Hermann Hesse
Siddhartha
(1922)
Traduzione di Massimo Mila
Adelphi, 1987
Pagine 169
Siddharta, figlio di un brahmino, conosce e pratica la preghiera e il culto verso gli dèi, ma non se ne accontenta. Diventa un Samana, pellegrino, povero, mendicante. Impara il saper pensare, aspettare e digiunare, ma non se ne accontenta. Incontra e ascolta il Buddha e da lui riceve l’indicazione fondamentale: la santità non sta nelle idee ma nell’essere. Per questo non rimane fra i discepoli del Sublime e s’immerge tra la gente, nei commerci, nella ricchezza. Conosce l’amore di una donna, pratica il gioco e ogni godimento, ma non se ne accontenta. Diventa amico e discepolo di un barcaiolo che sa sentire la voce saggia e senza fine del fiume. Da lui impara l’ascoltare e apprende una serenità senza macchia. Per la prima volta ama e soffre per un essere umano: il figlio, verso il quale «il suo amore, la sua tenerezza, la sua paura di perderlo» si rivelano più forti di ogni meditazione e di ogni sapere (p. 141).
Alla fine di questo itinerario tra le forme molteplici del vivere, Siddharta è diventato ciò che è: un sorriso del mondo, la sapienza dell’unità, la perfezione dell’essere.
E così parve a Govinda, questo sorriso della maschera, questo sorriso dell’unità sopra il fluttuar delle forme, questo sorriso della contemporaneità sopra le migliaia di nascite e di morti, questo sorriso di Siddhartha era appunto il medesimo, era esattamente il costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione. Così – questo Govinda lo sapeva – così sorridono i Perfetti (168).
Su tutto domina una dimensione di totale interiorizzazione. Nella solitudine di colui che cerca, nella sua anima, si svolgono la vicenda, la fatica, la gioia del mondo. A lui si apre lo spettacolo iridescente e sempre uguale della forme e degli umani. Quegli umani che Siddharta insieme ama e disprezza, uomini-bambini (così li chiama) afferrati da passioni, dolori, soddisfazioni per enti ed eventi che agli occhi del saggio rappresentano un gioco.
Gli uomini, i molti, «sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino» (93).
A Siddharta, stella variabile e insieme ferma, gli eventi e il divenire rivelano alla fine la loro cifra più nascosta: il senso delle cose non è oltre e dietro di loro ma nelle cose stesse, nel loro tutto, nell’intero del quale è parte anche il tempo come increspatura dell’immobile infinità dell’essere. Ogni cosa è dunque perfetta:
In quell’ora, Siddhartha cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità (156).
Il mondo è perfetto, la Necessità lo governa. Sapienza è benedire la vita al di là di ogni passione, pensiero o dottrina. Ciò che va non può andare diversamente, ciò che accade non può in altro modo accadere. Il sorriso del Perfetto è l’ironia stessa di una sapienza senza trascendenze, riscatti, salvezze, senza senso alcuno. Sapienza del vuoto e del nulla che è l’altra parola per l’essere.
Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso di Spinoza. Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso dei Greci.
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6 commenti
Ana Victoria Guarrera
Caro Professore, grazie sempre per le sue recensioni di gran di saggi come questo de Herman Hesse che nel suo “Siddarta” si addentra nel Buddismo… questa “religione senza religione”, secondo Alan Watts, religione della saggezza al punto che molti pensatori occidentali come lui si sono chiesti se possa davvero essere definito una religione, dato che non fa alcun riferimento a un essere supremo che valga di modello per l’umanità, “il Budda siete tutti voi” sembra siano state le ultime parole di Siddarta. Lo stesso Nietzsche, nel suo “L’Anticristo” definisce il Buddismo “cento volte più realista del Cristianesimo” e “l’unica religione realmente positivista della storia” che, “dando piena ragione alla realtà, lotta contro la sofferenza”, parlando “più in là del bene e del male”… Anche Fromm, Jung e Wilhelm hanno considerato il Buddismo degno di uno studio approfondito e lo stesso Einstein lo ha definito “la religione che non contradice le necessità scientifiche moderne”. Le stesse realtà che si dice abbiano portato Siddarta alla ricerca della saggezza (la vecchiaia, la malattia, la morte e le sofferenze già solo per la nascita) penso continuino a portare alla riflessione l’essere umano di oggi, che sia negli antichi greci come nell’ Buddismo portano principalmente alla riflessione di sé e a partire innanzitutto da se stessi se si vuole trasformare la realtà…
agbiuso
Cara Ana, il Buddhismo è una filosofia, non è una religione nel senso europeo: non ha dogmi, non ha gerarchie e soprattutto non fa riferimento a nessuna divinità esclusiva ed escludente. Esso dialoga anche con alcune delle più significative correnti della filosofia della mente, come l’enattivismo di Francisco Varela. Ho fatto cenno al buddhismo come filosofia in un testo uscito qualche tempo fa: Grecità e Induismo.
Concordo dunque con le sue riflessioni, delle quali la ringrazio.
Ana Victoria Guarrera
Grazie sempre per i suoi spunti e riflessioni Professore, che accolgo per approfondire questo argomento ed altri. Un caro saluto
Marco Christian Santonocito
La ringrazio per la conferma sullo Übermensch di Nietzsche e sulle parole di Heidegger.
Mi conforta soprattutto che venga pronunciata da un profondo conoscitore di entrambi i pensatori.
Marco Christian Santonocito
Gentile Prof.,
nel suo bellissimo commento al libro ma soprattutto alla saggezza buddhista, da lei giustamente accomunata a quella di Spinoza e dei Greci, sì potrebbe inserire il superuomo (oltreuomo) di Nietzsche?
Oltre ad essere stato stato un profondo conoscitore e interprete della grecità e un ‘gemello’ di Spinoza, la sua volontà di potenza somiglia, al di là dei luoghi comuni, al sorriso del Buddha rivolto a tutte le cose, enti ed eventi. Penso ad Heidegger, che ne parla in questi termini: “V’è potenza soltanto dove regna sovrana la semplicità della calma con la quale gli opposti vengono conservati, cioè trasfigurati nell’unità dell’arco teso di un giogo… la volontà lascia libere tutte le cose di avere la loro essenza e il loro limite proprio” (M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, 2005, p. 142).
La verità dell’essere sembrerebbe percorrere e attraversare, indistintamente, il sapere occidentale come quello orientale, assumendo di volta in volta forme e linguaggi diversi ma restando riconoscibile in ogni grande, autentica filosofia.
agbiuso
Sì, caro Marco, lo Übermensch è anch’egli figura e forma della saggezza, della passione per il divenire, della distanza da esso, del sorriso. Zarathustra è anche colui che invita gli umani a ridere, a rendere sacro il sorriso.
Le parole di Heidegger lo confermano e la ringrazio per averle qui ricordate.