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Elena gnostica

Elena gnostica

Teatro Greco – Siracusa
Elena
(Ἑλένη)
di Euripide
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 22 giugno 2019

Ho assistito a questo spettacolo insieme a un gruppo di studenti del corso di Filosofia teoretica del 2019. A loro dedico le riflessioni che seguono.

I percorsi del mito e degli dèi sono rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili. Il politeismo greco è anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena di Euripide rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica» (Anna Beltrametti, in Euripide, Tragedie, Einaudi 2002, p. 556).
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi – vana idea che non m’ebbe» (trad. di F.M. Pontani).
Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi – sono la stessa cosa – fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due, come prima in un dialogo fra Elena e Teucro, gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini , che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della «vana immagine» di Elena, «creata da un dio»; dei guerrieri «morti per una nuvola»; del «dio che è insondabile». L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
L’Elena di Euripide – opera per molti versi sconcertante – è accenno, filigrana e metafora di qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. Qualcosa che era nato con l’orfismo e che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida» (v. 239) riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce». Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao (vv. 513-514). Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’ (vv. 1666-1667). È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono –  come sempre nel divenire del mondo –  ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.

8 commenti

  • Enrico

    Maggio 31, 2019

    D’accordo con lei, professore, inserisco qualche mia riflessione sulla messa in scena siracusana della tragedia euripidea.

    Elena non è mai partita per Troia, né è stata la causa per cui per dieci lunghi anni si è combattuto gli uni contro gli altri armati, Greci contro Troiani. Non ha mai tradito Menelao, né ha mai giaciuto insieme a Paride o alcun altro uomo. La tragedia si apre con lo strazio, il lamento e l’invettiva della donna contro le cause della sua rovina, che non è dipesa da lei ma dall’Altro insondabile. Costretta a vivere nella menzogna, invoca ardentemente giustizia e verità; la prima è per gli autentici re, la seconda è nella volontà imperscrutabile degli dèi.
    La scena è ricolma d’acqua: nell’acqua si nasce, ci si imbarca, si naufraga, si ottiene fuga, libertà, riscatto. L’acqua è segno plurimo di apparenza: gli specchi di cui si fa tanto uso per guardare oltre ma infine per ricadere in sé stessi; i riflessi di abiti, figure, corpi; i riverberi luminosi sulla superficie increspata dell’acqua; gli occhi della mente che vedono soltanto ciò che gli occhi sensibili suggeriscono. La giustizia è diafana, e nemmeno la lirica e solenne Teonoe (sorella di Teoclimeno, re d’Egitto e pretendente di Elena), può opporvisi; adempie, infine, ai giuramenti pronunciati sulla tomba del padre che campeggia al centro della scena, favorendo i legittimi sposi. La chiarezza degli enti, degli eventi e della verità è frammentata in lastre sempre cangianti, divenendo per ciò stesso sospetta e insicura. La verità di una guerra creduta limpida diventa evanescente come una nuvola, un brandello di cielo che respira, come l’altra Elena che evapora all’approdo di Menelao in terra d’Egitto.
    Euripide sembra ripercorrere il mito dell’Iliade alla rovescia, in cui un’astuta, tattica e procace Elena, sostenuta dal legittimo marito Menelao, architetta la sua fuga e la sua vendetta contro il frivolo Teoclimeno. Il re d’Egitto è messo alla berlina, un futile damerino di corte, il cicisbeo di Elena. Il gioco è facile: Elena convince Teoclimeno a fare tutto ciò che lei desidera fino alla riuscita della trappola, riportata in seguito dal marinaio/corifeo sopravvissuto in un monologo potente e viscerale. Elena, da oggetto di contesa e discordia, si tramuta in soggetto attivo e desiderante.
    Le musiche che si susseguono – fatta eccezione per qualche intrusione settecentesca – sono incalzanti, ritmiche, cadenzate; il cromatismo della scenografia è fluido e variopinto; la nave, o quel che ne rimane, a tratti arenata sul fondo della scena o assurta a piedistallo della divinità; la sezione dell’obelisco rovesciato sul quale Teoclimeno si posa; la tomba silenziosa ma eloquente del vecchio re Proteo; l’arpa che suona le corde del destino ineluttabile; sono questi alcuni elementi di un allestimento scenico ben riuscito. Al segnale di una luce abbacinante lanciata dal display che sormonta la scena, la trama si risolve con l’apoteosi di Elena, già profetizzata e poi riaffermata dai Dioscuri efebici suoi fratelli in dialogo con Teoclimeno. La donna, al termine della tragedia e invecchiata, osserva inerme tutti gli altri morire. Così, dopo i toni farseschi e da commedia, il tragico dell’opera si compie completamente.
    Il cosmo umano, in questa riduzione di Elena di Euripide, è al meglio rappresentato dall’elemento primigenio in cui tutti i personaggi, esclusi gli dèi, sono immersi. In un mondo acqueo mai definitivo e proteiforme, gli umani per barcamenarsi non hanno una nave ma un relitto, hanno occhi acuti ma illusi da una falsa chiarezza, hanno una mente che è solo il riflesso di enti apparenti. La felicità alberga nella giustizia ma essa è irraggiungibile poiché solo gli dèi la possiedono. La verità è sospesa tra la divinità e la non-divinità, tra essere e apparire. È arduo e difficile per i mortali comprendere la verità dell’apparenza, essa non si solidifica e come l’acqua è inafferrabile. Il lago umano è passione, sangue, vendetta e salvezza; in esso accade il manifestarsi dell’essere. Questa è Elena, sintesi di apparenza, mortalità e divinità, che pur con i suoi sforzi e le sue ragioni nulla può per opporsi all’ineluttabile legge degli dèi.
    Risuona forte nelle orecchie il detto di Eraclito: ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείσσων, «L’armonia nascosta è più forte di quella manifesta» (DK, 54). Gli dèi saranno sempre più forti degli umani condannati alla lotta e alla fatica; l’umana esistenza consiste nel riuscire a scorgere, e infine ad accogliere, il sorriso enigmatico del dio tra le increspature inarrestabili del mare dell’essere, il vero manifestantesi, che, come ricorda Nietzsche, è soltanto un’aggiunta menzognera.

    • agbiuso

      Maggio 31, 2019

      Grazie, Enrico, per questa sua analisi così addentro ciò che abbiamo visto e che va al di là della messa in scena, cogliendo il senso costante e totale del testo di Euripide, che “suona le corde del destino ineluttabile”.
      Destino che accade dentro “un mondo acqueo mai definitivo e proteiforme” nel quale “gli umani per barcamenarsi non hanno una nave ma un relitto, hanno occhi acuti ma illusi da una falsa chiarezza, hanno una mente che è solo il riflesso di enti apparenti”.

  • Pasquale

    Maggio 30, 2019

    Mah; parlo a Vanvera perché suocera intenda… non avrei modo di vedere lo spettacoolo, ma già questo mi fastidia un poco: i Greci hmm, un dilemma linguistico, dunque di voce; vero che Euripide parla in modo diverso da Omero, ma l’unica traduzione possibile, e bellissima, che di Omero lessi fu di Toni Comello, devo averla da qualche parte in fogli sparsi, che l’Iliade recitava a memoria. Ed era sì, ascoltralo uno spettacolo. Allo spettacolo inteso come cosa che si vede, son et lumière, tu sai io credo poco, per non dir nulla; capisco che ognuno è libero di suonarsela e cantarsela da sé, ma il teatro fatto di macchinette e sfx è un altra cosa rispetto al teatro, che è voce; quanto la danza è danza, stop. Ho visto cose di danza fatte di una persona che si muove da sola nel vuoto e mi rapisce. Tu mi dirai che Carmelo Bene. Vero ma effetti speciali hmm hm hm; ho visto nella foto qualcosa che somiglia molto alle batterie di avio al bordo lago, lì ( come se si trattasse di Linate; per carità sarà impresionanante credo; ma a me mi puzza di trucchi per coprire gli attori. Conosco solo la protagonista che dev’essere brava. La domanda è se non basta. E un po’ il discorso sul cinema d’oggi, belli belli gli effetti ma io non ne colgo la necessità se non da un punto di vista del circo, al cinema dopotutto ci sta; però un primo piano di Eastwood o della Portman riempie il cuore di portento e resto dell’idea che il teatro è una variante, una variabile trinitaria del monastero: Silentius, Corpus, Gestus, e Grazia della voce. Il video de drè mi fa l’effetto di un televisore acceso al desco. Sai come sono radicale.Dovrei venire a parlarne a Catania, darei scandalo.

    • agbiuso

      Maggio 30, 2019

      Caro Pasquale, non daresti affatto scandalo a Catania; da quello che so -infatti- questa messa in scena di Elena a molti è dispiaciuta, compresi alcuni dei miei studenti. Le immagini che scorrono sullo schermo dietro la scena rendono ancora più potente la parola e l’evento. Almeno così a me è parso e ne ho goduto. Anche perché ritengo che i Greci siano sempre epici e ciò che restituisce un poco questa loro sostanza è benvenuto.

      • Pasquale

        Maggio 31, 2019

        Caro Alberto, ripeto di aver parlato a vanvera senza avere visto ma per sentito dire, non tanto da te quanto di chi sia questo Livermore, torinese, che non mi pare spicchi per le qualità, ormai negative, che io invece ritengo imprescindibili di un regista: la povertà fino all’assenza di mezzi diversi dall’attore, dal corpo umano e stop. Ripeto anche che la mia è una posizione da priore di un teatro ascetico. Amzi metafisico. È questo a mio modo di vedere che permette di fare quel che si vuole o “ciascuno a suo modo”. Bisognrebbe fare spettacoli nel buio completo, forse. E con diecimila microfoni, questo sì. Non è contraddizione. Non mi pare. Abbracci, a chi vuoi che interessi. Grazie per aver tollerato questo scambio intenso su questioni che mi furon care.Psq.

        • agbiuso

          Maggio 31, 2019

          Grazie a te, Pasquale!
          La differenza di prospettive, nell’arte come in qualunque altro ambito, è per me ragione di ricchezza.

  • Pasquale

    Maggio 29, 2019

    MI fa piacere sentire di Davide Livermore, noto assassino di opere liriche. C’è una taglia su di lui. Ma vedi com’è molteplice tutto.

    • agbiuso

      Maggio 29, 2019

      Sì, Pasquale, tutto è molteplice. Certamente lo è nell’ermeneutica, nella storia degli effetti di un testo, delle sue letture, interpretazioni, fecondità. Apprezzo ciò che rende i Greci nostri contemporanei, perché essi sono vivi. Mi chiedo ogni volta, come ho scritto, soltanto questo: che cosa ha di greco questa messa in scena?
      Nelle Supplici di Eschilo (2015) nulla, e infatti non mi piacque. In questa Elena, molto.
      La parte iniziale e quella conclusiva sono potenti, nel mezzo si cade in un eccesso di commedia (che nel testo c’è ma che Livermore troppo enfatizza). Nel complesso una delle interpretazioni più vivaci e coinvolgenti da me gustate a Siracusa.

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