut-il renvoyer Jean Genet aux galères ? Et Rodin ? et … et le césarisé auteur des « Misérables », qu’en fait-on ? Personne n’a dit que Polanski était un petit saint. Mais il y a des moments où l’acharnement devient suspect.
2) Faut-il interdire les œuvres d’auteurs « suspects » de ne pas être conformes aux nouvelles bonnes mœurs ? C’est ce qui se fait de plus en plus. Jusqu’à quel point cela nous emmènera-t-il ? Pour plus de développement, voir la première question.
3) Faut-il condamner les gens sans les avoir jugés ? Poser la question devrait paraître idiot tant la réponse paraît aller de soi. Eh bien, pas du tout. Tous les jours, les tribunaux improvisés par ceux qui disposent de tribunes, c’est-à-dire les belles gens du monde des arts et des spectacles, condamnent et réclament l’exécution.
4) Faut-il abolir la prescription ? évidemment non ! Elle fait partie de principes démocratiques en matière de justice. Il est curieux de voir les belles gens qui, hier, manifestaient pour qu’on efface les crimes du terroriste Battisti et de bien d’autres du même acabit et qui, aujourd’hui, hurlent avec les loups contre Polanski, Polanski dont la victime réclame qu’on lui fiche la paix. Mais même si on répond « oui » à cette question (4) on se reporte tout de même aux questions (1) et (2).
Question subsidiaire : comment faut-il qualifier les gens qui répondent positivement aux quatre questions ci-dessus ? On hésite. Le mot « fasciste » vient presque naturellement aux lèvres. « Fascistes » qui prétendent parler au nom des dominés, comme tous les fascistes historiquement – c’est même à cela qu’on les reconnaît et qu’on peut les distinguer des autres formes d’autoritarisme.
Enrico
D’accordo con lei, professore, inserisco qualche mia riflessione sul film, che ho apprezzato molto anch’io.
Se non fosse per la scena finale e le brevi ma decisive scene d’incontro tra i due uomini, Picquart e Dreyfus, la traduzione italiana del titolo originale, molto più significativo e potente, sarebbe a dir poco depauperante. Il film è comunque una lucida, seria e rigorosa ricostruzione cinematografica dei fatti dall’elevata accuratezza sia storica che didattica.
L’Affaire Dreyfus, che sconvolse la Francia di fine secolo e la spaccò in due fazioni, viene infatti restituito in tutto il suo grande impatto politico, sociale ed emotivo. L’esercito ha le proprie leggi e rigide gerarchie interne di potere, eppure, anche nell’organo più integerrimo di uno Stato, era dilagato il germe del razzismo antisemita. È significativa la scena in cui, mostrati i documenti relativi ai possibili traditori al tenente colonnello incaricato della guida del reparto di sicurezza, venga senza esitazione tratto dal novero il fascicolo di Dreyfus l’ebreo.
Contro un traditore della patria, per giunta ebreo, la punizione doveva essere esemplare, un formidabile addensante degli umori del popolo francese intorno all’esercito, il governo e l’opposizione al nemico giurato tedesco. L’ufficiale in questione, il tenente colonnello Picquart, subodorando la frode processuale e l’accanimento giudiziario nei confronti di Dreyfus, sottopone le prove da lui raccolte atte a scagionarlo (tra cui il celebre borderau) ai suoi superiori, i quali non soltanto si mostrano ciechi alle evidenze prodotte ma lo allontanano da Parigi inviandolo in spedizioni suicide in Africa.
La Francia intera, testimone di bigotteria civica, motivo che rende questo film come non mai attuale, si spacca, e i politici e gli intellettuali con a capo Zola impugnano il processo montando il caso nazionale e smontandone le prove d’accusa.
È singolare che i destini di alcuni uomini vengano decretati dalle parole e dalla manoscrittura. Esse infatti sono potenti e fatali. Dreyfus è stato condannato adducendo false prove calligrafiche; Zola, con le sue parole perentorie e marmoree, ha smosso l’opinione pubblica pur inimicandosi gran parte della nazione. Tutto questo, oltre cent’anni fa come adesso, rimane comunque il risultato di una giustizia umana più che mai inficiata dal pregiudizio antisemita ed etnico più in generale.
Picquart, insegnante di Dreyfus, alla domanda circa un’inspiegabile valutazione negativa e se questa fosse stata influenzata dal pregiudizio, risponde con una sincerità scabrosa ma efficace: gli ebrei non sono in sua simpatia ma assicura al suo giovane sottoposto che mai un simile pensiero avrebbe potuto influenzare il suo giudizio.
Picquart, bistrattato, sollevato dagli incarichi e finanche imprigionato, risorge dal discredito pubblico dapprima con la grazia concessa e accettata da Dreyfus, e infine con la nomina a Ministro della Guerra nel primo governo Clemenceau. L’incontro tra i due che chiude il film, l’ultimo dei pochi che ebbero in vita, sembra siglare proprio ciò, la correttezza morale che coincide con il pubblico interesse. Al di là di ogni pregiudizio, Picquart, pur sostenuto da uomini che univano alla causa di Dreyfus interessi squisitamente politici di far cadere il governo e di sostituirlo, dimostra di aver agito secondo giustizia.
Il film offre un ritratto fedele della Francia dell’epoca, della Parigi di scrittori, avvocati, scialacquatori, traditori, militari e amanti civettuoli. È la Parigi in cui vive anche il giovane Marcel Proust, che dell’Affaire darà ampio margine nel suo capolavoro.
agbiuso
Caro Enrico, la sua riflessione su J’accuse è intensa e coglie alcuni dei nuclei non soltanto del film ma proprio dell’Affaire, evento che -come lei ricorda- costituisce uno dei nuclei della Recherche
La ringrazio quindi per averne scritto qui.
Pasquale
Ottimo amico, grazie per la citazione e per il tuo contributo sapiente alla diffusione di quest’opera potente.
agbiuso
Grazie a te, Pasquale, per avere -nella tua analisi di questo film- mostrato che la storia umana è sempre anche un conflitto tra da una parte la dismisura del fanatismo istituzionale (l’esercito) e morale (il politicamente corretto) e dall’altra la misura della razionalità libera dalla ragion di stato che nel XXI secolo è diventata ragione etica.