Le democrazie contemporanee sono ridotte alla condizione di oligarchie finanziarie tenute in piedi dalla distribuzione di profitti a ben precise organizzazioni -tramite le strutture dell’economia legale e criminale- e da un apparato mediatico assolutamente ferreo, il quale presenta come universali, giuste e indiscutibili delle discutibilissime e strumentali espressioni ideologiche quali i diritti dell’uomo e il connesso gergo del politicamente corretto. I segnali linguistici di tale tendenza sono assai numerosi. Un esempio molto chiaro è la scomparsa della parola «sfruttati», sostituita da termini quali «esclusi, sfavoriti, ultimi» e soprattutto «discriminati». Mentre lo sfruttamento implica la critica a un ben preciso sistema produttivo e rapporto di produzione, i termini psicologistici e sociologici che lo hanno sostituito rimandano invece a una vaga e quindi innocua forma della morale (si comprende meglio, tra l’altro, quanta ragione avesse Nietzsche nel volere andare al di là del bene e del male).
La natura autoritaria del discorso politico e mediatico costruito su tali fondamenta arriva al suo vertice nella trasformazione dei sistemi elettorali da semplici metodi di amministrazione della volontà degli elettori a strutture ontologiche il cui obiettivo sarebbe una «governabilità» diventata l’altro nome -il nome soft– della dittatura. Ha ragione Marco Tarchi a iniziare una sua lucida analisi (dal significativo titolo I malpensanti) ricordando che «qualunque studente del primo o secondo anno di una Facoltà di Scienze politiche sa che le leggi elettorali sono uno strumento per eccellenza manipolativo. Servono cioè, a seconda della formula che ne è alla base, a distorcere il rapporto fra la volontà degli elettori, espressa attraverso il voto a un candidato e/o a un partito, e l’esito delle loro scelte, ovvero la presenza nelle istituzioni di eletti che corrispondano alle loro opinioni ed aspettative» («Diorama letterario», n. 318, pp. 1-3).
Chi è consapevole che i sistemi elettorali della democrazia rappresentativa costituiscono gli aritmetici e raffinati strumenti del dominio antidemocratico, ha sostanzialmente due alternative: il rifiuto del metodo elettorale (è la tesi della tradizione anarchica) o il voto dato alle formazioni che difendono esplicitamente la democrazia diretta e il controllo sugli eletti, formazioni che il mainstream mediatico liberista stigmatizza con la qualifica di «populisti». Una parola, quest’ultima, dal significato semplicemente descrittivo -analoga a termini quali «conservatori, socialisti, liberali, anarchici, comunisti»- e che invece ha assunto connotati valutativi e addirittura spregiativi. Il populismo viene definito antipolitico mentre è evidente che si tratta di una opzione politica come le altre e anzi volta a restituire significato ai diritti del demos ponendosi contro lo strapotere delle strutture amministrative e di governo, tese soltanto a blindare il potere di cerchie ristrette e tendenti all’autoperpetuazione dei privilegi acquisiti in decenni di espropriazione della democrazia dal basso.
La tendenza a criminalizzare le posizioni politiche distanti dagli assetti di governo attualmente imperanti in Europa si fa sempre più pericolosa poiché tocca il cuore stesso della libertà, che è il diritto di parola, di critica, di distanza dalle idee dominanti. Può sembrare un ossimoro e invece è la descrizione forse più adeguata degli eventi: quella in cui viviamo è e va sempre più diventando una dittatura liberale.
[Photo by Randy Colas on Unsplash]
15 commenti
agbiuso
Condivido interamente questa analisi delle condizioni che hanno reso possibile che “36 persone siano morte nella calca per afferrare mazzette di dollari falsi. Sono morte sotto le insegne di grandi banche per afferrare il nulla”.
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C’è qualche attinenza tra due date: il 9 novembre del 1989 e il primo gennaio del 2015?
26 anni fa crollò il muro di Berlino e l’economista Francis Fukuyama: profetizzò la fine della Storia in quanto il processo di evoluzione sociale, politica ed economica dell’umanità aveva raggiunto il suo apice e si sarebbe avviato alla sua una fase finale. Era sottinteso in questo il trionfo finale delle democrazie contro i totalitarismi espressi dalla dittatura sovietica. Invece si trattava di tutta un’altra storia, dell’avvento del super capitalismo che avrebbe travolto le democrazie, una minaccia più seria del comunismo. Dal 1989 la parola democrazia è stata sostituita da libero mercato che però non è per nulla libero in quanto dominato da imperi bancari ed economici che sovrastano i governi nazionali senza bisogno di usare le armi, neppure una pistola giocattolo, usano più semplicemente il denaro.
Dio o Mammona? Non c’è più distinzione. Non si può più scegliere. Mammona è diventato Dio. Non c’è più dualismo. La politica è compravendita di voti alla luce del sole. Di alto e (come si diceva un tempo) e nobile non ha più nulla. Ci si vende per 80 euro senza vergogna e la ricchezza si concentra sempre più in poche mani. Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, diceva Gesù, ma oggi Cesare ti chiede il pizzo, non la partecipazione sociale e Dio è morto quando si uccide per 15 euro: cappuccio, brioche e succo di frutta e ci si fa corrompere senza vergogna rimanendo al proprio posto quando scoperti.
Il capitalismo moderno e la democrazia sono nemici giurati. Il trucco del capitalismo è di fingersi necessario per l’attuazione della democrazia. Ma è una balla. Il capitalismo attuale è un lupo travestito da buon pastore che divora qualunque cosa, a partire dalle coscienze per arrivare a divorare l’intero pianeta con parole magiche come Pil e crescita insostenibili nel medio termine. Cosa è importante più della vita? Oggi è il denaro.
Il primo dell”anno del 2015 si è aperto con una tragedia di un paese post comunista diventato supercapitalista. Neppure nei peggiori incubi di Mao in una strada di Shanghai dal nome Bund il cui significato è “le rive della baia fangosa” lungo il fiume Huangpu, costellata da edifici che ospitano importanti istituti bancari, 36 persone sono morte nella calca per afferrare mazzette di dollari falsi. Sono morte sotto le insegne di grandi banche per afferrare il nulla.
Fonte: Le rive della baia fangosa #supercapitalismo
agbiuso
L’incipit -“Mario Draghi, il grande illusionista, ha tirato fuori un altro coniglio dal cappello, ma questa volta i mercati potrebbero rubarglielo per arrostirlo- e il finale – “Morale: ci risiamo, non abbiamo imparato nulla dalle ultime crisi”- incorniciano un’analisi tanto tecnica quanto chiara. E soprattutto realistica, ben lontana dalle menzogne dei governi, a partire dall’italico.
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Crisi euro: il coniglio dal cilindro di Mario Draghi
di Loretta Napoleoni | il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2014
Mario Draghi, il grande illusionista, ha tirato fuori un altro coniglio dal cappello, ma questa volta i mercati potrebbero rubarglielo per arrostirlo. Ed infatti i broker di mezzo mondo hanno già iniziato a diffondere la notizia del prossimo banchetto. Ma andiamo con ordine e spieghiamo bene cosa sta succedendo nella quasi moribonda economia europea.
Ormai è chiaro che Eurolandia è in deflazione, su questo nessuno ha alcun dubbio anche se i falchi tedeschi continuano a negare l’evidenza. Deflazione legata alla caduta della domanda, basicamente non ci sono soldi e le aspettative della popolazione sono negative, non c’è fiducia nei governi e nella finanza. Risultato i prezzi iniziano a scendere perché nessuno compra e questo deprime ulteriormente l’economia e gli umori. Scenario nero insomma.
Nel mercato finanziario le cose non vanno certamente meglio: 700 miliardi di euro di Asset Back Securities, debiti creati dai giochi di prestigio dei derivati, quasi tutti contratti da piccole e medie imprese; 1.700 miliardi di indebitamento bancario ancora da smaltire in qualche modo, anche questo principalmente relazionato ai giochi di prestigio dei derivati. Un debito che pesa come un macigno sulle banche, ecco perché non prestano soldi alla gente né alle medie e piccole imprese, risultato: manca liquidità sul mercato.
Ed ecco la soluzione di Mario Draghi: la Banca centrale europea si impegna ad acquistare 500 miliardi di euro di asset back securities dalle banche, allo stesso tempo la banca ha abbassato il tasso di rifinanziamento a 0,05% ed alzato a 0,2 per cento quello che le banche devono pagare per tenere i soldi presso la Bce.
Come possono queste due misure aiutare la deflazione? Per acquistare 500 miliardi di asset back securities Draghi deve stampare moneta, e lo deve fare in un momento in cui gli Stati Uniti stanno riducendo l’ammontare di carta moneta che immettono sul mercato nazionale ogni mese. Questo dovrebbe deprimere i tassi di cambio ed infatti l’euro dopo il discorso di Draghi è sceso sotto 1,30 rispetto al dollaro. L’indebolimento dell’euro dovrebbe ‘importare’ inflazione’ – il costo delle importazioni aumenta e questo spinge i prezzi verso l’alto. Ma l’esempio del Giappone ci dice che questa manovra non funziona sempre, specialmente se la gente invece di pagare di più decide di non comprare affatto.
L’offerta di acquisto di asset back securities dovrebbe indurre il settore privato, e cioè finanziarie, fondi di investimento ecc. ad acquistarle dalle banche – in pratica Draghi ne garantisce il valore – quindi ridurre l’esposizione al debito delle banche che a loro volta potrebbero ricominciare a prestare soldi. Ma anche in questo caso la manovra funziona solo se ad un certo punto la gente ricomincia a comprare e l’industria a produrre altrimenti il tutto potrebbe diventare un volano speculativo. Ed infatti i consigli dei broker sul mercato dei capitali questo fine settimana fanno presagire questo scenario.
Dato che manca fiducia in una vera ripresa economica europea – pochi credono all’inflazione monetaria importata quale soluzione della deflazione ed ancora meno alla ripresa della domanda attraverso il credito delle banche – l’ultimo coniglio di Draghi potrebbe creare un nuovo carry trade, cioè ci si indebita in euro per investire in dollari, ed ecco come funziona.
Le banche cedono le asset back secuties alla Bce e con i soldi che ricevono acquistano beni in dollari, questo deprime l’euro e fa salire il dollaro. Lo stesso fenomeno avvenne alle fine degli anni Novanta con lo yen, ci si indebitava in yen a tasso zero ed in una moneta in fase discendente per investire nel resto del mondo in beni e monete in fase ascendente. Il crollo dell’Islanda avvenne proprio per questo, quando lo yen iniziò a rivalutarsi il debito dell’Islanda aumentò a dismisura fino a portare il paese alla bancarotta. Un esempio eclatante dell’economia canaglia della globalizzazione.
Morale: ci risiamo, non abbiamo imparato nulla dalle ultime crisi.
Biuso
Il presidente francese Hollande licenzia un ministro critico verso la troika e lo sostituisce con Emmanuel Macron, ex banchiere Rothschild.
Formidabili questi socialisti!
agbiuso
Cominciano a ravvedersi?
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Se gli ortodossi si scoprono eretici
di Felice Roberto Pizzuti, il manifesto 22.8.2014
Sul Sole 24 ore del 20 agosto sono apparsi due istruttivi articoli di Donato Masciandaro e Luigi Zingales entrambi, pur con diversi accenti, autorevolmente inseriti nel mainstream del pensiero economico. Entrambi manifestano la preoccupazione per l’accoppiata recessione-deflazione che in Europa sta caratterizzando questa fase della crisi in atto dal 2007–2008 e analizzano cosa potrebbe fare (e non fa) la Bce per uscirne.
Entrambi sottolineano che l’eurozona si trova nella situazione di trappola della liquidità (abbondanza di offerta di moneta e bassi tassi d’interesse che, tuttavia, non stimolano l’attività dei mercati perché la domanda e le aspettative su di essa sono basse) che, giova ricordarlo, è una condizione illustrata da Keynes per evidenziare i imiti non solo della politica monetaria, ma prima ancora dei mercati che non riescono ad attivare la produzione.
Dunque ci sarebbe bisogno di politiche fiscali espansive, ma nell’Ue ciò è ostacolato sia dall’assenza di una politica fiscale comune sia dalle preclusioni alle politiche di bilancio nazionali derivanti dai vincoli comunitari restrittivi (fiscal compact). Entrambi sottolineano che aver creato la Bce in assenza di un interlocutore statale comunitario e averle affidato solo l’obiettivo di lotta all’inflazione e non anche alla disoccupazione, mette la Bce stessa, ma soprattutto l’economia dell’eurozona, in gravi difficoltà rispetto al rilancio della crescita. Entrambi si dichiarano propensi a rimuovere un caposaldo della posizione dominante costituito dal divieto ai governi di contare sul finanziamento monetario della spesa pubblica.
Per superare questi ostacoli, Masciandaro propone che la Bce acquisti titoli di stato e che lo stesso tetto del 2% all’inflazione sia innalzato (temporaneamente). Tuttavia, ritenendo la politica europea ancora incapace a gestire una politica fiscale comune (e i suoi effetti redistributivi), la Bce dovrebbe acquistare titoli emessi solo da stati non europei (non solo americani).
In questo modo si avrebbe un aumento dell’offerta di euro con effetti positivi anche in termini di deprezzamento del suo tasso di cambio, ma – su questo Masciandaro sorvola – la nuova moneta creata dalla Bce andrebbe a finanziare solo il debito pubblico di altri paesi. Zingales fa una proposta ancora più “spregiudicata” rispetto ai fondamenti del mainstream cui appartiene e dei Trattati europei. Ma per non apparire uno “spergiuro”, si “appoggia” ad un paradosso di Milton Friedman secondo cui per sconfiggere la deflazione basta che la banca centrale “lasci cadere il denaro da un elicottero”. Un’ipotesi molto più eterodossa del sotterrare denaro e finanziare chi scava e riempie le buche fatta da Keynes! Tranne che, mentre quello di Friedman è un paradosso rispetto alla sua impostazione analitica che prescrive la “regola aurea” che esclude politiche monetarie (e non solo) espansive perché i mercati sanno crescere da soli, per Keynes, normalmente, i mercati non hanno questa capacità e la politica economica deve regolarmente intervenire per evitare disoccupazione e crisi. Ma Zingales sorvola su questo particolare e, comunque sia, propone che la Bce finanzi la spesa pubblica dei paesi europei ogni qual volta l’inflazione scenda sotto ‘1%; il che significa che avrebbe già dovuto farlo da un pezzo.
Questi sconfinamenti nell’eterodossia e i sempre più frequenti richiami di tutti i commentatori di formazione economica main stream alla necessità di “politiche non convenzionali” confermano le analisi critiche inascoltate rivolte da decenni al modello neoliberista che prescrive la non intromissione delle istituzioni pubbliche nell’attività dei mercati. Vengono anche convalidate le specifiche critiche a come è stata costruita l’Unione europea cioè con un elevato deficit istituzionale e democratico ovvero con una forte carenza della necessaria interazione delle decisioni collettive rispetto a quelle individuali prese nei mercati. La sempre più riconosciuta necessità di sostenere una domanda consistente e stabile anche per consumi — pregiudicata invece dalle accresciute diseguaglianze distributive e dalla precarietà dei redditi da lavoro (la trappola della liquidità dipende pure da questo) — richiama gli effetti controproducenti di aver progressivamente scaricato nei passati decenni la maggiore incertezza generata dai mercati globalizzati sui lavoratori.
In questo contesto di progressivo ravvedimento (magari inconsapevole) imposto dalla realtà della crisi rispetto all’impostazione delle politiche seguite in Europa spiccano, da un lato, la perdurante caparbietà dei responsabili della politica comunitaria e, d’altro lato, la sua condivisione da parte di chi più duramente ne sopporta le conseguenze. Il governo Renzi (“rispetteremo il 3%”) come primo intervento ha aumentato la flessibilità (precarietà) del lavoro, ha elargito i famosi 80 euro (solo ad alcuni fasce di lavoratori, escludendo però anche quelle più bisognose) che non hanno aumentato la domanda di chi li ha ricevuti ma, per finanziarli, ha ridotto altri canali della spesa pubblica e adesso spinge addirittura a prelievi sulle pensioni, e non su quelle private che sono incentivate fiscalmente, ma solo su quelle pubbliche, che già sostengono il bilancio pubblico con un saldo attivo di 24000 miliardi tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali). Esattamente il contrario di “equità e sviluppo”.
agbiuso
«A suon di ‘riforme’ l’Europa si sta suicidando […] Vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. […] In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo».
Parole del Movimento 5 Stelle? No, l’esatta analisi della situazione politico-economica da parte di Alberto Burgio, sul manifesto.
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L’inchino europeo al capitale privato
di Alberto Burgio, il manifesto 20.8.2014
Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle «riforme strutturali» imperversa più forte che mai.
Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere. Sta di fatto che a suon di «riforme» l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano.
Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi-benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’eurozona.
Quale modello, è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le «riforme strutturali» di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a «far quadrare i conti» significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale.
La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione).
Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza-lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.
Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’intrapresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale.
A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo-chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.
Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza-lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne.
Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.
La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato fiscal compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.
Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.
agbiuso
Prima l’Italia uscirà dall’Euro, prima la nostra economia potrà riprendersi.
Una traduzione italiana di questo esplicito ed esatto articolo di Ambrose Evans-Pritchard si può trovare qui: Fuori dall’Euro per non morire
Link alla versione originale: Italy’s Renzi must bring back the lira to end depression
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Italy has been in depression for almost six years. The slump has been punctuated by false dawns, overwhelmed each time by the monetary amateurs in charge of EMU policy.
The latest recovery fizzled after a single quarter. The economy is in technical recession again. Output has collapsed by 9.1pc from the peak, back to levels last seen 14 years ago. Industrial production is down to 1980 levels.
It takes spectacular policy errors to bring about such an outcome in a modern economy. Italy did not suffer anything like this during the Great Depression, clocking up growth of 16pc between 1929 and 1939. But not even Mussolini was maniacal enough to pursue his Gold Standard delusions until the bitter end.
The Italian authorities discern flickers of recovery, like fortress guards in Dino Buzzati’s Desert of the Tartars, deceived by optical illusions on the lifeless horizon. Bank loans to business are still falling at a rate of 4.5pc. Moody’s says the economy will contract by 0.1pc this year. Societe Generale is pencilling in -0.2pc.
The property slump has not yet touched bottom. The Bank of Italy said the number of months needed to sell a house has risen to 9.4, from 8.8 late last year. The number reporting worsening market conditions has jumped from 19.6pc to 34.7pc in three months.
“We can’t keep going any longer,” said the Taranto branch of Italy’s business lobby, Confindustria, in an open letter to the country’s president. The region is becoming an “industrial desert”, it warned, with small companies on the brink of mass closures and lay-offs.
The lethal mix of economic contraction and zero inflation is causing Italy’s debt trajectory to spiral upwards, despite austerity and a primary surplus of 2pc of GDP.
Public debt jumped to 135.6pc in the first quarter from 130.2pc a year earlier. This is a mechanical effect, the result of a compound interest burden on a static nominal base. Real interest rates on Italy’s €2.1 trillion stock of debt – with an average maturity of 6.3 years – is actually rising as deflation draws closer.
The debt ratio may test 140pc by the end of the year, uncharted waters for a country that effectively borrows in D-Marks. “Nobody knows when the markets will react,” said one Italian banker.
The recession is eroding tax revenues so badly that premier Matteo Renzi will have to come up with fresh cuts of €20bn to €25bn to meet EU deficit targets, perpetuating the vicious cycle.
The task is hopeless. A study by the Bruegel think-tank found that Italy must run a primary surplus of 5pc of GDP to stabilise the debt at 2pc inflation. This rises to 7.8pc at zero inflation. Any attempt to achieve this would lead to a self-defeating implosion of the Italian economy.
Ashoka Mody, until recently a top IMF bailout official in Europe, said the Fund’s internal studies deemed it is impossible to run primary surpluses on the scale needed. He advises the Italian authorities to start consulting “smart sovereign debt attorneys to ensure orderly debt restructuring”.
“This does not have to be a one-off cataclysm. There are ways of stretching out the obligations over time. But there is no point waiting until the ratio reaches 150pc. They should get on with it right away,” he said.
Eugenio Scalfari, the doyen of La Repubblica and a leader of Italy’s EMU establishment, says the relapse over recent months has killed off all illusions. He advised Mr Renzi to prepare for a rescue. “I must speak a bitter truth because we can all see the reality before our eyes. Perhaps Italy should put itself under the control of the Troika of the [European] Commission, the ECB and the IMF,” he said.
Mr Scalfari seems to think Italy’s democracy should be suspended to save the euro, that the country should double down on scorched earth policies, embarking on an even more draconian effort to regain competitiveness by means of an internal devaluation.
The young Mr Renzi – 17 years old when the Maastricht Treaty was signed, and therefore free from original sin – might equally conclude the opposite, that the euro should be jettisoned to save Italy.
It is an incontrovertible fact that Italy’s 14-year disaster coincides with EMU membership. This does not prove causality. It suggests that EMU set off a very destructive dynamic for Italy’s particular circumstances, and is strong evidence that EMU now prevents the country from breaking out of the trap.
We forget that Italy used to run a trade surplus with Germany in the pre-EMU days. The north Italian industries were viewed as formidable competitors, whenever the lira was weak.
Antonio Guglielmi, from Mediobanca, says Italy held its own before it fixed the lira against the D-Mark in 1996. Only then did it enter a “negative productivity spiral”.
In a damning report, he showed how Italy’s productivity growth and competitiveness faltered each time it pegged its currency to Germany over the past 40 years. It roared back with each devaluation.
One reason is that Italy’s economy’s has 67pc “gearing” to the exchange rate due to the kinds of products it makes, compared with 40pc for Germany. The Achilles Heel is the backward half of Italy’s economy, mostly the Mezzogiorno, that competes toe-to-toe with China and the emerging economies of Asia, Turkey and eastern Europe in price-sensitive sectors.
I do not wish to revisit the stale debate over why Italy kept losing labour competitiveness against Germany for a decade and a half, except to say that it proves just how hard it is to bend Europe’s deeply-rooted cultures to the demands of a currency experiment. Economists said EMU nations would converge. Anthropologists and historians said they would do no such thing.
However we got there, the situation is now untenable. Italy is 30pc overvalued against Germany. It cannot claw this back by deflating since Germany itself is near deflation.
The EMU elites exhort Italy to “reform”, a term that is thrown around loosely. “It is all wishful thinking. The labour market metrics for Germany and Italy do not look that different. It is no easier to hire and fire in Germany,” said Mr Modi, who used to head the IMF’s German desk.
Professor Giuseppe Ragusa, from Rome’s Luiss Guido Carli University, said Italy’s chief failure is lack of investment in human capital. “What really stands out is how far behind we are in education,” he said.
Data from the OECD show that Italy spends just 4.7pc of GDP on education, compared with 6.3pc across the OECD. The proportion aged 25-34 completing higher studies is 21pc, compared with an average of 39pc. Teachers are paid a pittance.
This is indeed a huge structural problem, but not one that can be solved by “reform”, let alone by austerity. Few dispute the Italian state needs a radical overhaul. But what Italy also needs is a fiscal New Deal, a massive investment in infrastructure and skills, backed by monetary stimulus to lift the country out of its suffocating cosmic gloom. Mr Renzi must know by now that this cannot be done under the existing EMU regime.
He suddenly finds himself in the same ghastly predicament as Francois Hollande in France. He railed against EMU austerity as an outsider, only to submit quietly once in office, assured by his advisers that the recovery was safely under way. Both have slumps hanging round their necks.
The difference is that Mr Hollande is beyond saving. The EMU contraction regime has destroyed his presidency. Le Figaro is running a fictional summer series exploring an early resignation. Mr Renzi has not yet burned through his political capital, and he is a gambler by nature.
There is no longer any chance of Italy and France leading a Latin revolt together, mustering their majority power in the European Council and central bank to force through an EMU-wide reflation strategy that entirely changes the economic landscape. Mr Hollande has wilted as a political force, cleaving to Germany come what may. The Spanish think – mistakenly – that they are out of the woods, and have no need of it.
Mr Renzi is on his own. He faces an ECB that has fundamentally violated its contract with Italy, letting EMU-wide inflation fall to 0.4pc knowing that this causes the Italian crisis to metastasise. He faces an incoming Commission vowing to enforce the same disastrous policies that have already proved ruinous.
There is no point negotiating. These institutions have failed to ensure a symmetric adjustment that compels both North and South to take equal steps to close the intra-EMU divide from both ends, befitting their equal responsibility for mismanaging the EMU joint venture in its early years. By enforcing the will of creditors, they have run monetary union into the ground. They have no legitimacy left.
Italy must look after itself. It can recover only if it breaks free from the EMU trap, retakes control of its sovereign policy instruments and redominates its debts into lira, with capital controls until the dust settles.
Italy would not face an immediate funding crisis since it has a primary budget surplus. Its net international investment position is -32pc of GDP, compared with -92pc for Spain and -100pc for Portugal.
The country does not suffer from excess debt in any fundamental sense. Mortgage debt is very low. Aggregate debt is around 270pc of GDP, much lower than France, Britain, Spain, Japan, the US, Sweden or the Netherlands. The root problem is an exchange rate misalignment that creates an unnecessary public debt crisis through the perverse mechanisms of EMU.
There is no easy way to leave the euro. The interlocking structures of monetary union have gone much further than a fixed exchange peg. Vested interests are powerful and merciless. But it is not impossible either.
The matter will surely come to a head as Italy’s debt trajectory hits the danger zone. This time it may not be quite so clear that the country wishes to be rescued on European terms. Mr Renzi may appropriately conclude that the only possible way to deliver on his Risorgimento for Italy, and to craft his own myth, is to gamble all on the lira.
agbiuso
Politica ed economia: arriva la Troika?
di Aldo Giannuli
Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola. Ed anche oggi le cose stanno andando così. A rendercelo noto sono state soprattutto le articolesse domenicali di Eugenio Scalfari su Repubblica, ma, dopo, non è stato difficile scorgere qui e lì i segni del clima mutato. Da giugno, si sono infittiti i segni di una crescente insofferenza dei poteri forti e semi-forti verso Renzi: le bordare del gruppo Espresso-Repubblica, la sparata di Della Valle, i mugugni confindustriali, le denunce di Confcommercio, i rilievi di Cottarelli, la freddezza del “Corriere” e del “Sole 24 ore”…
E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5s, Renzi non serve più.
E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi che ha detto papale papale “caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”.
Renzi prima si è messo sull’attenti (“D’accordo al 100%”) poi, visto che la cosa non commuoveva nessuno, sta abbozzando un goffo tentativo di resistenza (“Non decide la Bce!”). Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi…
Di fronte all’arroganza di Draghi, ad uno verrebbe voglia di fare il tifo per Renzi, poi lo guarda in faccia e cambia idea. Renzi pensava di affascinare l’Europa con la sua riforma del Senato: non se l’è bevuta nessuno. All’ “Europa” del Senato non gliene può fregare di meno, invece interessa la precarizzazione totale del lavoro in Italia, arraffare quel po’ che ancora ha un valore (Eni, Cdp, Telecom, forse qualche pezzetto di Finmeccanica) e che gli italiani si spremano sino all’ultima goccia di sangue, diano fondo ai risparmi e si vendano casa per pagare gli interessi sul debito pubblico e, se possibile, ne restituiscano una parte attraverso il fiscal compact. Il resto sono solo chiacchiere.
Il punto centrale è la situazione insostenibile del debito italiano, che si è mantenuto in bilico per questi due anni di bonaccia dei mercati finanziari, ma ora la tregua sta finendo ed i conti li ha fatti Zingales sul “Sole 14 ore” del 27 luglio scorso (quando ancora si sperava in un tasso di crescita allo 0,3% e non al -0,2%, come poi è stato) : “Con un tasso di interesse reale al 3,6% ed un tasso di crescita allo 0,3%, abbiamo bisogno di un avanzo primario del 4,5% solo per non far crescere il rapporto debito Pil … Oggi il surplus primario è solo al 2,6%. Questi semplici calcoli ci dicono non solo che non saremo mai in grado di soddisfare il fiscal compact, ma anche che la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile a meno di una significativa ripresa dell’inflazione”.
E, infatti, l’inflazione è sempre stata il maggiore alleato dei paesi debitori, ma questo presuppone la sovranità monetaria del debitore, cosa che l’Euro ci ha tolto. Il problema è che, mentre gli italiani hanno capitalizzato i loro risparmi in beni reali (essenzialmente immobili), i tedeschi li hanno impiegati per l’acquisto di titoli finanziari prevalentemente in Euro. Per cui, un’inflazione al 3% sarebbe una grande boccata di ossigeno per i paesi indebitati come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma, alle orecchie dei tedeschi, suonerebbe come una tassa patrimoniale di pari importo sui titoli. E siccome la moneta comune non è mai la “moneta di tutti”, ma sempre e solo del più forte, questo non si può fare. Per i tedeschi la soluzione sta nella spoliazione dei paesi debitori, del loro patrimonio pubblico (aziende, immobili, riserva aurea, Cdp ecc.) e di quello privato (risparmi, proprietà immobiliari e, fosse per loro, anche vendita dei figli al mercato degli schiavi). Per fare questo, occorre azionare con la massima decisione la leva fiscale (ovviamente al rialzo) e svendere subito il patrimonio pubblico, entrambe cose che Monti aveva iniziato a fare con grande sollievo della platea “europea” (e sapete cosa intendo per “Europa”). Ovviamente, dopo una cura del genere un paese entra in una fase di estrema decadenza economica per interi decenni, ma questo non interessa all’”Europa”. Per i tedeschi, i partner europei sono solo sgabelli su cui arrampicarsi per reggere la sfida della globalizzazione.
Renzi non sta dando le risposte attese e si sta limitando a giocare al “piccolo leader”, cosa sommamente irritante. Per la verità, l’“Europa” non ha soluzioni politiche di ricambio: la destra berlusconiana l’ha già cacciata una volta ed è decotta, il centro non esiste e nel Pd non c’è nessuno che possa dare il cambio al fiorentino. Ed allora che si fa? Si commissaria l’Italia. Si fa governare il paese dalla troika (Ue-Fmi-Commissione Europea).
Ma, mi si dirà, la troika interviene solo su richiesta dei paesi che sono a rischio default. Certo, ma dove è il problema? L’Italia richiederà l’intervento della Troika. Non vuole farlo? Allora si procederà con un nuovo “assedio dello spread”: quando, come nel novembre 2011 (quando c’era da cacciare Berlusconi) lo spread risalirà oltre i 500-600 punti, gli italiani, soprattutto grazie al loro ineffabile Capo dello Stato, faranno quello che devono fare e si troverà il Monti di turno che faccia il lacchè della troika.
A preparare il terreno ci sta già pensando Scalfari (che non è una voce qualsiasi ma LA voce di “Repubblica”) che ha già scritto che sarebbe tanto meglio se il paese fosse governato dalla troika, tanto più che ora essa non sarebbe più l’arcigna custode dell’austerità, ma si sarebbe convertita ad una linea espansionista. Una frase buttata là, quasi come uno sfogo irrealizzabile, una boutade. E, invece, è esattamente quello che si sta preparando e a cui Scalfari sta spianando la strada, con la ben nota tecnica “repubblicana” delle idee insinuate prima che enunciate.
E Renzi cosa può fare? Il “bersagliere del nulla” ha solo due scelte davanti: o fa quello che la Bce gli dice, alla lettera e senza capricci, oppure fa saltare il tavolo. Cosa intendo per “far saltare il tavolo”? Giocare la carta del “ricatto del debitore”: “io vado in default, ma dietro di me se ne vengono molti altri, comprese le banche tedesche: poi l’Euro salta e siamo tutti seduti per terra; oppure ristrutturiamo il debito senza ricatti, iniziamo a negoziare una uscita dall’Euro, rivediamo tutti i patti.”
La forza negoziale dell’Italia sta proprio nel fatto che è un grande debitore con i suoi oltre 2.000 miliardi di debito. La Ue e l’Euro potrebbero resistere agevolmente ad un default greco pari a 300 miliardi e forse potrebbe incassare anche un tracollo portoghese, ma un colpo da 2.000 miliardi è decisamente troppo. Come ci ha insegnato un grande finanziere, un piccolo debito è un problema del debitore, ma un grande debito è un problema del creditore.
E la cosa potrebbe funzionare anche perché potrebbero accodarsi spagnoli, greci, portoghesi, mentre la parte loro potrebbero farla anche i variegatissimi movimenti “euroscettici”, che si sono appena affermati come forza politica di primo piano, nelle elezioni di due mesi fa. E dunque, la via sarebbe quella di sedersi tutti al tavolo e assumere il problema del debito come problema comune a debitori e creditori. Questo non è un tempo normale da di grande crisi che chiede scelte radicali, nel nostro caso o servi della troika o ribelli decisi a far saltare il tavolo. Tertium non datur.
Ma questo richiederebbe una intelligenza, una preparazione, un coraggio politico di cui non sospettiamo lontanamente Renzi. C’è qualcuno che ha scritto che Renzi fa a gara con Mussolini come peggior presidente del Consiglio della storia d’Italia. Non scherziamo: Mussolini è uno che ha scritto la storia (orribile, criminale, d’accordo, ma pur sempre storia), Renzi, al massimo, può scrivere la cronaca fiorentina.
La sua patetica impennata in difesa della sovranità nazionale (ridotta ad un miserrimo “E qui comando io!”) non vale una grinza sulla pelle di un rinoceronte, sarà travolto prima di aver finito di parlare. Ma quello che verrà dopo, sarà anche peggiore. Prepariamoci.
Aldo Giannuli
agbiuso
Come avevo già scritto ieri, “il vero capo del Governo” è Draghi.
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Renzie e Schettino indivisi a Berlino #VacanzeSerene
Draghi ha licenziato il terzo cameriere Monti e Letta, è l’ora Renzie. Dopo le dichiarazioni di Draghi di ieri in cui auspica una diminuzione di sovranità nazionale e un’accelerazione delle riforme è del tutto chiaro che è lui il vero capo del Governo. Un banchiere mai eletto da nessuno… che detta ordini al signor Napolitano il quale esegue prontamente nominando a destra e a sinistra tizio e caio senza passare dalle elezioni in funzione dell’obbedienza cieca e assoluta ai voleri della Troika e al trionfo della finanza sugli Stati sociali e sulle Costituzioni nate dalla guerra contro il nazifascismo e ormai considerate obsolete, come ricordato dalla JP Morgan.
Renzie non ha fatto abbastanza velocemente i compiti (servizietti?) a casa che gli erano stati assegnati. Certo è un cameriere ubbidiente, ma non abbastanza efficiente. E allora il calcio nel culo, prima degli italiani, glielo ha anticipato Draghi per conto della finanza, di chi vuole la garanzia che gli investimenti nelle imprese italiane comprate in questi mesi per un pezzo di pane e la quota di debito pubblico non vengano perduti.
Perché Renzie non si occupa del taglio dei costi della politica, dello smantellamento della burocrazia, della legge anticorruzione, del conflitto di interessi, e della messa in pratica della spending review di Cottarell, retrocesso sprezzantemente a “commercialista” da un condannato in primo grado per danno erariale? Tutte misure che farebbero ripartire l’economia insieme alla restituzione dei crediti alle imprese, promessi e mai erogati.
La risposta è che questi tizi, dal signor Napolitano in giù, stanno preparandosi alle barricate prima del default riducendo ogni interstizio in cui la volontà popolare si possa esprimere. Che altro è infatti la riforma del Senato, se non la sostanziale abolizione di un controllo parlamentare sul governo e sul processo legislativo da parte del cittadini? Ennesimo atto difensivo prima di prendere misure straordinarie che metterebbero a rischio l’ordine pubblico come la chiusura delle banche o il contingentamento delle pensioni. Questi stanno scherzando con il fuoco. Il Parlamento è sovrano, è l’espressione del Popolo, il Governo è soggetto al Parlamento e non a banchieri, piduisti o camerieri assunti a progetto per i lavori sporchi divorati dall’ambizione. Renzie e Schettino indivisi a Berlino. E’ l’Italia che va…. ma dove va?
agbiuso
Ormai non si nascondono più: organismi non eletti da nessuno, strutture non democratiche, pretendono di sostituirsi ai governi, in nome della dittatura delle banche.
Il banchiere Draghi chiede ai Paesi europei -e all’Italia in particolare- di “cedere sovranità” agli organismi finanziari, come se non bastasse il controllo pressoché totale che già esercitano.
Temo che sia soltanto l’inizio. E il governo del Partito Democratico come reagisce? “Apprezza”. Non ne dubitavo.
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Televideo.
Draghi:pronti a misure non convenzionali
07/08/2014 15:15
15.15 Il Consiglio della Bce “è unanimamente determinato” a usare anche misure non convenzionali, se necessario.
Così il presidente della Bce, Draghi, convinto che “gli interventi riporteranno l’inflazione verso l’obiettivo del 2%”. I rischi geopolitici aumentati possono penalizzare la ripresa nell’Eurozona che prosegue “moderata e diseguale”, avverte Draghi. E sferza sulle riforme: “I Paesi che hanno fatto programmi convincenti di riforma strutturale stanno andando meglio di quelli che non lo hanno fatto”.
agbiuso
Gli effetti sulla Grecia dell’ultraliberismo fanatico e predatorio
(contrariamente a quanto propaganda il mainstream mediatico).
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ll saccheggio della Grecia
di Dimitri Deliolanes
L’austerità funziona e sta dando risultati. Su questa parola d’ordine si sta giocando la partita per le elezioni europee. Al centro dello scontro, di nuovo, c’è la Grecia, il paese cavia delle politiche imposte dalla Germania e dal Fondo Monetario Internazionale.
Lo show pubblicitario è partito il 10 aprile, con l’improvviso ritorno dei bond greci sui mercati finanziari. Fino a quel momento, il ministro delle Finanze greco Yannis Stournaras assicurava che i tempi sarebbero stati molto più lunghi. Il premier Antonis Smaras ha invece voluto premere l’acceleratore e così l’immissione è stata fatta all’istante: obbligazioni di diritto britannico a scadenza quinquennale per 2,5 miliardi a un tasso di 4,75%. Un vero affare per gli investitori, garantiti dal fatto che lo stato greco non può procedere a nuovi haircut. Un nuovo aggravio di più di 700 milioni per il già pesante debito greco.
Ma non era solo questa la freccia nell’arco del governo greco. Il presunto risanamento delle finanze pubbliche avrebbe raggiunto per la prima volta nel 2013 un surplus primario. Poco più di un miliardo e mezzo, ma tanto basta per segnalare “l’inversione di tendenza”. Di nuovo campane in festa nei media europei ma per i greci è una beffa amara: tutti sanno che quest’obiettivo è stato raggiunto sospendendo tutti i pagamenti dello stato fin dalla fine del 2011: più di 4,5 miliardi di tasse da restituire, 5 miliardi i debiti dello stato verso fornitori, 1,2 miliardi di pensioni non elargite.
Ai toni trionfalistici del governo greco si è aggiunta la cancelliera Merkel, in visita per poche ore ad Atene l’11 aprile per sostenere e avallare i successi del suo allievo prediletto. “La Grecia ha fatto i compiti”, ha dichiarato la cancelliera, aggiungendo però che “molto rimane da fare”. Rimane ancora “da fare” quanto concordato a marzo con la troika (FMI, BCE, Commissione Europea) e poi approvato in un testo di più di 750 pagine diviso in due articoli dal Parlamento greco con una maggioranza da crepacuore: 151 sì (su un totale di 300) per il primo articolo, 152 per il secondo.
È previsto il licenziamento di altri 25 mila impiegati dello stato entro la fine del 2014 (in sostanza significa chiudere altri ospedali e altre scuole), viene protratta l’imposta sulla prima casa e si prevede anche la confisca per chi non la versa, vengono sbloccate le aste giudiziarie per i mutui in sospeso per le prime case e vengono tassati perfino gli appezzamenti agricoli, anche quelli non produttivi. Poi c’è il grande capitolo delle privatizzazioni: al primo posto le società dell’acqua di Atene e di Salonicco, la società elettrica, le due società del gas e tanti immobili.
L’enorme parco del vecchio aeroporto di Ellinikon, pochi kilometri fuori Atene, è stato già venduto per 915 milioni per costruirci casinò e centri commerciali. La prospettiva, ha commentato compiaciuto il premier, è di trasformare tutta la litoranea che va da Falero verso capo Sunion con albergoni e case da gioco. Primi aquirenti le multinazionali tedesche associate con oligarchi locali. I russi, che hanno mostrato interesse verso le società del gas, sono stati bocciati dalla troika, malgrado la loro offerta fosse di gran lunga la migliore. Da tutte queste svendite si calcola di incassare circa 18 miliardi entro il 2015 e un’altra ventina negli anni seguenti. Briciole di fronte ai 340 miliardi del debito greco, il 175% del PIL.
Ecco la grande success story dell’Europa dell’austerità. Saccheggio selvaggio, miseria e perenne dipendenza dai creditori stranieri. Nessuna strategia di sviluppo mentre le condizioni della popolazione non fanno che peggiorare: poco meno di due milioni di disoccupati, il 62% dei giovani senza alcuna prospettiva di lavoro, tre milioni senza assistenza medica, 750 mila sotto la soglia di povertà. Era stato promesso un “aumento della competitività” riducendo il costo del lavoro ai livelli turchi.
Ma l’unica cosa che si è ottenuta è un regime autoritario, quello sì molto simile al modello turco. L’austerità esige un attacco diretto contro la democrazia: svalutare sistematicamente le procedure parlamentari, violare la Costituzione, repressione poliziesca, squadrismo nazista e spudorata disinformazione dei media. Non c’è che dire, la Merkel e la pessima Commissione uscente hanno fatto proprio un bel lavoro.
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Fonte: Alfabeta2, 24 aprile 2014
agbiuso
Un articolo di Lelio Demichelis dal titolo Europa. Quando perseverare è ideologico (Alfabeta2, 20 aprile 2014) approfondisce quanto ho sinteticamente cercato di dire.
Consiglio la lettura integrale del testo, del quale riporto alcuni brani.
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Un po’ di filosofia e di psicanalisi; spunti dalla riflessione di Hannah Arendt sul totalitarismo, ma applicandola al capitalismo; e Michel Foucault. Sono alcuni degli strumenti utili per capire la crisi di questa Europa.
Dal 2008 gli europei vivono un incubo che coniuga ideologia (il neoliberismo), autoritarismo (lo stato d’eccezione, i governi di larghe intese, il non poter votare e decidere), volontà di potenza (il capitalismo totalitario), moralismo religioso (protestante), inquisizione (cattolica), nichilismo (ancora il capitalismo), pulsioni libidiche e aggressive (l’austerità e il pareggio di bilancio). Secondo una colossale menzogna (sempre l’ideologia neoliberista), che ha prodotto (come ogni ideologia) altrettanto colossali meccanismi di falsificazione della verità e della stessa razionalità economica (l’austerità come via virtuosa per la crescita, mentre è una politica pro-ciclica che peggiora la crisi, non correggendone le cause). Il tutto emarginando ogni tentativo di fare parresia. Di dire il vero contro la menzogna.
L’Europa (gli europei): in questo incubo l’hanno portata le sue classi dirigenti (sic!) e le oligarchie economico-finanziarie. Non per un incidente della storia, ma perché la loro azione era ieri ed è ancora oggi finalizzata ad una trasformazione politica in senso antidemocratico e totalitario del potere; ed economica in senso definitivamente neoliberista. Suda, soffre, si impoverisce ma l’Europa subisce in silenzio questa ideologia neoliberista e questo collegato sadismo economico del capitalismo.
[…]
Un incubo, il neoliberismo. Eppure questo incubo è ancora saldamente al potere. Perché il neoliberismo (meglio: il capitalismo) è un’ideologia (la più nichilistica ma l’unica che è riuscita a diventare globale, internazionalista). Perché il neoliberismo aveva promesso la libertà dell’individuo e ha invece prodotto (inevitabilmente, date le premesse che negavano ab initio la promessa), l’assoggettamento di tutti al mercato, la mobilitazione di tutti al lavoro via rete, l’indebitamento come legame proprietario tra debitore e creditore. Dalla soggettivazione promessa all’assoggettamento realizzato.
[…]
Scuole e università hanno così indottrinato generazioni di studenti al capitalismo e al neoliberismo; i mass media hanno amplificato e validato l’ideologia; mentre Fmi e Bce, ma soprattutto borse e agenzie di rating hanno modificato l’immaginario collettivo: alla fine, ecco prodotta l’educazione dei soldati economici (di tutti e di ciascuno). Perché obiettivo del capitalismo – e del suo estremismo neoliberista – non era tanto quello di produrre beni o denaro, ma soggetti-solo-economici e relazioni-solo-di-mercato.
Ideologia. E totalitarismo. Oggi appunto quello del capitalismo (e della rete) globale. Che mira cioè (Foucault parlerebbe di biopolitica e di governamentalità) alla «trasformazione della natura umana che, così com’è, si oppone invece al processo totalitario» (Arendt). Natura che doveva diventare capitalistica, per cui «al di sopra dell’insensatezza della società totalitaria è insediato, come su un trono, il ridicolo supersenso della sua superstizione ideologica». Ovvero (andando oltre Foucault), il potere pastorale del mercato e della rete e i suoi meccanismi di sapere e di potere e di connessione/legame che hanno ormai trasformato ogni individuo in lavoratore o imprenditore o merce, la cultura in bene culturale o in evento, la società in capitale sociale, gli stati in impresa, gli individui in capitale umano, la propaganda in pubblicità, Dio nella mano invisibile – con contorno di controllo capillare per il governo eteronomo (la governamentalità) della vita di tutti e di ciascuno.
Meccanismi di produzione di una verità (i foucaultiani meccanismi di veridizione) non vera ma utile (perché fatta credere come vera) al potere. Reiterata inducendo in ciascuno reazioni pavloviane (Arendt) ai segnali (Foucault) che il potere diffonde perché sia obbedito da ciascuno anche senza minacciare e senza obbligare. Il totalitarismo capitalistico non si è negato neppure il potere/diritto di usare il terrore politico (impedendo ai greci un referendum sulle misure di austerità); e di attuare laboratori dove sperimentare la sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo (come in Grecia dove, a causa della malnutrizione e della riduzione dei redditi le morti bianche dei lattanti sono aumentate del 43% tra il 2008 e il 2010 e quello dei nati morti del 20%; dove il 30% dei greci deve ricorrere agli ospedali di strada, mentre i suicidi sono saliti del 45% (Barbara Spinelli, citando la rivista Lancet).
Urge allora che il demos si riprenda il potere. Che esca dall’incubo in cui si è lasciato ingabbiare dalla biopolitica/tanatopolitica neoliberale. Cercando, fuori dall’ideologia, un’idea virtuosa di Europa.
diego
L’uso della parola «democrazia» è, ovviamente, di grande interesse, caro Alberto. E secondo me è molto ben analizzato dall’amico Vladimiro Giacchè ne «La fabbrica del falso». Per esser breve tento di riassumere con parole mie, anche se consiglio leggere il suo testo (pp. 65 – 67).
«Democrazia» nell’accezione della nostra bella Costituzione significa anche «democrazia sociale», cioè un intento, una tensione attiva verso l’ugualianza e la correlata autentica libertà. Basta leggere l’art. 3, forse il più disatteso.
Ma progressivamente il termine viene svuotato e riempito di un altro significato (con macabra efficace ironia Giacchè scrive appunto «imbalsamato»), la democrazia non è più un contenuto, un fine, ma semplicemente un metodo elettorale, la «democrazia» diviene semplicemente «democrazia rappresentativa», perfino il termine «liberale» è svuotato del suo contenuto etico. Insomma la democrazia è solo un metodo elettorale sedicente democratico, ritenuto da teorici come Fukujama la stazione finale dove si ferma il treno della storia.
Sono convinto, ed ha ragione Giacchè, che vada recuperato il contenuto «sociale» della parola «democrazia».
Però almeno anche sul termine «democrazia diretta» nutro sospettosi dubbi, perchè sono molto convinto che anche un meccanismo «diretto» di consultazione non rappresenti in sè un significativo passo avanti nella modifica dei reali rapporti di produzione, ma possa essere invece un altro modo, più moderno ed apparentemente «libertario» di preservare nella sostanza lo statu quo. E su questo molto si spende il Fusaro, quando attacca frontalmente le posizioni che privilegiano ancora una volta la forma contro la sostanza.
Certamente la questione è complessa ed io non ho l’attrezzatura sufficiente per affrontarla, ma almeno due righe le ho tentate. Grazie a chi abbia avuto la pazienza di leggermi.
agbiuso
“Ma non meglio va la stampa cui con qualche ragione Grillo mostra il suo disprezzo”.
Con qualche ragione, caro Pasquale?
Il livello della stampa italiana è ben espresso dal seguente pezzo di prosa di un tale Sallusti che, se non ricordo male, ebbe in dono una velocissima grazia per non so quale reato da parte di Napolitano:
“Grillo è un cretino col botto ma noi lo siamo ancora di più se continuiamo a dargli spago e visibilità sul nulla che dice e che scrive. Abbiamo compassione per i cocainomani in crisi di astinenza, possiamo averne anche per questo grassone egocentrico e vuoto, pure se dovesse vincere tutte le elezioni da qui all’eternità. Grillo è solo un fenomeno da baraccone, dovrebbe esibirsi al circo, non al Parlamento. Oppure fare coppia con Vauro da Santoro, che poi è la stessa cosa”.
Fonte: Giornalista del giorno: Alessandro Sallusti, Il Giornale
Per il resto, condivido per intero le tue riflessioni e mi astengo dall’aggiungere altro poiché, come sostiene un grande filosofo ebreo, su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Pasquale D'Ascola
Buongiorno.
Simpatico Mario che riesce ancora a sorridere e pare non aver voglia di ak47.
Liberali o in doppio petto – questa non è invenzione, benchè segnale, del nostro mostro nazionale ma del suo predecessore Franco che dopo un po’ smise la divisa da caserma in favore di mascherate da civile- , diffuse o auspicate se non instaurate ancora come in francia, la zuppa non cambia sapore; nel 1994 a un di presso s’è aperta l’era delle dittature lievi e la stagione della caccia al pensiero. Tutto ciò piace perchè è fantasmatico e non impegna, proprio un bel video game o un programma televisivo, infatti è ricco di cosce il parlamento. I danni sono fatti. Nella cittadina in cui vivo l’assessore alla cultura afferma di non leggere da anni. I giornali qui segnalano, nella pagina della cultura, la sagra del formaggio ma non una bellissima mostra di 180 incisioni di Picasso. Ma non meglio va la stampa cui con qualche ragione Grillo mostra il suo disprezzo; segnalazioni che potrebbero essere interessanti si riassumono in un paio di cartelle, meno, e enormi foto di nessun interesse. Scalfari fa lo scrittore come la maggior parte dei suoi colleghi ma un vero libro non passa. Non credo che il liberismo c’entri, di sguincio sì; è vero che di oligarchie si tratta; ma alle fondamenta c’è un disastro antropologico; l’oligarchia è sempre stata lì in attesa di un redentore, uno o più, e si serve di quelli che passano; tanto che va bene Monti, per parlare di italia, ma chiunque, uno Jedermann val l’altro, a condizione che sia tale. Quindi anche le piccole volpi del cortegiano renzi, lui per primo incluso. Apprendo che uno dei suo fidanzatini, tale Pacciani, oddio, farà a Sesto Fiorentino un convegno sul tema siamo tutti sindaci. A tal proposito ha scritto, e grave è che glielo hanno pubblicato un libro, un parallelepipedo di carta cioè. L’ultima canaglia, di talento però, che ha fatto politica è stato Lenin, oggi togli di talento rimane canaglia nel binomio suddetto. In linea di massima ci vorrebbe un processo di norimberga per condannare tutti senza appello alla deportazione, non so dove; il mondo è ormai stretto. Non votare e votare i cessi. Putono. E putin-o.
Un Grillo val bene Bruxelles per altro. Ho letto la sua parodia di se questo è un uomo. Innocua. Tiepida. Mal scritta. È ovvio che si siano levati i culi di pietra a blablaterare di offesa alla memoria. E ovvio, tutti insieme appassionatamente.
mario
una “dittatura liberale”, che profonda verità: dall’espropriazione dello statuto dei lavoratori a quelle dei vari diritti (pensione, sanità pubblica, rimozione delle malattie epidemiche per giustificare l’eliminazione della profilassi nelle scuole, che costa)…
Chissà se Keynes, quando chiosava contro le teorie liberiste dei tempi suoi sull’equilibrio di lungo periodo della ‘mano invisibile’ dell’economia liberista “nel lungo periodo saremo tutti morti” sottintendeva “quindi ‘governabilissimi'”.
Io ho una figlia che va a scuola, ho perso il lavoro pochi mesi dopo la legge Fornero, presumo che non vedrò mai la pensione, pratico la cultura come puro volontariato mai retribuito… per fortuna al momento sto benino di salute, ma sono un perfetto ‘pollo di questo allevamento’ del XXI secolo 😉