Partito Democratico Mussoliniano
Le istituzioni italiane sono sempre state tentate dal potere di uno solo, che si chiami Mussolini, Berlusconi o Renzi. Come Gadda e Pasolini hanno ben compreso e scritto, questa società non sembra possedere anticorpi nei confronti del mussolinismo e della sua perenne nostalgia.
Nella storia d’Italia la fiducia sulla legge elettorale era stata posta -prima che dal Partito Democratico nell’aprile del 2015- da Mussolini nel 1923 con la Legge Acerbo e dalla Democrazia Cristiana nel 1953 con la «legge truffa», tentativo poi fallito.
Ieri Sinistra e Libertà ha lanciato crisantemi sulla Camera dei Deputati. Ed è grottesco che gli zombi del Partito Democratico non si rendano conto che in questo modo muoiono pure loro e al posto del PD nascerà il Partito della Nazione. In ogni caso, la democrazia è un sistema fragile, che richiede il rispetto di alcune procedure senza le quali si svuota dal di dentro: il voto di fiducia su una legge elettorale è un’enormità che è legittimo definire fascista.
18 commenti
agbiuso
Renzi vuol fare la guerra in Libia di nascosto.
La Costituzione calpestata dal ducetto del Partito Democratico.
agbiuso
Il culto della personalità in versione cogliona. Renzi è lo scemo del villaggio (globale).
Dal sito del governo italiano.
agbiuso
È in corso oggi pomeriggio la Direzione del Partito Democratico, aperta e critica come sempre.
agbiuso
Varoufakis contro Renzi: un confronto paradigmatico
di Sandro Vero, SiciliaJournal, 12/07/15
All’indomani della vittoria – e che vittoria! – del NO al referendum, Varoufakis, ministro in moto e in t-shirt, si è dimesso. Giusto per fornire agli sciacalli di Bruxelles un alibi in meno, data l’idiosincratica avversione che nutrivano nei suoi confronti.
Circola in questi giorni sul web e sui social network un gustoso post: le foto appaiate del ministro greco e di Renzi, con sotto una lunga didascalia che elenca i titoli professionali e accademici del primo – una roba da leccarsi i baffi – e che si conclude con un lapidario “….e l’altro è Renzi!”.
Il paradigma è tutto lì: due popoli, due storie, una nazione (quella greca) e un coacervo di esistenze private che collidono (spesso) o colludono (sempre), ma che non fanno una nazione.
[Continua]
agbiuso
Renzi, una sconfitta mal digerita
di Alberto Burgio, il manifesto, 18.6.2015
Non era difficile prevederlo. La reazione di Renzi alla pesante batosta dei ballottaggi di domenica scorsa è quella classica del bambino viziato affetto da un delirio di onnipotenza, in linea con l’escalation dell’arroganza che ha caratterizzato il primo anno di governo. Se la realtà delude, peggio per la realtà. Chi si aspettava un ripensamento ha fatto male i conti: lui rilancia, «aumenterà i giri», come ha spiritosamente spiegato commentando i trionfi di Venezia e di Arezzo.
L’analisi del voto prospettata dal presidente del Consiglio è a suo modo interessante. Ora la sconfitta non è più negata, come all’indomani del primo turno. Non è nemmeno imputata ai traditori di sinistra (vedi il caso Liguria). Renzi simula addirittura un’apparente autocritica. Il Pd ha realizzato cose mirabolanti, a cominciare dal Jobs act e dall’Italicum, ma non ha fatto abbastanza nel segno del cambiamento. Ma qui l’autocritica si ferma e si rovescia. L’unico errore è stato dar retta, per un momento, a chi gli diceva che stava sbagliando. In realtà il Pd ha perso perché è ancora in mezzo al guado, perché non si è rinnovato abbastanza. E anche il governo ha pagato un eccesso di timidezza nei confronti del vecchio. Ora però si cambia, o meglio, si torna all’antico. Cominciando proprio dal partito, dove Renzi annuncia di voler mettere «i suoi» (li avrebbe sin qui messi soltanto «al governo») «infischiandosene delle reazioni».
Detto fatto. I «giri» sono in effetti già aumentati, come si è visto. Sulla scuola si è passati al ricatto esplicito sulla pelle dei precari, col duplice scopo di non assumerli e di criminalizzare chi ancora nel Pd si permette di avanzare qualche timido emendamento. Sulla mafia si è passati al bombardamento del sindaco di Roma (sino a ieri difeso a spada tratta da Guerini e Orfini) con l’obiettivo di inserire anche la capitale tra le grandi città che voteranno tra un anno. Sulla Cassa depositi e prestiti si è passati all’assalto frontale per «mettere i suoi» al posto della vecchia guardia e porre le premesse per la privatizzazione.
Di tutto Renzi può essere accusato meno che di temporeggiare. È insaziabile e mosso da un rancore senza remore. Non occorre la sapienza dell’aruspice per prevedere che nei prossimi mesi farà altri disastri nel segno di una sfrenata prepotenza.
Insomma, nulla di nuovo, si potrebbe dire. Invece no, di novità ce ne sono, a ben guardare, diverse. E niente affatto irrilevanti. La prima riguarda proprio il Pd. Altre elezioni si avvicinano. Milano, Torino, Napoli, Bologna. Forse Roma, appunto. E probabilmente anche le politiche, visti i problemi del governo in Senato. Non è affatto escluso che nella primavera del 2016 si voti per tutto, e tutto lascia intendere che la guerriglia interna al partito ha le ore contate.
È vero che sinora Renzi ha sempre fatto quel che voleva e che al dunque i dissidenti del Pd hanno puntualmente obbedito. Ma d’ora in avanti nemmeno l’obbedienza basterà, né l’umiliazione. Il partito deve prepararsi ai prossimi decisivi appuntamenti elettorali proiettando di sé un’immagine di assoluta compatezza. Senza fatui psicodrammi né pesi morti. Ne vedremo presto delle belle.
Una seconda novità riguarda l’agenda politica del governo. Renzi ha bisogno di allontanare da sé l’ombra della sconfitta, quindi deve subito riprendere l’iniziativa per dimostrare che è forte come prima, anzi di più. «Da oggi le riforme sono più vicine, non più lontane», pare abbia sibilato commentando il risultato degli ultimi ballottaggi. Quali riforme non ha specificato.
Certo la legge costituzionale, certo la scuola. Poi si tratterà di inventare qualche altro fuoco d’artificio per trionfare sul terreno della propaganda. Su un’unica cosa sarebbe insulso farsi illusioni, ed è il segno politico di quel che intende fare. Renzi teorizza che l’Italia è un paese moderato che si governa «dal centro». Per questo ama allearsi con Berlusconi, Alfano e Verdini. Per questo adora Marchionne e sogna un unico grande sindacato giallo.
Il suo problema è semplice, almeno a parole: escogitare misure che, senza troppo deludere chi ancora lo considera «di sinistra», incantino l’elettorato centrista – il ceto medio spaventato e irriducibilmente antioperaio – giovando al tempo stesso agli amici che contano nelle imprese e nelle banche.
Ma la novità più importante concerne la fase politico-elettorale aperta da queste amministrative. Si è capito che Renzi è in larga misura un bluff.
Quel disgraziato 40% delle europee (pari al 20% in termini assoluti) è servito al governo per imporre decisioni rovinose ma non fotografa affatto la composizione politica reale del paese. Che è sempre più lontano dalla politica politicante e che, nella misura in cui va ancora a votare, mostra di mantenersi in sostanziale equilibrio fra i tre campi che oggi si spartiscono la scena mediatica e istituzionale: il Pd, il M5S e la destra di Salvini, Berlusconi e Alfano che la nuova legge elettorale provvederà a riunire. Certo, di qui a un anno possono accadere tante cose ma, se stiamo ai fatti e a quanto è prevedibile, lo scenario che il voto di queste settimane apre è inquietante.
Il Pd di Renzi è responsabile di scelte regressive sul piano sociale, economico e istituzionale. Nel giro di un anno ha sensibilmente aggravato le ingiustizie e le disuguaglianze che segnano il paese lasciando che tutto il peso della crisi si scarichi sui ceti più deboli. Proprio queste scelte rendono sempre più concreto il rischio che la destra torni al potere.
La destra ambigua dell’antipolitica e dell’improvvisazione o quella affarista e razzista della tradizione.
Quanto alla sinistra, la sua responsabilità – gravissima – sta, non da oggi, nel non esserci. Nel non riuscire ormai da anni a trovare una parola e forse una figura capaci di riconquistare la fiducia di quanti, in un passato tutto sommato recente, hanno investito nelle battaglie per il lavoro, la democrazia, la pace e l’ambiente. E di restituire loro il desiderio di ricominciare.
agbiuso
Piero Bevilacqua così conclude un suo articolato commento alla situazione politica:
Renzi, una sconfitta su tutti i fronti
il manifesto, 7.6.2015
Ma il conflitto con la sinistra interna e soprattutto le scelte del governo hanno toccato radici profonde del consenso su cui si è retto sinora il Pd. E occorre rammentare. Per ragioni di inerzia culturale, e per vari altri fattori, il Pd, agli occhi di tanti italiani, è apparso come l’erede storico del vecchio Pci. Se anche per un intellettuale radicale come Mario Tronti, il Pd è ancora IL PARTITO, figuriamoci quanto tale identificazione abbia operato nella mente di semplici militanti ed elettori. E per questa larghissima fascia del popolo della sinistra – che in Italia è vivo e vegeto nonostante gli scongiuri degli avversari – Il Jobs act ha significato la licenziabilità e la ricattabilità dei dipendenti da parte del padrone. Mentre la Buona scuola e il preside-manager sono apparsi un cuneo lacerante dentro la comunità scolastica, un diversivo autoritario per non affrontare il problema centrale: la remunerazione secondo standard europei dei nostri insegnanti.
Dunque, queste scelte di destra sono state punite dagli elettori di sinistra, ma non premiate dagli elettori di destra. Perché, visto che il centro-destra è ancora più diviso del fronte avversario? Credo che una risposta sia da cercare nel fatto che pressoché nulla è cambiato nella condizione della grande maggioranza degli italiani. La pressione fiscale si mantiene elevata, sia al centro che in periferia, ed è anzi in crescita, la disoccupazione non da segni di cedimento, salari e stipendi sono fermi, aumenta senza sosta il part-time. Nessuno di questi dati è stato scalfito dall’azione di governo, e Renzi va in giro spandendo sorrisi di letizia per la ripresa in atto. Ma tale forma di comunicazione è altamente controproducente: mostra agli italiani solo la sua strabiliante capacità di mentire. Non è tutto. Le forze di centro-destra, ma anche il movimento 5S, conducono una politica aggressiva nei confronti dell’Ue, ormai responsabile sempre più decisiva delle nostre disastrose condizioni. Ma Renzi, dopo i motteggi orgogliosi su « l’Europa cambia verso», dopo un semestre europeo senza sussulti, ha mostrato il suo perfetto allineamento ai voleri di Bruxelles, il solito perbenismo europeista di chi fa i compiti a casa. Con un ministro dell’Economia, Padoan, che sembra davvero credere nello screditato catechismo dei padroni dell’Ue. E questo ormai gli italiani non lo perdonano più a nessuno.
Dunque, il progetto di Renzi è crollato. E ciò non è avvenuto per imperizia. Se si è onesti occorre riconoscere che l’uomo è senza storia e senza cultura, privo perciò di visione. È solo tatticamente bravo: non basta per un grande paese nelle nostre condizioni. Con queste elezioni la destra italiana ha annusato il sangue e sa che può tornare a vincere, anche incrementando, come fa Salvini, la guerra tra poveri, visto che la riduzione del welfare e la disoccupazione l’alimentano. E ha sperimentato, anche con Toti, quanto sia conveniente opporsi a Renzi invece di collaborare. Questa stampella dunque verrà meno. A sinistra per il momento non c’è gran che, mentre resta in piedi la forza oppositiva dei 5S. Un movimento, com’è stato osservato, che ha mostrato la rapida maturazione di un gruppo dirigente giovane, radicato nelle realtà locali, malgrado l’estremismo infantile di Grillo e Casaleggio. Il bipolarismo che doveva mettere ai margini le «frange estreme» è a pezzi. Il partito della nazione resta un sogno di regime da riporre nel cassetto.
agbiuso
Il controllo totale del renzismo sull’informazione:
COSÌ IL PORTAVOCE DI RENZI PILOTA I GIORNALI E LE TV
di Carlo Tecce – Il Fatto Quotidiano, 24.05.2015
agbiuso
«Sindacato unico», «Partito della Nazione», Lista di minoranza che prende ⅔ dei parlamentari, il preside capo assoluto delle scuole.
Il Partito Democratico e il suo segretario il fascismo ce l’hanno proprio nel DNA.
agbiuso
Come di consueto, le analisi di Alberto Burgio sono tanto argomentate quanto lucide.
È proprio questo il “fascismo del Duemila”, il fascismo del Partito Democratico
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Il fortino del reuccio, il manifesto, 17.5.2015
Quel che sarà il parlamento italiano dopo che il disegno renziano sarà giunto in porto è ampiamente noto. La Camera dei nominati e della maggioranza governativa a priori funzionerà senza intoppi come cassa di risonanza e ratifica; il Senato dei gerarchi e dei podestà perfezionerà l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Il tutto per la legittimazione «democratica» delle decisioni di palazzo Chigi. A quel punto l’Italia sarà un caso unico di Repubblica monocratica dominata da un capo di governo plenipotenziario, eletto da una minoranza di cittadini e posto in condizione di controllare le autorità di garanzia e tutti i poteri dello Stato, eccezion fatta (fino a quando?) per la magistratura.
Tra poco — probabilmente tra un annetto — questo programma comincerà a realizzarsi organicamente. Ma non dobbiamo aspettare nemmeno pochi mesi per assaporarne i primi frutti avvelenati. Quanto sta accadendo con la «riforma» della scuola è un’anticipazione molto istruttiva di ciò che ci attende. Un indizio e una prova tecnica, somministrata per testare il paese e per assuefarlo al nuovo che avanza.
Raramente, forse mai prima d’ora, si era assistito alla scena di un ramo del parlamento italiano che vota in tranquillità a favore di un provvedimento di indiscutibile rilevanza (che modifica in profondità strutture e modo di operare di un settore vitale della società, e le condizioni materiali di lavoro e di vita di milioni di cittadini) mentre l’intero comparto investito da quel provvedimento esprime la propria assoluta contrarietà. Lo sciopero del 5 maggio e la manifestazione contro le prove Invalsi possono essere giudicati come si vuole, ma su una cosa non sarebbe serio eccepire. Entrambi attestano l’unanime avversione del complesso mondo della scuola — insegnanti, studenti, personale tecnico e amministrativo — a un modello che non per caso ruota intorno a due cardini della costituzione neoliberale: la sedicente meritocrazia (foglia di fico propagandistica a copertura del ritorno a logiche censitarie, autoritarie e oligarchiche) e la privatizzazione della sfera pubblica.
C’è tutto sommato di che stupirsi per la prontezza e precisione della diagnosi che insegnanti e studenti hanno fatto della «buona scuola» renziana. Evidentemente l’ideologia mercatista non ha ancora totalmente invaso l’anima del paese. O forse la realtà della scuola italiana è talmente evidente nelle sue contraddizioni e miserie da non permettere quelle operazioni di cosmesi — di camouflage, direbbe qualcuno — che funzionano altrove. Studenti, operatori della scuola e tanti genitori sanno troppo bene che cosa in realtà si nasconde dietro la vergognosa retorica dell’«eccellenza» e dell’«autonomia», della «selezione» e della logica premiale del «merito». E dietro il ricatto della stabilizzazione della metà dei precari in cambio dell’accettazione dell’intera «riforma».
In un paese che figura stabilmente all’ultimo posto della classifica Ocse per la percentuale di Pil investita nella formazione dei giovani le chiacchiere restano a zero. A chiarire come stanno le cose provvedono gli edifici fatiscenti e i tanti soldi come sempre regalati alle private. Le collette per comprare la carta igienica e il toner delle stampanti. E i bassi salari degli insegnanti di ogni ordine e grado, responsabili anche del poco rispetto che taluni genitori mostrano nei riguardi di chi si impegna per istruire i loro venerati rampolli.
Sta di fatto che contro la «riforma» renziana la scuola ha messo in campo una protesta pressoché universale, benché anni di divisioni tra le organizzazioni sindacali e un’eccessiva timidezza nelle iniziative di lotta rischino di vanificare le mobilitazioni. Non solo la scuola si è fermata in occasione delle agitazioni, ma è in fermento da settimane e manifesta senza reticenze un consapevole e argomentato dissenso. Peccato che tutto questo al parlamento non interessi né poco né punto. Quel che si mostra allo sguardo degli osservatori è uno sconcertante parallelismo, quasi che «paese legale» e «paese reale» non fossero distinti ma dialetticamente connessi, bensì proprio dislocati su pianeti diversi. Per cui quanto accade nell’uno — le agitazioni, le preoccupazioni, il disagio, la protesta — non turba l’impermeabile autoreferenzialità dell’altro, ormai (di già) assorbito nella recezione e promozione della volontà del reuccio che si balocca alla lavagna col suo approssimativo idioma burocratico.
Certo, non è la prima volta che si assiste a un fenomeno del genere. Qualcosa di simile è già accaduto col Jobs act, varato mentre le fabbriche erano in subbuglio per la cancellazione dell’articolo 18. Ma si sa che le questioni di lavoro e in particolare di lavoro operaio dividono il paese (e gli stessi sindacati) e offrono ai governi ampi varchi per operare forzature. Il caso della scuola è diverso per la sua connotazione essenzialmente interclassista e per questa ragione prefigura plasticamente il quadro al quale dovremo abituarci nel prossimo futuro. Protesti pure il paese, scendano pure in piazza i cittadini, si mobiliti quel che resta dell’opinione pubblica. La cittadella della politica non si degna nemmeno di verificare la pertinenza delle doglianze, tanto basta a se stessa e può fare da sé, in una miserabile riedizione dell’autocrazia di antico regime. Può darsi che questa non sia che un’illusione e che un programma incentrato sull’autonomia del politico si riveli, oltre che indecente, impraticabile in virtù della reattività del corpo sociale. Ma di certo risulta evidente a quale poverissima cosa si saranno ridotti, in tale scenario, parlamentari e partiti. Mentre la politica avrà negato se stessa con l’essersi anche formalmente ridotta a mera funzione di dominio di una casta sulla cittadinanza costretta a obbedire.
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agbiuso
Attento Renzi.
Gli dèi puniscono la ὕβρις
Il sinistro
il manifesto, 13.5.2015
agbiuso
Il fascista Adriano Tilgher sostiene il candidato alla Regione Campania De Luca (Partito Democratico) e dichiara che “Renzi è il vero leader di centrodestra”
agbiuso
Appena Roberto Saviano apre bocca su una varietà di argomenti, tutto il mainstream pravdesco ne dà conto. Ora che invece ha dichiarato con estrema chiarezza che “nel Partito Democratico c’è Gomorra“, i giornali -tranne il Fatto Quotidiano– tacciono con impressionante silenzio.
Allora ripetiamolo: il Partito Democratico è un partito colluso con la mafia, di sicuro in Campania e in Sicilia, molto probabilmente anche altrove. Chi lo vota e chi lo sostiene della mafia si fa complice.
agbiuso
Impossibile illudersi sulla firma di Mattarella. Una delle condizioni della sua nomina a presidente è stata proprio la promulgazione della legge elettorale mussoliniana.
agbiuso
La legge elettorale approvata ieri dal Partito Democratico-Nuovo Centrodestra mostra in modo lampante come la democrazia “rappresentativa” sia una finzione di democrazia, sia un’alchimia tecnica dove una minoranza può prendere il potere con il consenso di meno di un quarto dei cittadini.
Basta leggere l’editoriale odierno del manifesto per capirlo con sufficiente chiarezza: Il governo della minoranza, di Gianni Ferrara
Biuso
Televideo – 30/04/2015 10:23
Opposizioni: Italicum come legge Acerbo
10.23 Le opposizioni confermano il no all’Italicum e al governo nel secondo voto di fiducia chiesto all’esecutivo alla Camera. M5S, Fi, Sel, Lega Nord, Fdi criticano, in un’aula semi vuota di Montecitorio, l’Italicum e la richiesta di fiducia una legge, precisano, di rilievo costizionale.
Renzi è definito “un infingardo”. Attaccano la sua visione di “un uomo solo al comando” e “la deriva autoritaria” del governo. Tornano a paragonare l’Italicum alla legge Acerbo fatta approvare nel 1923 dal fascismo.
agbiuso
Grazie, caro Dario. Sì, “servi e padroni” insieme stanno distruggendo molto -in libertà, diritti, giustizia- di ciò che la lotta contro il mussolinismo aveva dato all’Italia. E a farlo sono gli ex democristiani e gli ex comunisti, diventati emuli, eredi e complici di Berlusconi. Rivoltante.
Dario Generali
Caro Alberto,
condivido sia quanto sottolinei tu, sia quello che scrive Norma Rangeri.
Purtroppo il popolo italiano, a parte una significativa ed eroica minoranza, è costituito da servi e da cialtroni, che sono destabilizzati in assenza di un padrone che sia per loro un riferimento, comunque da imbrogliare e tradire alla prima occasione.
Spiace però soprattutto pensare che le istituzioni repubblicane che si stanno ora sabotando e destrutturando sono state conquistate a caro prezzo dalla lotta di liberazione antifascista, che è stata anche, insieme al Risorgimento, uno dei pochi momenti di riscatto nazionale, e che quella libertà che la nostra generazione ha avuto in dono dai martiri del Risorgimento e della Resistenza dovrà essere probabilmente riconquistata dai nostri figli e dai nostri nipoti con quello stesso tributo di sofferenza e di sangue, che si sperava di non dover più versare per avere quello che ci sembrava ormai garantito per sempre.
Un caro saluto.
Dario
agbiuso
Celodurismo renziano
di Norma Rangeri, il manifesto, 29.4.2015
Sarà pure in ballo la democrazia, come dice un Bersani affranto dalla sorpresa annunciata del voto di fiducia sulla legge elettorale. Tutto sta a mettersi d’accordo sull’inizio di questa danza macabra attorno alle regole della nostra convivenza politica.
Come sosteniamo da tempo, la democrazia non viene né improvvisamente sfigurata, né pesantemente umiliata solo in riferimento alla legge elettorale e alla riforma costituzionale. Al contrario, la manomissione degli assetti istituzionali della repubblica parlamentare rappresenta solo un approdo. Una lineare conseguenza degli anni in cui l’ex segretario del Pd partecipava al governo Monti per mondare la democrazia delle scorie berlusconiane. Peccato che con l’acqua sporca si stava buttando via anche l’argine rappresentato dall’idea stessa di un governo eletto, preferendo imboccare la via delle riforme dettate dai poteri europei. Renzi ha trovato la strada in discesa e l’ha percorsa con piede veloce usando i rapporti di forza fino alla cancellazione dello statuto dei lavoratori, alla riduzione del mondo del lavoro a esercito di riserva di Confindustria.
Il fatto è che ora, con la decisione di mettere la fiducia sull’Italicum, siamo giunti alle battute finali, al conclusivo giro di boa di una navigazione che fin dall’inizio ha fatto rotta verso l’approdo neocentrista. Se la mannaia della fiducia per portare a casa rapidamente una legge elettorale rappresenti il preludio dell’atto successivo (le elezioni anticipate) lo vedremo. Quello che invece è già chiarissimo riguarda la cancellazione di un’idea di pluralismo sociale, politico, istituzionale.
Senza neppure scomodare i famigerati precedenti (la legge Acerbo del 1923 e la legge truffa del 1953) basta, e avanza, osservare che questa fiducia è una bastonata sulla schiena di un parlamento già piegato e delegittimato dall’essere il risultato dell’incostituzionale Porcellum. Una bastonata premeditata, vibrata a freddo nonostante il rassicurante lasciapassare ottenuto nel voto segreto sulle pregiudiziali di incostituzionalità. A dimostrazione che al fondo della versione renziana di questo “celodurismo fiduciario” non c’è tanto il timore di non avere la maggioranza parlamentare sull’Italicum (naturalmente possibile ma non probabile), quanto la voglia di togliersi di torno i rompiscatole della minoranza.
Saranno pure solo una ventina quelli decisi a non votargli la fiducia, ma restano il fastidioso contraltare mediatico al leader, tanto più molesto finché il gruppetto resta dentro il Pd a sceneggiare il dissenso a ogni direzione o festa dell’Unità senza l’Unità. Sparare col cannone della fiducia al drappello degli antirenziani del Pd è un atto spropositato se proprio la dismisura non fosse il segno di chi scambia il potere con il governo.