Teatro Greco – Siracusa
Troiane
(Τρώαδες)
di Euripide
Traduzione di Alessandro Grilli
Con: Maddalena Crippa (Ecuba), Marial Bajma Riva (Cassandra), Elena Arvigo (Andromaca), Viola Graziosi (Elena), Paolo Rossi (Taltibio), Graziano Piazza (Menelao), Francesca Ciocchetti (Atena), Massimo Cimaglia (Poseidone), Riccardo Scalia (Astianatte), Clara Galante (Corifea), Elena Polic Greco (capocoro), Fiammetta Poidomani (chitarrista)
Regia di Muriel Mayette-Holtz
Sino al 23 giugno 2019
Atena e Poseidone osservano i vinti e i vincitori. E stabiliscono di portare a compimento la fine di Troia ma di dare anche amaro ritorno agli Achei. Nessun amore per gli umani in questi dèi. E basta esistere e vedere il mondo per comprendere che nessun amore proviene dal divino. Ecuba lo sa, ora che la città, la casa, i figli, persino il nipote Astianatte vanno morendo e sono alla rovina. Ecuba sa e dice che «di quelli che sono fortunati non stimate felice nessuno mai, prima che muoia» (le traduzioni, tranne una, sono di Filippo Maria Pontani). La fortuna, il caso, gli dèi danzano infatti sulle vite individuali e sulla storia miserrima della specie che si crede grande e per la quale meglio sarebbe stato invece non venire al mondo. «Io dico», afferma Andromaca, «che non nascere equivale a morire. Ma d’una vita triste è meglio morte. Sofferenza non c’è per chi non sente il male».
Il male della storia e il male dell’individuo. Quello della storia perché «folle è il mortale che distrugge le città. Getta nello squallore templi e tombe, sacro asilo d’estinti; ma poi finisce per perire lui», afferma Poseidone; il male dell’individuo immerso in passioni antiche, nuove, pervadenti. Nell’uno e nell’altro caso i Greci appaiono in questa tragedia feroci e disumani, sino ad accettare il consiglio dell’implacabile Odisseo di togliere la vita ad Astianatte affinché il figlio di Ettore non abbia, crescendo, a vendicarsi. Il bambino viene gettato giù dalle mura della città in fiamme.
Prorompe dentro la distruzione Cassandra. Lucida e invasata, lucida perché invasata, sa che ad Agamennone che se l’è presa come concubina lei porterà ogni sciagura, vede «la lotta matricida che le mie nozze desteranno, e lo sterminio della famiglia d’Atreo», esulta sapendo che «vittoriosa giù fra i morti arriverò: / che la casa dei carnefici, degli Atridi, spianterò». Il momento nel quale irrompe Cassandra sulla scena, con la sua torcia con il suo canto, il momento nel quale appare questa potenza struggente, luminosa e dionisiaca, è il più alto della messa in scena, l’unico nel quale appaiano in essa i Greci. Per il resto, infatti, è uno spettacolo sobrio sino alla piattezza; con un Paolo Rossi del tutto fuori ruolo, che interpreta il personaggio chiave di Taltibio come se recitasse in un cabaret milanese; e soprattutto con i cori di Euripide cancellati e sostituiti da canzonette leggere e sentimentali, accompagnate da una chitarra. Si può e si deve interpretare un testo greco come si ritiene più consono ma non lo si può sostituire -o, peggio, ‘sintetizzare’– con testi melensi.
Nietzsche aveva ancora una volta ragione, anche se forse non per le ragioni che credeva: davanti al male della storia, davanti al male che è il respiro, Euripide enuncia il disincanto che alla tragedia greca pone fine. Il poeta fa pronunciare infatti a Ecuba una preghiera che trascolora i nomi degli dèi, persino quello di Zeus, nella forza senza fine e senza senso della materia agra: «ὦ γῆς ὄχημα κἀπὶ γῆς ἔχων ἕδραν, / ὅστις ποτ᾽ εἶ σύ, δυστόπαστος εἰδέναι, / Ζεύς, εἴτ᾽ ἀνάγκη φύσεος εἴτε νοῦς βροτῶν, / προσηυξάμην σε: πάντα γὰρ δι᾽ ἀψόφου / βαίνων κελεύθου κατὰ δίκην τὰ θνήτ᾽ ἄγεις», ‘Tu che sostieni il mondo e che nel mondo hai dimora, chiunque tu sia, Zeus, inconcepibile enigma, che tu sia necessità della natura o pensiero degli uomini, io ti prego: tutte le cose mortali le governi secondo giustizia, procedendo in silenzio lungo il tuo percorso’ (vv. 884-888; trad. di Alessandro Grilli).
In questa magnifica preghiera panteistica una donna e una regina al culmine della disperazione riconosce con dolorosa intelligenza che tutto è giusto ciò che agli umani accade, anche che «la gran città / non più città s’è spenta e non c’è più».
L’innocente causa di tutto questo, Elena, appare davanti a Menelao e si fa avvocata formidabile di se stessa, somigliando le sue parole a quelle argomentate e profonde con le quali Gorgia tesse l’elogio di questa creatura bellissima e fatale. Persino le donne troiane che la odiano ammettono che l’argomentare di Elena è convincente. Come nella tragedia a lei specificatamente dedicata, Euripide coniuga l’indicibile bellezza a una intelligenza raffinata e superiore. Elena sostiene infatti che preferendo lei – e non i doni che offrivano Era e Atena – Alessandro Paride risparmiò ai Greci la sconfitta contro i Troiani. Scegliendo lei nell’impeto di un totale desiderio, Paride fu asservito da Afrodite mentre di Afrodite decretava la vittoria. E quindi, afferma Elena rivolgendosi a Menelao, «la dea devi punire, devi farti superiore a Zeus, che regna sì sugli altri dèi, ma di quella è uno schiavo».
Se schiavo è Zeus di Afrodite, quanto più gli umani lo saranno. Lo sa bene anche Ecuba, sa che il nome di questa invincibile dea è simbolo e sintesi della fragilità di tutti: «Ogni follia per l’uomo s’identifica con Afrodite». Fino a dire parole che sembrano nostre, di noi disincantati ma sempre persi umani del futuro: «οὐκ ἔστ᾽ ἐραστὴς ὅστις οὐκ ἀεὶ φιλεῖ», ‘colui che amò una volta ama per sempre’ (v. 1051)
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9 commenti
Mariella
Dopo l’ Eracle di Emma Dante ho smesso di assistere alle rappresentazioni INDA, peccato!
Pasquale
Il Sacro è infatti anch’esso espressione della violenza, la quale se non transita attraverso il rito troverà altre forme per esprimersi e dominare.
Sì
Tina messineo
Sono consapevole che ciò che insegni tu è già immerso nel dionisiaco, per questo ti sono grata.
L’esortazione era rivolta a me e al resto dell’umanità
Enrico
D’accordo con lei esprimo, professore, qualche mia riflessione sulla tragedia euripidea.
I destini umani sono frutto di divine contese, per taluni clementi, per altri terribili. Atena e Poseidone si contendono la scena e il futuro dei sopravvissuti dimidiati tra la resa e la vittoria. Troia è stata sconfitta. Come un cavallo «gravido di uomini» entrato con l’inganno ha determinato la fine della città, così le donne troiane gravide di rancore maledicono gli dèi e la loro sorte infame. L’araldo dei Greci, Taltibio, comunica alle donne che tramite un sorteggio si è stabilito che saranno separate le une dalle altre e che ciascuna di esse andrà come schiava alla mercé di un greco.
Andromaca sarà del figlio di Achille, l’uccisore del marito; Cassandra sarà concubina di Agamennone in persona; Ecuba sarà di Odisseo, il quale di ogni cosa muta la verità in menzogna e che con un tranello ha causato la distruzione della città. La sorte peggiore è quella della regina di Troia: massima autorità di una città che più non esiste; genitrice di figli morti, dispersi o avviliti; madre e garante delle strenue troiane.
Quasi tutti i personaggi propugnano a gran voce il più terribile dei proclami, e perciò il più vero: non vale nulla sopportare il vento turbinoso della vita e vano è opporsi al vigore dell’onda soverchiante del destino. La guerra è persa, i mariti sono caduti, le loro vite devono sopravvivere con strazio a quelle dei figli. La sorte migliore è non nascere – dice Andromaca rivolgendosi a Ecuba –, e se la vita deve durare con sofferenza allora è meglio renderla all’Ade.
L’araldo sciatto e latore di ogni sventura invita più volte all’impossibile, ovvero a non opporre resistenza e a non rendere inutilmente l’esecuzione degli ordini più difficile. Ma la natura della relazione tra una regina e le sue suddite (Ecuba e le troiane), una madre e le figlie (Ecuba e Andromaca, Cassandra e Polissena), e una madre e un figlio (Andromaca e Astianatte), si rivela necessaria quanto il destino impresso dagli dèi.
L’industrioso Odisseo in pubblica adunanza convince l’alto comando greco della necessità di uccidere anche il figlio di Ettore, onde evitare che un germe bellicoso e vendicativo possa albergare ancora tra le mobili mura umane della città di Troia, le uniche che resteranno. Ne consegue che per decreto comune il bambino venga sottratto alla madre e gettato dalle alte mura di pietra della città, affinché quelle stesse mura perdano la solida speranza della discendenza. Il bambino, l’oggetto del condensato tragico, ha il destino migliore: abbandonare la vita prima che questa possa causargli dolore e sofferenza. L’inutile prosecuzione della violenza dopo la vittoria diviene infine il dono più gradito. La Gewalt dei Greci e del destino volubile degli dèi diviene walten, un imporsi inoppugnabile a cui il contrasto non conduce a nulla. Morire è senz’altro cosa migliore rispetto a vivere nel dolore; ma la vita è questo contrasto, questa futile frattura tra la violenza dell’imporsi del destino degli dèi e le decisioni umane che ne interpretano fallacemente i fenomeni. Non comprendere questo significa impugnare la torcia di Cassandra e seguire i passi della sua danza, allinearsi alle trame degli dèi che conducono inevitabilmente alla follia.
I Greci sono sinolo di saggezza e violenza, speranza e biasimo, essere e dolore. Il loro padre, Zeus, è «inconcepibile enigma, necessità della natura». Non ha senso voler essere più forti degli dèi, opporre forza a violenta imposizione. La verità è monolitica nello sguardo del dio sul mondo, e impattando su di esso il fascio della sua luce si frantuma negli occhi relativi degli umani desiderosi di giustificare. Il tribunale approssimato sul caso Elena non può che emettere un giudizio parziale. Elena, Menelao, Ecuba e il coro sembrano avere tutti ragione, ma una ragione transeunte che come gli anni effimeri della guerra si sgretola dinanzi alla sorte invincibile.
«Invano abbiamo adorato gli dèi», proclama Ecuba nella più liberatoria delle preghiere. Nella precedente che stava pronunciando era stata interrotta; con quest’ultima, breve ma intensa, la tragedia raggiunge il culmine del pathos. Invano si sono adorati gli dèi, poiché il solo principio da adorare è la morte, la terra che con nostalgia si invoca di tornare a essere. La morte è il sacro; essa è l’evento regale del-a tragedia euripidea, il quale si concreta nella celebrazione finale del popolo di donne imago mortis che si svestono per donare tutto ciò che possiedono al loro principe Astianatte sacrificio di vittoria, adagiato al centro della scena sullo scudo di bronzo che una volta era stato del padre.
I costumi ricordano a momenti una divisa da lavoro imbrattata di malta e terra, un abito da prigioniero, lacrime in movimento. Le troiane riacquistano la loro libertà dismettendo gli abiti del mondo ed esibendo l’intimità del rosso, della deflagrazione finale e distruttrice, della morte. È il rosso di cuore e sangue che cola dalle vene dei vivi sulle ceneri incandescenti della terra. Cantano in coro l’amore che è sceso portando vita e speranza; ma si tratta dell’unico amore possibile che prende e trascina nella serenità dell’Ade. Le troiane sono gli alberi feriti che campeggiano sullo sfondo della scenografia: vite lacerate che attendono frementi il fuoco della loro liberazione.
agbiuso
Grazie, Enrico, per una così ricca e rigorosa analisi del mondo euripideo che nelle Troiane si condensa.
Chi leggerà le sue parole si farà un’idea più completa rispetto a quella che poteva trarre dalle mie. E spero che venga spinto ad accostarsi direttamente ai testi di questo poeta del sangue e della luce.
Tina Messineo
Caro Alberto,
lontani siamo dai Greci!
E quanto vero è che “Miserabili relitti” della magnificenza delle donne greche non erano soltanto le povere contadine del Salento nel secolo scorso!
Sarebbe tempo di tornare alla nostra dimensione dionisiaca!
Grazie per tutto quanto ci insegni!
agbiuso
Grazie a te, cara Tina. Quello che cerco di insegnare è già immerso nel dionisiaco 🙂
Pasquale
E così dopo la messa anche il rito della tragedia hanno scempiato con le chitarrine di San Pallore. Se una cosa è estinata ad andar male, andrà male.
agbiuso
Sì, Pasquale, quando una comunità umana smarrisce il senso del Sacro rischia di perdersi nell’insensato.
Un vuoto che di solito viene riempito da una volgare aggressività. Il Sacro è infatti anch’esso espressione della violenza, la quale se non transita attraverso il rito troverà altre forme per esprimersi e dominare.