Friedrich Dürrenmatt
Il giudice e il suo boia
(Der Richter und sein Henker, 1952)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 7-91
«Che cos’è l’uomo? Che cos’è l’uomo?» (p. 55) si chiede il Commissario Bärlach (e con lui Dürrenmatt). Le possibili risposte sono assai numerose, diverse, anche molto diverse. L’uomo è un enigma semplice. I movimenti che lo agitano sono infatti sempre gli stessi e ormai sono ben conosciuti. Le passioni che lo intridono sono antiche e anche un poco ripetitive. La gelosia, ad esempio. Una delle passioni più diffuse nelle relazioni umane, insieme all’invidia. Invidia e gelosia sono passioni che hanno una legittima funzione anche etologica ma che non per questo, almeno al livello di consapevolezza e di civiltà al quale siamo arrivati, sono meno meschine.
Un uomo diventa talmente «geloso delle capacità, del successo, della cultura, della ragazza» (88) di un altro uomo da non vedere più davanti a sé che l’eliminazione dell’oggetto della sua gelosia.
Un altro uomo è così convinto della propria legittimità al dominio da cominciare a uccidere soltanto per vincere «la scommessa» di «commettere un delitto in tua presenza senza che tu fossi in grado di provarlo» (53).
Le diverse passioni di questi umani deflagrano quando in un piccolo perimetro della Svizzera intorno al Giura e a Berna un tenente di polizia viene trovato ucciso nella propria auto con un colpo alla tempia, in una stradina vicina a un bosco. Comincia allora l’opera del Commissario Bärlach, intramata e intessuta del «male [che] l’aveva sempre ripreso nel suo cerchio, il grande enigma, una fascinosa tentazione di risolverlo» (29).
Di fronte alle persone che del male si fanno veicolo e sostanza, davanti al loro agitarsi o al loro autocontrollo, al loro freddo sudore o a una fragorosa risata, gli occhi di Bärlach diventano «come pietre» (36), si fanno «calma sovrumana, una tigre che giuoca con la vittima» (87), si erigono a giudice che condanna il colpevole e conduce alla morte anche il suo boia: «Ti ho già giudicato, ti ho condannato a morte. Tu non vivrai oltre questa sera. Il boia che ho scelto per te verrà oggi a cercarti» (77).
Nell’apparenza di un vecchio commissario malato, al quale i medici non danno più di un anno di vita, Bärlach è un demone guidato dall’ossessione della vendetta e della giustizia, di una vendetta che è giustizia; è un antropologo che sa come nell’umano «sono sempre possibili due cose, il bene e il male, è il caso che decide» (63); è un’entità che sta «al centro della stanza, in una solitudine gelida e remota, immobile e impassibile» (69); è «un cuore lacerato da un fuoco feroce», la cui «unica grazia» è dimenticare (84).
Molto al di là del ‘poliziesco’ e tuttavia in esso perfettamente a suo agio, lo sguardo e la scrittura di Dürrenmatt hanno disegnato in Bärlach la luce e il silenzio della materia, luce e silenzio protagoniste dell’incontro con il cadavere del suo nemico: «La luce era comune a tutti, anche a loro due, era stata creta per loro, ora li riconciliava. Il silenzio del morto penetrò in Bärlach, gli si insinuò nel sangue, ma non gli dava pace, come invece l’aveva data all’altro. I morti hanno sempre ragione» (83). Perché i morti sono il nostro destino. L’esistenza stessa è il giudice e il suo boia.
2 commenti
Michele Del Vecchio
Certamente una dei migliori, uno dei più riusciti, uno dei più perfetti e inquietanti racconti tra quelli -tutti di altissima qualità letteraria e profondissima verità antropologica- scritti da un autore che ha sempre e insistentemente indagato la proteiforme e imprevedibile metamorfosi del male e della colpa Dichiaratamente uomo e scrittore di parte nella neutrale Svizzera è stato un fermo accusatore delle infinite e molteplici compromissioni della nostra coscienza con le follie generate dalla perversione della “macchia oscura” che ci portiamo dentro. Anche lui fa parte degli scrittori del “sottosuolo”. A cui però il Dio delle lettere ha regalato una straordinaria e stregata lucidità.
agbiuso
“Straordinaria e stregata lucidità” mi sembra una definizione assai bella e del tutto esatta dell’opera di Dürrenmatt.
Grazie Michele.