In una seduta di laurea dello scorso novembre ho chiesto di mettere a verbale la seguente dichiarazione:
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«La tesi che la candidata *** presenta per il conseguimento della Laurea magistrale in Scienze filosofiche, dal titolo *** si compone di 32 pagine; indica soltanto 6 testi in bibliografia; contiene errori di ogni genere (sintassi, lessico, grammatica) in quasi ognuna delle 32 pagine; non dà neppure una indicazione in nota o nel corpo del testo dei classici dei quali parla; presenta dei brani copiati dalla Rete (ad esempio a p. 12 dal sito di Giuseppe Argentieri [su Agostino: https://www.giuseppeargentieri.eu/tag/agostino/]; a p. 24 da un manuale online dell’Università di Siena [sul concetto di creazione: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/testi/htm/t_char1.htm]).
Ritengo dunque che un lavoro con queste caratteristiche non possa essere giudicato adeguato al conseguimento del titolo di laurea magistrale, titolo che pertanto chiedo alla Commissione di non attribuire alla candidata.
Aggiungo che, per quanto basso sia diventato il livello dei laureati italiani, non intendo rendermi responsabile di una decisione evidentemente scorretta, quale sarebbe l’attribuire un titolo dal valore anche legale a fronte di una tesi di laurea del tutto insufficiente».
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Come siamo arrivati a un punto così basso della didattica universitaria?
Alcuni anni fa descrivevo i patetici tentativi di nascondere la realtà con ‘corsi zero e sotto(zero)’ rivolti alle matricole. Di didattica e pedagogia scrivo da quando insegnavo nei Licei, dunque da decenni. Alcuni di noi hanno indicato per tempo – con libri, saggi, iniziative, azioni – il baratro verso il quale stiamo conducendo ciò che chiamiamo ‘conoscenza, sapere, scienza, civiltà’ (cfr. ad esempio: Educazione e antropologia; Sulla «Grande Riforma» della scuola italiana; Per la παιδεία).
Nel caso specifico del quale parlo ci sono evidentemente problemi nella governance (come amano dire) delle Università italiane per quanto riguarda i finanziamenti, che arrivano più copiosi se si hanno più iscritti che si laureano in corso e si hanno più iscritti che si laureano in corso se si rende tutto più facile, vale a dire se si nega uno dei significati sia antropologici sia sociali delle istituzioni educative: orientare in base alle capacità e alla tenacia.
E poi: presidenti di corsi e di commissioni di laurea che dovrebbero verificare per tempo la congruità delle tesi presentate; studenti abituati a ottenere voti alti preparando gli esami in pochi giorni; la generale pretesa di laurearsi soltanto per il fatto di essersi iscritti a un corso di studi, atteggiamento – questo – che è parte di uno dei drammi più pervasivi del presente: l’infantilizzazione del corpo collettivo. E così via e così via nel rosario delle responsabilità diffuse.
Ma non sono questi gli elementi più gravi. Il dramma è il risultato, vale a dire: titoli di laurea che perdono il loro valore; tanti studenti che si impegnano con rigore e passione e che ottengono lo stesso titolo legale di chi copia le tesi; la conferma che onestà e lavoro non servono e nella vita ci vuole altro. Tutte espressioni, quelle elencate e altre, del fallimento della funzione educativa delle istituzioni scolastiche e universitarie.
In questo dramma c’è anche una dimensione farsesca, quella di chi crede che regalando a tutti le lauree si operi a favore dei più disagiati, mentre invece si ottiene esattamente il contrario poiché si ribadiscono ciascuna e tutte le diseguaglianze di partenza. Chi arriva alla laurea senza meritarlo ma proviene da una famiglia ‘che possiede dei mezzi’ arriverà lontano; chi si laurea meritandolo ma fa parte di una famiglia che questi mezzi non li ha rimarrà fermo. E però tutti saranno ugualmente ‘laureati’. È il noto effetto inflattivo, che colpisce in modo implacabile i più deboli.
Tutto questo non è certo prerogativa della sola Università di Catania. Ma ovunque e da chiunque lo si consegua, che valore avrà il certificato di laurea magistrale rilasciato da un Ateneo dove lo si ottiene con una tesi di 32 pagine piena di errori e in parte copiata? Un valore assai scarso, quasi nullo.
[L’articolo è uscito anche sulla testata girodivite.it]
30 commenti
agbiuso
Giuseppe Prezzolini
Codice della vita italiana (1921)
La Voce, 1921 – Capitolo I – Dei furbi e dei fessi
1. I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi.
2. Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso.
3. I furbi non usano mai parole chiare. I fessi qualche volta.
4. Non bisogna confondere il furbo con l’intelligente. L’intelligente è spesso un fesso anche lui.
5. Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle.
6. Colui che sa è un fesso. Colui che riesce senza sapere è un furbo.
7. Segni distintivi del furbo: pelliccia, automobile, teatro, restaurant, donne.
8. I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini.
9. Dovere: è quella parola che si trova nelle orazioni solenni dei furbi quando vogliono che i fessi marcino per loro.
10. L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono.
11. Il fesso, in generale, è stupido. Se non fosse stupido avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo.
12. Il fesso, in generale, è incolto per stupidaggine. Se non fosse stupido, capirebbe il valore della cultura per cacciare i furbi.
13. Ci sono fessi intelligenti e colti, che vorrebbero mandar via i furbi. Ma non possono: 1) perché sono fessi; 2) perché gli altri fessi sono stupidi e incolti, e non li capiscono.
14. Per andare avanti ci sono due sistemi. Uno è buono, ma l’altro è migliore. Il primo è leccare i furbi. Ma riesce meglio il secondo che consiste nel far loro paura: 1) perché non c’è furbo che non abbia qualche marachella da nascondere; 2) perché non c’è furbo che non preferisca il quieto vivere alla lotta, e la associazione con altri briganti alla guerra contro questi.
15. Il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo soprattutto a quello della distribuzione.
16. L’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l’italiano in generale ha della furbizia stessa, alla quale principalmente fa appello per la riscossa e per la vendetta. Nella famiglia, nella scuola, nelle carriere, l’esempio e la dottrina corrente – che non si trova nei libri – insegnano i sistemi della furbizia. La vittima si lamenta della furbizia che l’ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un’altra occasione. La diffidenza degli umili che si riscontra in quasi tutta l’Italia, è appunto l’effetto di un secolare dominio dei furbi, contro i quali la corbelleria dei più si è andata corazzando di una corteccia di silenzio e di ottuso sospetto, non sufficiente, però, a porli al riparo delle sempre nuove scaltrezze di quelli.
agbiuso
Da: Lo scemo etico
Davide Miccione, Aldous, 15.12.2024
«Nell’epoca della laurea di massa, la cui “esplosione/discesa” grazie alla diffusione delle università telematiche è solo all’inizio, il possesso di questo titolo di studio (come ha ben spiegato Ricolfi) non rappresenta un affidabile indicatore di cultura. Il laureato sta progressivamente diventando solo colui che ha desiderato la laurea, non colui che ha acquisito contenuti e competenze equivalenti. Se una materia può essere superata con un semplice test a risposta multipla, magari dal pc di casa e in condizioni di minima sorveglianza, la laurea è solo una questione di volontà e di mezzi finanziari, non di intelligenza e studio. Non la possiede solo chi non ha pensato di ottenerla».
agbiuso
Ma cosa importerà mai?
Ciò che conta è che i ragazzini, gli adolescenti, gli studenti liceali e universitari si sentano amati, protetti, accolti e vezzeggiati. Si sentano insomma inclusi e che nessun trauma, neppure il più piccolo, nessuna fatica, neppure la più lieve, intacchino la loro serenità nel Paese dei Balocchi.
Non sia mai che rimangano vittime di «disagio psicologico e di ansia». A scuola non si va per imparare ma per acquisire «competenze» del tutto generiche. E si va per non sentire neppure il minimo attrito. A questo penserà il loro avvenire di disoccupati, sottoccupati, frustrati e miserabili. Scuola e università devono soltanto preparare a tale futuro.
agbiuso
Camminando in Dipartimento e parlando con vari colleghi, osserviamo che un certo numero di studenti si presenta agli esami accompagnato da uno o da entrambi i genitori o con altre figure ‘adulte’ al fianco. Ne sono francamente stupefatto, anche se capisco che la circostanza si inscrive nel generale processo di infantilizzazione del corpo collettivo. E tuttavia, cari studenti, non vi vergognate di presentarvi da maggiorenni, da ventenni e oltre, in compagnia di mamma e papà? In società ed epoche meno infantili, una simile presenza sarebbe risultata oggetto di scherno da parte degli altri studenti nei confronti di chi sarebbe stato per questo ritenuto un minus habens.
Ricordo che «l’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso» (Kant, Che cos’è l’Illuminismo? Editori Riuniti, Roma 1987, p. 48; il corsivo è di Kant). Esiste un illuminismo delle civiltà ed esiste un illuminismo delle persone. Uscire dallo stato di minore età non è soltanto un fatto anagrafico, è un evento di crescita, sfida, maturazione, accettazione delle sconfitte, libertà.
agbiuso
In una scuola superiore di Ragusa una genitrice si è rivolta alla dirigente contestando un ‘3’ in Letteratura italiana ottenuto dal suo pargolo, affermando: «Aveva ripetuto a me la lezione ed era da 8 e mezzo». La dirigente convoca l’insegnante imponendole di trasformare il 3 in un 8 e mezzo.
Non è soltanto un evidente reato, un falso ideologico; non è soltanto un grave atto di arroganza diseducativa; è un segno che l’Occidente merita di scomparire.
agbiuso
Sospese le lezioni, sospeso il Palio, sospesi i cervelli.
agbiuso
Il 10 giugno 1924 una banda di sicari fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti. Un assassinio che avrebbe spianato ulteriormente la strada della dittatura di Benito Mussolini.
A un secolo da quell’evento Danilo Breschi, professore di Storia delle dottrine politiche, ricorda su Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee la figura e l’opera di Matteotti, il quale della scuola e degli studi pensava ciò che il brano che qui sotto riporto mostra in modo assai chiaro:
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Sia Luzzato che Salvadori ricordano giustamente l’importanza che la scuola e la pubblica istruzione ebbero nel pensiero e nell’azione del deputato socialista. A giudizio di quest’ultimo, come scrive Salvadori, «alla scuola spettava il compito […] di attrezzare le menti e dotare degli strumenti necessari a favorire lo sviluppo economico, sociale e civile» (p. 57) e, al contempo, «in nome della serietà, che è dire di criteri di moralità, di giustizia e di senso di responsabilità verso la società, Matteotti chiedeva che non si tollerasse la scuola facile» (p. 63). Egli non esitava a dichiarare che, nel corso degli studi superiori,
non dovrebbe essere più ammesso alcuno che si trascini a stento per il curriculo [sic!] delle classi. Chi sa e ha le attitudini necessarie, proceda; chi non sa dev’essere rimandato. […] il proletariato deve esigere senz’altro che gli studi siano aperti solo a chi abbia intelligenza, attitudine e volontà, all’infuori di ogni considerazione economica [cit. ibid.].
L’attualità di Giacomo Matteotti, maestro di coraggio
11.2.2024
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La saggezza e il pragmatismo di Matteotti confermano che le scuole e le università che cedono alla demagogia della promozione (e dei voti alti) per tutti diventano in questo modo espressione del trionfo non soltanto dell’ignoranza ma anche dell’iniquità.
agbiuso
Sì, il risultato è una grave forma di discriminazione e di danno per i molti bambini e studenti che meriterebbero di apprendere di più e meglio, di essere seguiti nei loro interessi e nel loro talento, di avere una formazione adeguata e non soltanto di occupare un’aula per molte ore.
Titoli di laurea e dottorato di ricerca - agb
[…] delle lauree attribuite da parte delle Commissioni universitarie senza alcun merito dei candidati (lauree insomma regalate) è che esse valgono sempre meno. La situazione si aggrava se si osserva che anche a candidati dal […]
Sarah
Caro professore,
a distanza di quasi un anno ritorno sulla questione per condividere con lei uno scambio avuto con una docente che insegna filosofia morale in Francia la quale, all’inizio del mio percorso universitario (2017), mi invitò a trascorrere un periodo di studi fuori.
In quell’occasione mi disse che lo studente italiano si distingueva sempre molto rispetto ai colleghi francesi anche a causa del fatto che il livello di istruzione loro è piuttosto basso ed era considerato sempre in modo meritevole da parte dei docenti del luogo. Ho anche avuto modo di conoscere alcuni di questi studenti.
Durante una recente conversazione la stessa persona mi ha esplicitamente detto: “Il livello deve essersi abbassato molto in Italia”, spiegandomi che lo studente italiano ben si confonde con la classe nella quale insegna, manifestando gravi carenze che si vogliono nascondere dietro la difficoltà di espressione in una lingua che non è la propria; ha aggiunto che da un paio di anni a questa parte anche coloro che provano a proseguire gli studi non riescono a farlo come prima; lo studioso italiano non si presenta più competitivo rispetto allo studioso francese e anzi, dal momento che l’attività scientifica chiede una competenza linguistica di scrittura madre-lingua, l’università che prima prediligeva il primo (lo studioso italiano) ed era disposto a sacrificare i problemi di scrittura, preferisce adesso i propri studenti perché a parità di formazione sono in grado di ben esprimersi nella loro lingua. Le ho raccontato il fatto che lo scorso anno lei ha qui sintetizzato e ha riso proprio chiedendomi se nei nostri sistemi non fosse prevista una commissione che valuta il lavoro durante la discussione.
Mi sembra un fatto significativo, ma da studentessa anche molto amaro.
Un caro saluto,
Sarah
agbiuso
La ringrazio molto, cara Sarah, per questa testimonianza che fa emergere dal concreto delle relazioni e dei fatti il danno enorme che gli studenti e le università italiane stanno subendo dalla congiunzione di un pietismo miserabile del quale sono protagonisti troppi docenti e della volontà politica di dissolvere l’Università come luogo di consapevolezza e critica dell’esistente.
Pietismo che non rispetta le persone, giudicandole in partenza incapaci di migliorarsi.
Volontà politica volta a cancellare ogni possibilità di emancipazione dei singoli e della collettività.
agbiuso
A organizzare e offrire un “Corso di laurea triennale in influencer” è una università telematica dalla “didattica interamente online” ma è un ulteriore segno di che cosa stia diventando l’Università italiana.
agbiuso
In una sua lettera il Prof. Davide Miccione conferma il piano inclinato che è il terreno d’origine delle lauree regalate al Disum e dappertutto:
«La scuola è ormai una costola di idiocracy. Esiste una nuova figura di tutor didattico in ogni classe che si farà fuori altre ore di lezione per far esprimere i ragazzi e le famiglie su come vedono il loro futuro, e alla fine i ragazzi “esprimeranno” il tutto con un’opera che il ministero ha chiamato ‘il capolavoro’. La scuola è ormai essenzialmente un dispositivo retorico».
agbiuso
Questo avviso mi sembra grave ed emblematico della rinuncia dell’Università italiana alle sue funzioni e ai suoi compiti, rinuncia che qui è esemplificata dalla letterale cessione dei propri spazi didattici per scopi non educativi.
agbiuso
Da La strategia del polpo: breaking news dal mondo universitario
di Alessandra Calanchi, Girodivite, 1.10.2023
“Del resto, negli Stati Uniti succede già che italianisti, medievisti, francesisti, sociologi e geografi debbano improvvisarsi esperti di altro per riuscire a tenere aperti i corsi, vista la prevalenza di studenti che scelgono prioritariamente Computer Science o Business School.
Questa cefalopodizzazione non l’aveva immaginata nemmeno Ray Bradbury, che nel suo profetico Fahrenheit 451 (1953) ricordava, parlando da un futuro distopico, il tempo in cui le facoltà umanistiche avevano dovuto “chiudere per mancanza di fondi”. Invece, il polpo ci insegna che una via di salvezza c’è! Sta ai docenti smettere di fare ricerca seria e individuare piuttosto i punti di forza su cui vale la pena riciclarsi, come bottiglie di plastica, in una perenne competizione (in America la chiamano scavenger hunt, che è più figo che caccia al tesoro).
agbiuso
Ecco una delle radici di quanto avviene (anche) a Unict.
In questo caso dei giudici amministrativi si trasformano in pedagogisti, usurpano le competenze educative, annullano il significato dell’apprendere, creano le condizioni per il dilagare dell’ignoranza che pretende il riconoscimento della propria legittimità.
agbiuso
L’attacco bipartisan all’istruzione e alla ricerca
ROARS, 5.7.2023
La dipartita di Berlusconi ha aperto una riflessione sull’impatto dei suoi governi. Se guardiamo alle poche riforme promosse che non lo riguardavano personalmente, troviamo quelle della scuola e dell’università. Nel luglio 2010, un giornalista di una testata europea chiese a S.B., allora premier, spiegazioni sulle riforme della Ministra Gelmini che, approvate con altri interventi legislativi, tagliarono circa 8,5 miliardi di euro alla scuola e 1,3 miliardi all’università, mai più recuperati. B. rispose con una domanda retorica: “perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?”.
C’era appena stata la crisi economica del 2008 e la risposta del governo italiano, quasi l’unico in Europa, fu quello di tagliare risorse ad un settore chiave come quello dell’istruzione e della ricerca. Nel 2012, l’economista dell’università di Chicago Luigi Zingales spiegò meglio l’obiettivo a Michele Santoro:
”Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto».
La crisi del 2008 è stata l’occasione per rimodellare l’intero sistema dell’istruzione alla luce della leggenda del “gap formativo”, cioè che le esigenze tecnico professionali espresse dalle imprese non corrispondono alle professionalità disponibili nel mercato del lavoro: sarebbe il sistema dell’istruzione a essere inadeguato rispetto ai bisogni delle imprese e per questo va riformato.
Questa idea ha accomunato gli estensori e i sostenitori della riforma Gelmini, tra cui ricordiamo gli entusiasti “Bocconi boys”. Nel 2012, economisti ed intellettuali di questa area scesero in campo con la formazione politica di “Fare per fermare il declino”, naufragata dopo la scoperta che il candidato premier Oscar Giannino millantava titoli falsi dell’università di Chicago. Altri più sobriamente plaudivano, dettando la linea con sottili distinguo dal sito LaVoce.info.
Tutti i Ministri (a parte l’effimero Lorenzo Fioramonti) che si sono susseguiti dal 2008 ad oggi hanno rafforzato l’impostazione della riforma Gelmini, senza sanare il sottodimensionamento dell’università. Una parabola analoga hanno seguito anche le politiche per la scuola. Questo è avvenuto perché i maître à penser della Gelmini sono rimasti saldi ai loro posti di guida politica anche quando i governi hanno apparentemente cambiato colore: i consiglieri politici bocconiani hanno goduto di credito bipartisan, perché “meritevoli e competenti”.
L’obiettivo di fondo è stato duplice. Ridurre organico e tempo scuola, rimodellando scopi e funzioni del sistema scolastico e drenando risorse verso un apparato esterno di misurazione standardizzata della sua presunta qualità, l’INVALSI, guidato per anni da funzionari della Banca d’Italia, con cui dirigenti scolastici e insegnanti hanno sviluppato negli anni un rapporto di sudditanza e subordinazione didattica. Dall’altra, introdurre e consolidare un controllo politico sulla ricerca universitaria. Quale sia la reale funzione del sistema di istruzione ce lo ricorda un opuscolo redatto dal governo Renzi, intitolato “Investire in Italia”:
“Un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno”.
Tecnici a buon mercato, insomma. Ma se non c’è richiesta di personale con alta qualifica formativa da parte del “mercato” perché investire in formazione? Il controllo politico della ricerca, invece, è garantito dall’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR) che dovrebbe promuovere il “merito”. Nessun paese dell’Unione Europea e neanche il Regno Unito ha un’agenzia con competenze e poteri paragonabili a quella italiana, fondata, è bene ricordarlo, dal Ministro Fabio Mussi nel secondo governo Prodi. Il vertice ANVUR è di nomina politica: i politici, pertanto, oltre a intervenire sulle norme generali che regolano le carriere e i finanziamenti dei ricercatori, li tengono al guinzaglio dettando strampalate modalità di valutazione della ricerca scientifica. Questo si è tradotto nell’aumento della competizione tra ricercatori, accompagnata, paradossalmente, dalla mancanza di competizione tra linee di ricerca alternative. È sufficiente avere qualche rudimento di storia della scienza per sapere che le nuove idee nascono grazie alla diversificazione della ricerca e non con l’appiattimento verso il cosiddetto mainstream.
Purtroppo, l’assenza di una visione politica e di un interesse effettivo da parte del mondo produttivo ha causato non solo un restringimento del sistema universitario ma anche ha reso asfittico l’impatto culturale dell’accademia: scuola e università sono viste come scuole di formazione professionale. E, purtroppo, l’attacco all’università è stato bipartisan senza segni di ravvedimento.
agbiuso
In un suo lucido a appassionato intervento Danilo Breschi riflette sulla distopia che vorrebbe «i docenti non siano più docenti, che gli studenti non siano più studenti, ma tutti diventino altro da sé per una scuola (e università) che risulti miscelata dal seguente guazzabuglio: un po’ azienda, un po’ oratorio, un po’ burocrazia distopica, un po’ digital entertainment, un po’ talk, reality, talent show e quiz televisivo, un po’ gioco di ruolo, un po’ centro di ascolto».
Ritorno alla scuola
Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
4.6.2023
Davide Miccione
Per quanto all’ignoranza io abbia dedicato un intero volume, essa continua a stupirmi. Cosa spinge una persona a volersi laureare in filosofia o lettere (lauree deboli per prospettive economiche e aspettative sociali) senza saper scrivere neppure qualche pagina? E cosa spinge un docente a voler mettere la faccia in una simile operazione? C’è evidentemente una crisi cognitiva che si intreccia, potenziandosi, con un crisi morale. Non era inoltre difficile prevedere che la natura aziendalista dell’università contemporanea (ovviamente non solo italiana) e la temperie antiintellettualista e a-teoretica avrebbero avuto conseguenze tremende soprattutto sull’area umanistica che non ha prodotti tecnologico-finanziari da presentare e facili pragmatismi da accarezzare. Un grazie ad Alberto per il suo continuare a praticare un atteggiamento raro e oggi rarissimo: non fare finta di niente.
agbiuso
Il volume, Davide, che hai dedicato all’ignoranza – ricordo per i lettori di questo sito: Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, LetteredaQalat, 2022 – analizza, tra le altre figure, quella dell’ignorante ipermoderno, vale a dire il soggetto collettivo (composto come sempre da individui in carne e ossa ma con tendenze fortemente simili) che fa della propria ignoranza non una vergogna, una sofferenza, un ostacolo ma l’espressione più ricca e costante della propria identità, del proprio essere e dell’essere percepito. Il sottoproletariato cognitivo è la classe sociale – trasversale a condizioni economiche, luoghi geografici e ideologie politiche – che implementa i modi di esistere e pensare dell’ignorante ipermoderno.
Direi che il caso che ho segnalato si inserisce assai plausibilmente in questa tipologia.
Michele Del Vecchio
Caro Alberto,grazie per invio di “Lauree”, accompagnato dalla tua aperta, sincera, amara dichiarazione di sconforto per il grave degrado intellettuale, etico e funzionale del sistema di istruzione scolastico e accademico del nostro paese.
Ho letto, in modo rapido e a volo di uccello, gli articoli a cui rimanda il tuo testo e ho ritrovato, come mi attendevo,una piena e autentica corrispondenza tra le tue considerazioni e le riflessioni su cui mi soffermo quando mi interrogo sulle ragioni di questa situazione della nostra scuola. Situazione che mi addolora. E che mi umilia poiché nella scuola ho investito moltissime mie energie. Ma questa consapevolezza accresce un senso di colpa che mi opprime l’animo molto da vicino perché non posso non collegare in un rapporto causa-effetto lo scenario odierno delle istituzioni scolastiche al ’68. Alla sua breve fase iniziale, quella indicata come “fase dei movimenti spontanei”, durata sino all’autunno di quell’anno fatale, ho partecipato con un notevole investimento di speranze e una importante proiezione intellettuale-politica Ebbene:da tempo sono costretto a riconoscere che il’68, nato nelle scuole è clamorosamente fallito proprio nelle scuole. Ciò che di esso ancora sopravvive è qualcosa di spettrale, di irriconoscibile, di totalmente irresponsabile, di demenziale. Naturalmente non è tutta colpa del ’68 e dobbiamo riconoscere ciò che di positivo il ’68 ha fatto per la scuola italiana.E che non è stato poco. Ma torniamo all’oggi e chiediamoci cosa fare. Purtroppo la risposta è, a mio parere, molto problematica. Infatti possiamo fare ben poco. Ma a questo minimalismo dobbiamo aggiungere una seconda riflessione. E, inoltre,dobbiamo tenere conto che “ben poco” non significa nulla.Siamo infatti nella condizione in cui la resistenza delle istituzioni scolastiche, -intese come insieme di persone che vi lavorano, come sindacati e associazioni, come genitori di allievi- sono in grado di contrastare il cambiamento con due soli strumenti spuntati: una elefantiaca massa inerziale e una debolissima capacità innovativa-rinnovativa. La mia impressione è che la scuola italiana sia una istituzione debole perché abbandonata alla sua deriva. La scuola così come è non interessa a nessuno. Salvo, forse i sindacati scolastici che ne sono poi, da decenni. “gli azionisti di maggioranza”. La deriva può durare decenni, certamente. Ma può anche collassare di colpo, nello spazio di un mattino, di fronte ad un nuovo soggetto portatore di una istanza, di una parola, di una promessa. Andare avanti così è come prolungare una condizione di irreversibile agonia. E questo lo sanno anche coloro che siedono nelle stanze del potere.
Un caro saluto
agbiuso
Caro Michele, la tua lucida e appassionata analisi coglie correttamente l’eterogenesi dei fini che ha trasformato la richiesta di cibo culturale del Sessantotto nell’offerta della pietra dell’ignoranza che istituzioni, ministeri, sindacati, famiglie, individui offrono con implacabile miopia ai nostri giovani. Oppure costoro ci vedono sin troppo bene? Generazioni cresciute nell’ignoranza saranno infatti incapacitate a qualunque ribellione contro l’iniquità e il dispotismo.
Al pessimismo dell’intelligenza dobbiamo coniugare l’ottimismo della volontà, che sta non soltanto nei commenti che qui due studentesse e alcuni colleghi – compreso te – hanno lasciato ma abita nell’azione quotidiana tenace e ancora libera di tanti ragazzi, di numerosi docenti.
Io ho fiducia. Una società senza conoscenza e senza rispetto per chi apprende è una società perduta. E io credo invece che il nostro agire e il nostro parlare siano di per sé testimonianza di salvezza.
agbiuso
@Fausta Squatriti
Grazie, Fausta, per la tua testimonianza, drammatica e realistica.
@Andrearosa
La ringrazio di cuore, cara Andrearosa, per questo suo intervento, con il quale dimostra di aver colto perfettamente il significato del mio testo. Scrivendolo, ho voluto proprio dire che lei e gli studenti che lavorate con intelligenza e tenacia «valete tanto» e che il tempo dello studio non può essere superficiale e trafelato ma rigoroso e capace di mutare le persone, di renderle più consapevoli e più libere.
Lei ha compreso tutto questo e quindi l’obiettivo del mio testo è raggiunto.
@Dario Generali
Grazie, Dario, per aver individuato un elemento centrale in vicende di questo tipo: i relatori che mettono la loro firma sotto la tesi, accanto a quella dei laureandi. Oltre i relatori, c’è tutta la struttura di un Dipartimento che dovrebbe vigilare su casi simili. E al di là della struttura stessa, l’atmosfera che si respira in una comunità di studenti e di studiosi, la mentalità e gli atteggiamenti diffusi: di correttezza o di furbizia, di lavoro o di infingardaggine, di passione per la conoscenza o di incarnazione dell’ignoranza. Non si tratta di una tesi di laurea, si tratta di un mondo.
Dario Generali
Caro Alberto,
naturalmente condivido ogni parola di questo tuo testo.
Non pensavo comunque che si giungesse a tanto. Magari che qualcuno cercasse di copiare la tesi o che se la facesse fare da altri, ma 32 pagine piene di errori e in parte copiate sembra una provocazione.
Mi chiedo poi come sia stato possibile che il relatore abbia consentito alla sua laureanda di presentare una simile tesi. Ammettendo anche che non l’abbia letta, come è spesso pessima abitudine per alcuni docenti, ma la pochezza anche quantitativa avrebbe dovuto fargli nascere qualche sospetto e indurlo a verificare quel testo prima di assumersi la responsabilità di fronte ai colleghi della commissione di laurea di avallare un simile lavoro.
Davvero non c’è mai un limite al peggio.
Un caro saluto.
Dario
Andrearosa
Caro Professor Biuso,
ho letto questo articolo dopo l’ennesimo e stancante turno di lavoro. La vita da studentessa e la vita da lavoratrice mal combaciano tra di loro, per non parlare della vita personale. Il suo articolo racchiude in sé non solo una precisa analisi della nefasta condizione educativa dell’Università Pubblica ma se vogliamo anche di una condizione sociale ed economica che lascia inevitabilmente fuori dal sistema i più deboli, come ha già citato Sarah nel suo commento. Al riguardo mi tornano in mente parole di Umberto Galimberti rilasciate durante un’intervista. Non posso citarle alla lettera ma in soldoni commentava come lui avesse iniziato a insegnare Filosofia quando era ancora all’Università e quindi il futuro era letteralmente lì ad aspettarlo. Oggi invece ci sono ben poche speranze. Io ho scelto di studiare Filosofia dopo tre anni di percorso in un’altra facoltà (Biotecnologie, per onor di cronaca), in un’altra un’Università, in un’altra città. Era il 2015 e le speranze di insegnare un giorno filosofia erano già poche. Forse oggi sono completamente nulle, per una serie di motivi, con tutte le variazioni del caso, s’intende. Intraprendere altre strade vuol dire investire una bella quantità di soldi in Master e via dicendo che al giorno d’oggi possiede una casta sempre più piccola. Filosofia l’ho scelta comunque. E continuo a sceglierla ogni giorno. Come ho scelto di guardarmi altrove per sopravvivere. Questo ha comportato un problema di “tempo”. Sono una studentessa fuori corso, a Scienze Filosofiche ma forse anche a “Scienze della Vita” dato che a 29 anni non ho ancora concluso il percorso di studi (questa quanto meno è la percezione generale). Ecco, lei con questo articolo mi ha anche ricordato del valore intrinseco e immenso che hanno le persone/gli studenti come me, ogni persona che abbia una qualsiasi difficoltà, che non scelgono la via facile, che ogni giorno lavorano per ottenere un risultato, una crescita, per raggiungere un sapere che sia guadagnato, sudato, meritato, consapevole e soprattutto interiorizzato.
D’altronde sta già tutto nella parola Filosofia, amore per il sapere, e fortunatamente, questo, il capitalismo e il consumismo, non ce lo possono togliere.
Grazie.
Un caro saluto
Fausta Squatriti
Nella mia esperienza di docente, sia pure in una università un po’ particolare come l’Accademia di Belle Arti, ho avuto esperienze grottesche, quanto mortificanti per il mestiere dell’insegnante.
Testi sgrammaticati, senza sintassi, senza capacità di montare un discorso critico, erano, e vedo sono, la norma per i nostri studenti, che forse, così ignoranti, avranno più comunanza con i loro discepoli. Per decenza, quando le tesi avevano me come relatrice, mi impegnavo a fare comprendere al laureando che era tutto sbagliato, e gli proponevo di emendare i difetti, inutilmente. Mi limitavo a correggere i più insultanti, perché la tesi aveva me come relatrice. Ad una studentessa già laureata nel triennio, avevo chiesto quante guerre mondiali ci fossero state in Europa nel ‘900, e vedendo il suo sguardo vuoto, per aiutarla, le ho detto che era un periodo in cui un movimento artistico di avanguardia si era fatto strada, provocando esaltazioni negli stessi poeti e artisti dell’avanguardia in questione.
Alla fine, mi aveva detto di sapere che c’era stata una guerra, nel 15/18, ma che di una seconda non aveva mai sentito parlare. E questa aspirante docente sarà certo, nonostante la mia opposizione, riuscita a rubare il salario a chi invece saprebbe cosa e come insegnare.
Sarah
Caro professore,
di fronte a tutto questo Giovanni Gentile direbbe: “Né, per la stessa ragione, è possibile assegnare un punto finale al processo educativo. Le licenze e le lauree servono in pratica come etichette ai barattoli” (“Sommario di pedagogia come scienza filosofica”, volume I. Pedagogia generale, Sansoni, Firenze 1954, p. 139).
L’esperienza dell’uomo davvero colto non conosce meta che non sia, come mi insegnano i suoi amati Greci, la convinzione di un’ignoranza insanabile. Il professore Gentile mi insegna che sentirsi ‘ignoranti’ – come le ripeto spesso – significa sentirsi nel ‘giusto’, illudersi del contrario attingere invece al prototipo dell’asineria: “Ma, bisogno o problema, quel momento della vita dello spirito in cui lo spirito non si sente nella pienezza del suo essere, non è un momento d’eccezione, anzi legge eterna dello spirito; il quale non è mai nella pienezza dell’esser suo, poiché è svolgimento, e farsi. Se una volta fosse fatto, cessando di farsi, non sarebbe più spirito: e, credendosi di diventare un dio, diventerebbe un asino, anzi il prototipo dell’asineria. Lo spirito come farsi è, secondo che è stato detto, eterno problema che è eterna soluzione, eterna soluzione che è eterno problema. non è mai, diviene sempre” (235).
A voi educatori invece ricorda: “Il maestro dunque non ha da essere un uomo come un altro. Dev’essere virtuoso, sì, come tutti gli altri uomini; ma deve anche possedere il segreto della virtù, e saper rendere virtuosi gli altri; dev’esser colto, sì, conforme alla comune aspirazione di tutti gli uomini; ma deve, anche qui, possedere il segreto della cultura, e saper rendere colti gli altri” (155) ma soprattutto “di stimolare, additare una luce lontana, una meta alta, non pretendere pappagallesche ripetizioni e virtuosità disquisitive di dottori in erba”, il maestro deve insegnare ai suoi allievi come “la via del sapere sincero è lunga”, che “questa voglia non si fa nascere dando un sapere, ma dando il bisogno del sapere, e mettendo nell’anima, con le difficoltà dei problemi che sorgono dall’intimo di essa, il pungolo della riflessione ulteriore” (XI). Se mi fossi fermata soltanto ad alcune delle nostre aule universitarie quella di Gentile sarebbe parsa pedagogia suggestiva ma irrealizzabile, un farsi astratto dello Spirito; per fortuna però nelle aule accanto a queste ho scoperto che questa prospettiva è possibile ed è realizzabile, è il farsi concreto dello Spirito del professore Gentile.
Le lezioni a cui mi rivolgo, naturalmente, sono anche le sue. 🙂
Un caro saluto,
Sarah
agbiuso
Cara Sarah, la ringrazio di cuore per aver voluto accostare le mie parole a quelle di uno dei più grandi Maestri dell’Università europea, della cultura europea. Lei ha letto il Sommario di pedagogia come scienza filosofica e lo ha fatto così bene da poterne citare alcuni dei brani più significativi, che mostrano in che cosa consista un processo di apprendimento. Già questo solo fatto mi dà fiducia sul presente e sul futuro dei nostri studenti.
Ha poi coniugato le parole del Prof. Gentile con la sua esperienza di studentessa e di studiosa, cogliendo in questo modo il nucleo profondo della pedagogia gentiliana, il cui esito non dipende dal docente (che non è onnipotente) né dipende dall’allievo (che è appunto in formazione) ma è il risultato della loro relazione, dalla quale si genera il fatto educativo come esperienza comunitaria.
Sono concetti semplici e fecondi; la ringrazio per averli così efficacemente ricordati.
Cetti Patanè
Carissimo Prof., dopo otto anni e due percorsi di laurea, penso che moltissimi miei giovani colleghi non dovrebbero arrivare alla laurea. Mi rincresce dirlo, ma è ciò che penso. Aumentare a dismisura il numero di appelli, far sostenere prove in itinere in continuazione, consentire di suddividere le materie, a mio avviso è come nascondere la polvere sotto il tappeto. Se un aspetto positivo ha avuto Teams, è stato quello di poter ascoltare tutte le lezioni e tutti gli esami, conditi, questi ultimi, da continui intercalari, sgrammaticature e così via. Certo che non sanno scrivere la Tesi, non sanno parlare, non leggono e, ciò che più conta, non hanno passione. Ed è vero, non riguarda solo Catania. Un tesista di mio figlio ha scritto nella tesi di aver “osservato un ragno in avanzato stato di gravidanza”, per dirne una. Quale sia la soluzione non lo so, ma di certo la Laurea per tutti non è la strada giusta. È una “strada che non spunta”.
agbiuso
Cara Dott.ssa Patanè, grazie per la sua testimonianza e per la chiarezza con la quale ha stigmatizzato la distruttiva tendenza demagogica a regalare diplomi e lauree che perdono in questo modo valore professionale e significato scientifico.
Tra le altre ragioni del degrado, lei ne ha infatti ricordato alcune che avevo taciuto: “Aumentare a dismisura il numero di appelli, far sostenere prove in itinere in continuazione, consentire di suddividere le materie”.
Gli Atenei pubblici – unica garanzia di eguaglianza sociale – scimmiottano in questo modo le università telematiche, suicidandosi.