Capire le società significa anche e in gran parte capire le loro metafore. La guerra è anche una metafora. La quale può però essere applicata a fenomeni di conflitto reale o, invece, fantasmatico.
Reali sono i conflitti tra le nazioni, le classi, le identità etniche. Negare queste guerre nell’illusione di un’umanità nella quale «tutti siano uno» è tra i dispositivi culturali e religiosi più rischiosi che si siano mai dati. Accettare le differenze come differenze che rendono possibile lo scambio e il confronto sulla base di identità che ci sono, è invece la strada difficile ma feconda della pace. Chi proviene dall’esercizio di un lungo dominio sugli altri non accetta facilmente di riconoscere il diritto altrui di essere ciò che si è senza diventare ciò che il dominatore vuole.
La moneta, ad esempio, può essere sinonimo di pace o di guerra. Del complesso statuto ontologico, simbolico e prassico della moneta e della sua storia, ciò che di certo si può dire nel presente è che la moneta costituisce un grave rischio che soltanto un’informazione anestetizzata e anestetizzante può ancora una volta tentare di nascondere. Dal 1971 la principale moneta internazionale di scambio, il dollaro USA, non ha più alcun rapporto – neppure minimo – con un bene solido e fisico, che sia l’oro o altro. La decisione fu presa dall’allora presidente Richard Nixon e da quella data gli scambi monetari fluttuano nel vuoto della pura finanziarizzazione, della struttura soltanto «scritturale» e ora del tutto digitale della moneta e dunque della ricchezza. La creazione di cripto-monete, delle quali il Bitcoin è soltanto la più nota, costituisce sia un sintomo dell’inquietudine che aleggia sulla moneta sia un tentativo di affrancarsi da una uniformità – quella appunto del dollaro – che non potrà durare all’infinito.
Naturalmente creare moneta senza ancorarla a una base reale di ricchezza è uno dei modi più efficaci per distruggerne il valore. Questa dinamica si chiama debito, non a caso una delle parole peggio utilizzate dall’informazione contemporanea: «Si vedono solamente i segni monetari nuovi, l’illusione dell’abbondanza, e si trascura tutto quello che si vede meno (gli effetti ridistribuivi dell’inflazione, e così via). Se la stampatrice di banconote è così popolare, è perché offre un’eco ad un sogno sepolto nel cuore dello spirito umano. È la ricompensa che non richiede né sforzi né sacrifici, che si ottiene con un clic. […] Sul piano simbolico, la moneta staccata da qualunque bene reale non è soggetta ad alcun limite. Non ha ovviamente nessun limite fisico, perché non si incarna in niente di concreto. Inoltre la moneta disincarnata diventa perfettamente anonima, priva di territorio. […] L’indifferenziazione monetaria contribuisce all’appiattimento generale del mondo. […] Il capitale finanziario avrà allora raggiunto un vertice nella derealizzazione e nell’uniformizzazione del mondo» (Guillaume Travers, in Diorama Letterario, n. 356, p. 18). Se la moneta è così pervasiva è perché anch’essa esiste sotto il segno e dentro la natura del tempo. Le scelte di politica monetaria veicolano infatti «una relazione con il tempo, con la soddisfazione immediata dei nostri desideri, con la nostra libertà fino a quando sfuggiamo alla trappola del sovraindebitamento» (Id., p. 19).
La natura simbolica e psicologica della moneta – psicologica perché fondata sulla fiducia – costituisce un rischio intrinseco che però diventa ancora più concreto se opera all’interno di una struttura anch’essa aleatoria qual è il ‘mercato’ «poiché nel compromesso concluso due secoli fa fra diritto, politica e storia, compare un invitato inatteso in questa forma: il mercato, che fa di pace e guerra, fame e sete, vita o morte, un prodotto come gli altri, una prestazione come un’altra, che si pagheranno al loro prezzo» (Hervé Jurvin, p. 38).
Il mercato è una delle principali scaturigini della questione migratoria. Esso infatti cerca di realizzare i massimi profitti con il minimo investimento, anche sul costo del lavoro. L’arrivo in Europa da altri continenti di intere popolazioni ha distrutto il potere contrattuale dei lavoratori, ha abbassato i salari, ha contribuito a creare precarizzazione, miseria, negazione dei diritti.
Ho scritto ‘intere popolazioni’. Di questo infatti si tratta. Lo confermano due studiosi che si pongono su versanti ideologici per molti versi opposti ma la cui diagnosi del fenomeno migratorio è significativamente convergente in molti aspetti: l’italiano Umberto Eco e il francese Renaud Camus. Entrambi infatti propongono di distinguere tra immigrazione e migrazione. «La prima riguarda individui, pochi o molti, e può essere programmata, controllata, incoraggiata o scoraggiata, a seconda delle esigenze dei paesi di arrivo. Le migrazioni riguardano invece interi popoli e sono una faccenda del tutto diversa» poiché non riguarda degli individui ma intere collettività. Eco sostiene che l’accoglienza non deve arrivare sino al punto di trasformarsi in accettazione relativistica di qualunque modo di vivere, costume, consuetudine, credenza, «non significa dover accettare ogni visione del mondo e fare del relativismo etico la nuova religione europea» (U. Eco, Migrazioni e intolleranza, La nave di Teseo 2019, p. 54). Di più: come Camus, anche Eco prevede che dalle migrazioni nasceranno scontri assai gravi e sanguinosi, guerre in pratica. Scrive infatti che «questo confronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinosi, e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo» (Ivi, pp. 26-27). Una delle differenze è che Camus ritiene che si debba difendere la cultura europea, Eco sembrava invece rassegnato al suo tramonto.
Una guerra del tutto fantasmatica, metaforica e strumentale è invece quella che si riferisce all’epidemia Covid19. L’espressione ‘siamo in guerra contro il virus’ è infatti tanto insensata quanto rivelatrice della natura politica e non sanitaria di questa sedicente ‘guerra’. «La guerra è uno scontro di volontà configgenti, ma attribuire una ‘volontà’, intesa in senso umano ad un virus, è di una assurdità inenarrabile» (Archimede Callaioli, DL 356, p. 40). Ma direi, anche, che è un ulteriore segno del modo superstizioso e non scientifico con il quale media, social network e decisori politici affrontano la questione sanitaria. È quindi vero: «la guerra, con il virus non c’entra nulla. Parlare di guerra è soltanto una spettacolarizzazione, una narrazione capace di catturare l’attenzione del destinatario del messaggio più e meglio di altre. È realtà virtuale evocata per tenere gli utenti davanti allo schermo, è wrestling» (Id., 40).
Applicata a una questione tragica come la vita e la morte da virus, la modalità spettacolare dimostra che i media sono, essi sì, in guerra con la verità e non soltanto contro i cittadini. Quella che si è diffusa, infatti, è «una epidemia della paura» (Alain de Benoist, ivi, p. 11), che ha consentito alle classi liberali e liberiste al potere di prendere tempo e affrontare senza troppi rischi la propria impreparazione prima di tutto filosofica al dominio della morte che sempre l’esistenza è. Da tema tabù, il morire si è infatti trasformato in ossessione spettacolare: «Il lugubre becchino che ogni giorno contabilizza i decessi in televisione, le inchieste quotidiane sui mortori, ci richiamano alla nostra condizione. Ieri si nascondeva la morte, oggi se ne fa ogni sera il conteggio quotidiano» (Id., p. 10). In questa drammatica temperie, l’Unione Europea è insieme lo zombi e l’assassino, è il morto che cerca di trascinare con sé i vivi: «Non è stata l’Europa a venire in aiuto all’Italia, ma la Cina, la Russia e Cuba. L’Unione Europea si è rivelata per quel che è: un non-essere, che sa solo far funzionare la stampatrice di banconote per fabbricare indebitamento» (Ibidem).
Torniamo così alla natura anche simbolica della malattia, della moneta, della guerra.
2 commenti
agbiuso
Gas a questi prezzi. “L’euro non ha più senso”
Antonio Di Siena, 1.10.2022
Ci sono molte ragioni addotte per l’euro, ma quando si spogliano tutte le periferiche si arriva all’argomento centrale: l’euro è in realtà un proxy per il marco tedesco e tutte le parti si percepiscono come beneficiarie di un’organizzazione permanente del marco.
Con “marco tedesco” intendo che l’euro trae il suo valore dalla produzione tedesca – e in una certa misura dall’agricoltura olandese e da poche altre industrie di grande successo. In che modo ciascuna parte ne trae vantaggio, almeno ai propri occhi? Per le economie più forti – quelle che hanno eccedenze commerciali in Europa – l’euro permette loro di inondare le economie più deboli con i loro prodotti. Senza l’euro, il marco/fiorino si apprezzerebbe e le eccedenze scomparirebbero.
I paesi più deboli hanno da tempo problemi con l’inflazione e il deprezzamento della valuta. L’adozione dell’euro/marco tedesco consente loro di sperimentare i livelli tedeschi di stabilità finanziaria. Ecco il punto però: non è più così.
Come mai? Le economie più forti sono diventate arroganti. Hanno usato la loro ricchezza per cercare di “diventare ecologici” più velocemente degli altri ragazzi del quartiere e sono diventati dipendenti dal gas russo.
Con il Nord Stream affumicato, quel gas è sparito – per molto tempo. Questo trasforma i paesi forti in paesi deboli. Il tasso di inflazione della Germania era del 10% a settembre, i Paesi Bassi avevano un tasso del 17,1%. Nel frattempo, Italia e Spagna hanno registrato rispettivamente l’8,9% e il 9%.
Ci sono tutte le ragioni per credere che questo differenziale continuerà poiché i paesi precedentemente più ricchi, con la loro economia costruita attorno a un’infrastruttura energetica sgangherata, diminuiranno più degli altri. Allora che senso ha legarsi al marco in questo scenario? Sarebbe come un paese finanziariamente stabile come il Cile che lega la sua valuta a un paniere finanziario come l’Argentina. E così, a meno che qualcosa non cambi drasticamente, la logica vuole che l’euro vada in pezzi.
E così cadrà a pezzi. “Ciò che deve accadere, accadrà”. Legge ferrea dell’economia.
agbiuso
La spallata
di Andrea Zhok, L’AntiDiplomatico, 10.1.2022
L’elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica sancirebbe in Italia un passaggio ad un presidenzialismo de facto senza legittimazione popolare (si potrebbe usare un’altra definizione politica per questa fattispecie). Il progetto, piuttosto trasparente e supportato da autorevoli testate giornalistiche, è quello di una Presidenza della Repubblica che di fatto sceglie il proprio successore alla Presidenza del Consiglio nel novero dei propri portavoce o plenipotenziari. E se le prossime elezioni non porteranno ad uno sconvolgimento rispetto alle forze attualmente in parlamento, questo modello potrà vedersi riconfermato anche per la prossima legislatura.
È utile vedere questo passaggio alla luce di quanto sta accadendo negli altri principali paesi europei.
In Francia Macron è dato per favorito alle prossime elezioni presidenziali, per una riconferma. Come in Italia per Draghi, anche in Francia l’apparato mediatico mainstream ne sostiene la candidatura, per quanto in Francia un’opposizione sostanziale esista ancora e sia battagliera.
Macron è uomo di fiducia della finanza internazionale (ex Rothschild), così come lo è naturalmente Mario Draghi (ex Goldman Sachs). Nel frattempo in Germania a capo del partito di maggioranza, successore di Angela Merkel, troviamo un altro rampollo del medesimo lignaggio: Friedrich Merz (ex Black Rock).
Ora, sapevamo da tempo che l’Unione Europea è un organismo di carattere eminentemente tecnocratico, visto lo strapotere della Commissione Europea (non eletta) rispetto al Parlamento, e visto che il principale braccio operativo è la Banca Centrale, che è sempre nelle mani di un tecnocrate (oggi Christine Lagarde, ex Direttore Generale dell’FMI).
Se uniamo questo quadro alla rapidissima compressione dei paradigmi democratici avvenuta in questi mesi in tutta Europa (in verità, in tutti i paesi militarmente alleati degli USA), forse sarebbe ora che chi ha ancora qualche aspirazione democratica cominci a preoccuparsi.
Come ripetuto più volte, se mesi di manifestazioni di centinaia di migliaia di persone (decine di milioni in Europa) possono venir messe sotto il tappeto o screditate mediaticamente, accusando i manifestanti di generica “irrazionalità”, limitando il diritto di manifestazione, o direttamente reprimendolo fisicamente, è sciocco credere che quando il benpensante di turno alzerà la manina per chiedere il rispetto dei propri diritti (sul lavoro, sulle pensioni, ecc.) riceverà diversa attenzione (come dimostra la totale inanità dello sciopero della CGIL del 16 dicembre).
Da tempo, ed oggi siamo in una fase di accelerazione decisiva, il crinale politico fondamentale non si trova più tra destra e sinistra, ma sussiste in modo trasversale ad entrambe, tra istanze della democrazia reale e della tecnocrazia (prevalentemente finanziaria).
L’attuale fase ha tutta l’apparenza di un attacco decisivo al potere politico, che dev’essere spogliato dell’ultima residua parvenza di rappresentanza democratica.
Nella scia delle conseguenze della crisi del 2007-8 in molti paesi si era avuta una reazione di rigetto nei confronti di una tecnocrazia finanziaria capace di distruggere le economie reali dei paesi, senza pagare pegno.
Quella reazione, stigmatizzata dai soliti media a gettone come “populista” o “sovranista”, continua a covare sotto la cenere, in quanto le condizioni di degrado economico e sociale che l’hanno suscitata rimangono precisamente quelle che erano.
Oggi, siamo alla soglia di un’ulteriore crisi di cui ci sono tutte le avvisaglie (dalla crisi energetica, al mai risolto problema dei crediti deteriorati, all’eccesso di liquidità nel sistema – generato in questi anni per tenere in vita l’economia reale senza intaccare il capitale finanziario).
Di fronte a quest’onda, che proietta da tempo la sua ombra all’orizzonte, l’impressione è che questa volta la tecnocrazia finanziaria intenda agire d’anticipo, garantendosi direttamente l’accesso alle leve dell’unico potere che, in linea di principio, potrebbe porle qualche limite o problema, ovvero lo stato democratico.
La rappresentanza democratica degli stati è da tempo minimale, a causa di processi di erosione della rappresentatività dal basso (soglie di sbarramento, maggioritari, ecc.) e a causa del predominio degli interessi del capitale nella voci dell’apparato mediatico.
Tuttavia le esplosioni “populiste” degli anni scorsi hanno rappresentato un fattore di rischio e turbativa che potrebbe esacerbarsi in presenza di un ulteriore aggravio della situazione, e l’impressione è che questa volta si voglia dare una spallata decisiva, “mettendo il sistema in sicurezza” in anticipo, creando condizioni che rendano strutturalmente impossibile agli interessi dal basso di farsi ascoltare e rappresentare. A tempo indeterminato.
Un’ultima notazione.
Di fronte a questo quadro so bene che c’è chi riterrà di sentire odore di “complottismo”.
Ciò che mi sento in dovere di replicare è questo.
“Complottismo” in senso deteriore è ogni congettura che o non presenta adeguate motivazioni perché un certo “progetto” venga messo in campo, o non presenta in modo credibile la capacità degli attori in causa di produrre e implementare un certo “progetto” (“piano”, “complotto”).
Ma in questo caso credo che sia abbastanza chiaro che abbiamo sia l’interesse, sia la capacità.
Più nello specifico, è importante capire che i mostruosi livelli di concentrazione a cui è arrivato il capitale finanziario in questi ultimi decenni rendono tale sfera l’unica effettivamente in grado di concordare e gestire progetti con un carattere efficacemente transnazionale.
Cullarsi nell’idea che niente del genere può accadere perché niente del genere è mai accaduto prima (beh, diciamo non esattamente in questa forma), questa è appunto solo una consolazione che aiuta a distrarsi, a limitare lo stress, magari a ingraziarsi protempore il potere mettendosi dalla parte di chi non crea problemi; ma è anche un atteggiamento che può risultare storicamente fatale.