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Patriarcato

Patriarcato

La lettera che qualche giorno fa ho ricevuto da Dario Generali, uno dei massimi studiosi europei di Storia della scienza, è un esempio di come vadano letti i fatti collettivi, sottraendosi al massiccio condizionamento dell’informazione dominante, alla retorica più penosa, ai valori diventati strumento di una società ossessionata e fragile. La limpidezza, coerenza e plausibilità di quanto scrive Generali è una lucida alternativa al desolato paesaggio mediatico e sociologico nel quale siamo da tempo immersi. Riproduco con la sua autorizzazione il testo.

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Sono rimasto colpito dall’insistenza delle proposte di corsi di educazione all’affettività a scuola, che sarebbero, secondo me, le solite inutili perdite di tempo a scapito dell’insegnamento. A mio parere, detta in breve, servirebbe piuttosto una formazione seria che metta gli studenti nelle condizioni di affrontare ogni loro problema con razionalità, senza farsi travolgere da fragilità psicologiche ed emotività surriscaldate. Anche l’insistenza sul paternalismo e sul maschilismo mi sembra fuori luogo. In primo luogo è difficile definire il nostro paese, almeno sul piano istituzionale, paternalista. Il presidente del Consiglio è donna, donna è il ministro dell’Università e della ricerca, donna è la presidente del CNR. Anche l’ultimo vestigio del maschilismo è stato superato con l’attribuzione ai figli anche del cognome della madre. Un maschilista, poi, non insisterebbe mai per tenersi una ragazza o una donna che se ne vuole andare, perché la sostituirebbe subito con altre. Quando mai un maschilista pietirebbe con una donna per non essere lasciato? Che vada pure dove vuole, ne troverebbe subito altre. Quando un uomo passa alla violenza sulle donne in realtà ha una psicologia malata e lo è tanto più quanto quella violenza, per non parlare di quando giunge a ucciderle, si ritorcerà poi pesantemente su di lui, rovinandogli la vita o anche inducendolo poi a suicidarsi per sfuggire alle conseguenze del suo gesto folle.
Capirei di più se queste azioni avvenissero a seguito di azioni persecutorie da parte di donne. Come far togliere ingiustamente l’affido dei figli, cacciare il marito di casa, farsi pagare gli alimenti e ospitarci invece un amante, con i figli piccoli che finissero per identificarlo come il loro padre, ecc. Ma prendersela con una fidanzata che se ne vuole andare è chiaro segno di follia e di patologica debolezza. Paternalismo e maschilismo c’entrano secondo me ben poco.
Come sempre, in queste discussioni, quella che latita è la razionalità.
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A conferma delle riflessioni di Generali segnalo un mio breve intervento pubblicato più di dieci anni fa, il 20.10.2012, riferito anch’esso all’assassinio di una ragazza da parte del suo ex fidanzato.
Ne riporto qui il contenuto.

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Un uomo di 23 anni, Samuele Caruso, ha ferito a Palermo con un centinaio di coltellate la ragazza di diciotto anni che lo aveva lasciato e ha ucciso la sorella di lei, diciassettenne, che cercava di difenderla.
Eventi di questo tipo si ripetono con regolarità. Quali le ragioni? Possono essere numerose e diverse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di maschi insicuri e di gelosia patologica. Vero. Maschi resi tali – soprattutto nel Sud mediterraneo – anche dal mancato affrancamento dalla figura della madre. Molti sociologi e donne parlano di femminicidio. Vero anche questo.
Ma credo ci sia anche una motivazione di tipo educativo. Uno straordinario racconto di Friedrich DürrenmattIl figlio – narra di un padre che aveva allevato il figlio in solitudine «esaudendogli ogni desiderio». Quando il ragazzo quindicenne esce dalla villa dove aveva sino ad allora vissuto, torna «ventiquattro ore dopo a rifugiarsi dal padre, avendo brutalmente ucciso una persona che si era rifiutata di dargli da mangiare senza pagare» (Racconti, Feltrinelli 1996, pp. 13-14). La responsabilità è anche e soprattutto dei genitori, dei nonni, dei maestri, dei professori. Di tutti quegli adulti che, rispetto alla fatica che ogni negazione argomentata comporta, preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti. Quando un bambino e ragazzo riceve sempre da coloro che dovrebbero educarlo dei “sì” (non sia mai che il pargolo subisca dei “traumi”), è chiaro che poi non comprende come sia possibile che qualcuno, una coetanea ad esempio, gli possa dire di no. E scatta la reazione del bambino che pesta i piedi per ottenere il suo giocattolo.
Aveva e ha perfettamente ragione Giuliana Ukmar nel coniare la formula «Se mi vuoi bene, dimmi di no». Aveva ragione a stigmatizzare il «permissivismo esasperato» che induce a ritenere che « “volere” una cosa significa, automaticamente, averla. […] Se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d’onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura». Un delirio che fa dei propri desideri il criterio assoluto del mondo e che quindi non tollera che una donna possa lasciarti.
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Avevo dunque accennato ai professori che «preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti», atteggiamento che in ambito universitario diventa anche il distribuire esami e lauree in modo del tutto arbitrario e fuori legge, come nel caso che ho documentato qui: Lauree. Sempre nel testo del 2012 rinviavo a una riflessione ancora precedente, del 2007, intitolata Contro la madre, che chiudevo ricordando le parole di Baudrillard: 

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«Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, pag. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal suo grembo di tenebra.
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Parole di sedici e di tredici anni fa, dunque, che oggi confermo pienamente anche alla luce di ciò che da allora va accadendo; parole con le quali tento una lettura un poco meno omologata e per la quale – senza che ci sia da sorprendersi – è in realtà una mancata emancipazione dalla madre, è un eccesso di matriarcato a rendere alcuni maschi affettivamente dipendenti dalle donne che desiderano e patologici sino all’orrore.

4 commenti

  • agbiuso

    Giugno 27, 2024

    «Bruciamo tutto» è una denominazione e uno slogan adeguato per queste barbare che hanno già bruciato i loro cervelli.

  • agbiuso

    Giugno 6, 2024

    Che l’enfasi sul “femminicidio” costituisca parte di una visione del mondo assai parziale, per non dire proprio sbagliata, è mostrato anche da questo brano pubblicato nel 1844 da Arthur Schopenhauer, brano il quale mostra le motivazioni biologico/psichiche e non “patriarcali” di alcuni tragici casi di cronaca.

    “L’amore sessuale è compatibile persino con l’odio più estremo nei confronti del proprio oggetto: è per questo che già Platone lo aveva paragonato all’amore dei lupi per gli agnelli. Questo caso si verifica quando qualcuno che ami in modo appassionato, malgrado tutti gli sforzi e le suppliche, non riesce in alcun modo a trovare ascolto:
    «I love and hat her / Shakespeare, Cymb. III, 5».
    L’odio contro l’amata che allora si accende si spinge a volte tanto oltre da far sì che lui uccida lei e poi anche se stesso. Un paio di esempi di questo genere si verificano ogni anno; li si troverà nei giornali inglesi e francesi”.
    (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione» [Die Welt al Wille und Vorstellung. Zweiter Band,1844], a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, Libro IV, Cap. 44: Metafisica dell’amore sessuale, pp. 709-710).

  • agbiuso

    Dicembre 3, 2023

    Condivido ovviamente parola per parola le tesi espresse in questo articolo di Fabrizio Marchi, editoriale de L’Interferenza, 28.11.2023:
    25 novembre. Un movimento neoliberale di massa

    Il movimento sceso in piazza ieri in tutta Italia “contro il patriarcato e la violenza maschile” può essere definito, a mio parere, come un movimento neoliberale di massa.

    Un fenomeno costruito dall’alto, alimentato dai media, in totale simbiosi con le istituzioni e lo stato, che ha come collettore un femminismo mediatico, istituzionalizzato, interclassista, antimaschile, totalmente egemonizzato dall’ideologia neoliberale. Un movimento, naturalmente, non solo del tutto innocuo ma funzionale al sistema capitalista che lo utilizza per spostare completamente l’attenzione dalle grandi contraddizioni sociali e dalle grandi questioni internazionali – cioè dal possibile conflitto sociale che potrebbe scaturire da tali contraddizioni e dalle guerre imperialiste che ne sono la necessaria e inevitabile conseguenza – al conflitto fra i sessi, o meglio quello del genere femminile contro quello maschile.

    La controparte viene individuata nel patriarcato, ormai un fantasma del passato, un cadavere tenuto in vita artificialmente, altrimenti se se ne dichiarasse l’avvenuta estinzione la narrazione femminista, mattone fondamentale dell’attuale sistema dominante, si squaglierebbe come neve al sole.

    La violenza maschile, secondo tale narrazione, esercitata a senso unico dagli uomini contro le donne, diventa la necessaria e inevitabile conseguenza del sistema patriarcale. Una violenza ovviamente non episodica (o legata a fattori soggettivi di ordine psicopatologico o sociale) ma sistematizzata, perché tutti gli uomini sarebbero potenzialmente protetti e armati dal dominio patriarcale che li porterebbe a considerare le donne come degli oggetti di loro proprietà di cui possono disporre a piacimento, quindi picchiarle, stuprarle, brutalizzarle, umiliarle in ogni modo, ucciderle.

    Uno striscione esposto ieri alla manifestazione di Roma recitava testualmente:” Quando esco voglio sentirmi libera, non coraggiosa”. Si descrive in tal modo ad arte un mondo che per le donne sarebbe una specie di inferno, costantemente sottoposte alla minaccia di essere vittime di violenza in qualsiasi momento oltre, naturalmente, ad essere sistematicamente, tutte, sottoposte ad ogni genere di discriminazione, economica, sociale, morale, culturale, psicologica e quant’altro.

    Le correnti femministe minoritarie, cosiddette “intersezionali” o sedicenti”di classe” (una contraddizione in termini…), resesi conto della deriva o, dal mio punto di vista, della inevitabile e concreta determinazione di una ideologia, già minata alle origini dal virus sessista e antimaschile, tentano affannosamente di coniugare l’inconiugabile, cioè la questione sociale con quella di genere, ma si tratta di un tentativo maldestro che cozza clamorosamente con la realtà perché sia le classi sociali dominanti che quelle subalterne sono ovviamente formate da uomini e da donne che vivono le diverse condizioni e contraddizioni della rispettiva classe di appartenenza, come è evidente a chiunque sia ancora provvisto di un briciolo di buon senso, di razionalità e di onestà intellettuale.

    Si tratta quindi di una clamorosa nonché evidente falsificazione della realtà e di un depistaggio ideologico di proporzioni colossali.

    Siamo di fronte al più subdolo fra tutti i conflitti orizzontali che sono stati posti in essere e alimentati in tutti questi anni (autoctoni contro immigrati, “millenials” contro “boomers”, lavoratori privati contro lavoratori pubblici, giovani lavoratori contro pensionati, pro vax contro no vax) perché va a toccare corde profonde e delicatissime: l’affettività, la sessualità, le relazioni familiari, la relazione intima fra uomini e donne, il rapporto interno alle coppie, fra mogli e mariti, padri e figlie, fratelli e sorelle e così via. La finalità di questo conflitto non è soltanto quella di lacerare il corpo sociale e di dividerlo per poterlo meglio soggiogare, ma di minare alla radice la stessa idea di umanità che viene così separata, con i maschi che diventano i carnefici e il male per definizione e le femmine le vittime, comunque e dovunque, sempre per definizione. Gli uomini, sottoposti ormai dalla mattina alla sera ad un bombardamento mediatico a tappeto, vengono colpevolizzati, criminalizzati e naturalmente psicologicamente paralizzati. Gli effetti devastanti di tale processo soprattutto sulle giovani e giovanissime generazioni sono già evidenti e lo saranno drammaticamente ancora di più nel prossimo futuro, e questo riguarderà non solo gli uomini ma anche le donne. E’ bene sottolineare che la distruzione psichica e psicologica del maschile è propedeutica, sul lungo periodo, a quella del femminile, in una prospettiva che in linea teorica deve vedere ambo i sessi deprivati di una reale identità e coscienza di sé. Si tratta del processo di distruzione di ogni identità, che non sia la forma merce, che è nel DNA del sistema di dominio capitalistico esclusivamente finalizzato alla sua in linea teorica illimitata e infinita riproduzione.

    Palmiro Togliatti, uno degli storici leader del Partito Comunista italiano, definì il fascismo come un regime reazionario di massa. Aveva ragione perchè quel regime (come altri, sia chiaro) riuscì a costruire un consenso di massa attorno a sé soprattutto dopo aver conquistato il potere. Certamente, la macchina di costruzione del consenso all’epoca era molto più rozza (anche se avanzata per i tempi) rispetto a quella attuale, e il controllo delle menti avveniva soprattutto attraverso il controllo della sfera pubblica delle persone. Oggi la situazione è profondamente mutata e la costruzione del consenso – molto più sofisticata rispetto al passato – si fonda principalmente sull’occupazione e la manipolazione della sfera privata, del foro interiore degli uomini e delle donne, ben prima del controllo della loro sfera pubblica, come appunto avveniva in passato. Possiamo anzi dire che quest’ultima è la conseguenza della prima.

    L’assassinio di Giulia Cecchettin da parte di questo ragazzino psicopatico – derubricato come l’ennesimo atto di violenza sistematica dell’oppressione patriarcale (a mio parere è invece il comportamento di un soggetto maschile spappolato ed estremamente fragile, prodotto di quell’attacco sfrenato al genere maschile e di un contesto ultracapitalista che ha atomizzato ogni vincolo sociale e comunitario, ma di questo mi occuperò in altro articolo) – è avvenuta casualmente pochi giorni prima della rituale scadenza del 25 novembre, contestualmente alla carneficina di civili a Gaza tuttora in corso. Mentre però le manifestazioni per chiedere di porre fine al genocidio in Palestina hanno visto al massimo la partecipazione di alcune decine di migliaia di persone (per lo più appartenenti alla solita e sempre più striminzita area della sinistra radicale), quelle di ieri sono state popolate da centinaia e centinaia di migliaia di persone. Questo perché quelle svoltesi ieri in tutto il paese sono il risultato finale di un processo cominciato decenni fa che ha scavato in profondità nella sfera subliminale delle persone, al punto che la morte di una ragazza per mano del suo fidanzato o ex fidanzato suscita oggettivamente (molta) più emozione del massacro di circa seimila bambini e bambine (più altre migliaia di mutilati) vittime delle bombe di uno stato razzista e imperialista.

    Ecco, dunque, che anche la sensibilità e l’indignazione sono state abilmente e artificialmente condizionate da un sistema altamente sofisticato e pervasivo. Una trappola in cui cadono in tanti. Non a caso ieri in piazza a manifestare insieme alle donne e agli uomini del mondo liberale e neoliberale contro “il patriarcato e la maschilità tossica e violenta” c’erano anche le solite micro formazioni della “sinistra” cosiddetta “antagonista”, anch’esse imbevute, senza peraltro esserne consapevoli (non so se più grave la stupidità o l’opportunismo ma è dl tutto irrilevante) di ideologia neoliberale e politicamente corretta.

  • Michele Del Vecchio

    Novembre 30, 2023

    Un commento breve per le difficoltà tecniche nel mantenere attiva la comunicazione. Tu e Dario Generali siete stati molto chiari nella impostazione della vostra riflessione. Aggiungo quindi qualche elemento di contorno. La “società patriarcale” è un sintagma ideologico fondato su una banale assonanza: patriarcale vale come “maschilista” e tanto basta. Le responsabilità di questo brutale delitto sono innanzitutto individuali e riguardano la disperazione di un giovane che non sa affrontare l’esperienza dolorosa di una separazione.Le ragioni più profonde sono qelle da voi indicate. Il contesto in cui si costituiscono queste personalità giovanili che franano in modo così irreparabile è il contesto di una società priva di leve per scalzare il grave malessere di tanti ragazzi e di tante famiglie. Particolarmente preoccupante è la condizione della scuola,incapace di rimuovere quella impotenza nichilista dellla mente e dell’anima. Penosa la risposta delle istituzioni ministeriali che non va al di là di inutili corsi di educazione di non si sa che cosa.

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