Still Life
di Uberto Pasolini
Con: Eddie Marsan (John May), Joanne Froggatt (Kelly)
Gran Bretagna-Italia, 2013
Trailer del film
Intrisi di profonda solitudine, la vita e il lavoro di John May sono dedicati a rintracciare i congiunti di persone che muoiono senza familiari. Quest’uomo scrupoloso e sistematico cerca fin che può gli eventuali parenti o amici e poi scrive lui stesso i testi con cui il defunto viene ricordato durante il funerale, al quale partecipa di solito soltanto lui. Un giorno l’amministrazione comunale di Londra gli comunica il licenziamento -dovuto al «taglio dei rami secchi»- ma gli permette di portare a termine l’ultimo caso, riguardante un soggetto violento e dalla vita assai disordinata. May trova la figlia di quest’uomo e forse un amore per se stesso.
Il cinema è anche ridondanza; raramente accade dunque di vedere un film nel quale nessuna scena è di troppo, segnato da una sobrietà elegantissima e da un profondo rispetto per la forma. Il protagonista è un personaggio struggente, colmo di una bontà riservata e mai remunerata. In molte scene compaiono degli orologi, a ribadire la nostra finitudine, già indicata dal titolo del film. Il finale arriva improvviso, drammatico e simbolico. Forse avrei preferito che sino alla fine l’opera mantenesse la perfetta temperanza della narrazione. Non è infatti necessaria alcuna accelerazione nella trama per comprendere che in ogni caso «die Angst erhebt sich aus dem In-der-Welt-sein als geworfenem Sein zum Tode» («L’angoscia si leva dall’essere-nel-mondo in quanto gettato nell’essere alla morte», Heidegger, Sein und Zeit, Vittorio Klostermann editore, 1977, § 68 b, p. 455). Still life è comunque davvero «a rare thing».
3 commenti
Adriana Bolfo
Visto appena uscito nella mia città, concordo con tutti i resoconti e le affermazioni.
Il protagonista è solo per quasi tutto il film, da solo esce di casa, da solo lavora, da solo aspetta l’autobus; vive col e nel pensiero ai morti soli, di cui “popola” il funerale, e arriva a scegliere anche il luogo della propria sepoltura senza dir nulla a nessuno (a chi, infatti?).
Il lindore e l’immobilità perfetti della piccola abitazione e della piccola tavola da pranzo che lo accolgono al rientro, i pochi oggetti (le stoviglie per la cena) di cui si serve in casa, senza variazioni di ritmi e di azioni, risultano correlativi oggettivi, in più di un’ accezione, della solitudine vissuta senza ribellione né eccezioni, quasi natura inconsapevole che abbia sostituito qualunque barlume di coscienza e di sofferenza della non-socialità coi vivi.
La vita di questo essere profondamente umano e, insieme, quasi totalmente privo di esseri umani attorno a sé, mi pare dare ragione del titolo che, nell’inglese, designa un genere della pittura, estendibile alla fotografia, a cui peraltro riportano alcuni immobili primi piani degli oggetti stessi.
Costruito per almeno tre momenti diversi, il finale risulta, una volta tanto, ad effetto e significativo insieme.
agbiuso
Hai fatto bene, caro Diego, a mettere in rilievo questi due elementi del film, che anche da tale punto di vista è una metafora politica e sociale.
Sì, ho partecipato a dei funerali e hai perfettamente ragione: possono diventare un momento in cui una comunità si ritrova. Per me rimane scolpito ciò che vissi tanti anni fa, nel 1983, in occasione della morte della mia nonna paterna. Una donna, Giuseppa Favazza, straordinaria alla quale devo molto e che sino all’ultimo mi fece il regalo di un’esperienza antropologica che in analoghe occasioni non ho più vissuto.
Era, infatti, la razza contadina dalla quale discendo che nella Sicilia profonda mi donava un legame con i luoghi e con il tempo che ancora mi accompagna.
diego
Condivido il giudizio, caro Alberto. C’è due aspetti del film che vorrei segnalare, in aggiunta. Anzitutto la bella colonna sonora, misurata, struggente, perfetta, scritta dalla moglie del regista. Poi vorrei anche rilevare l’attaccamento del protagonista alla ritualità collettiva dei funerali. Cerca persone da portare al funerale dei suoi «morti soli», per ridare al rito quel senso comunitario, d’appartenenza che gli appartiene. Non so se di recente, caro Alberto, sei andato a qualche funerale, ma è bello quando diventa un ritrovarsi, rimane un rito funebre, ma se percepisci un riallacciarsi dei legami di comunità, diventa quasi «festa». Quindi quel taglio brutale, in nome dell’efficienza dei costi, dell’opera del buon John May, è il tramonto del funerale come ultima vera scintilla di un vivere umano.