La casa di Jack
(The House That Jack Built)
di Lars von Trier
Danimarca, Francia, Germania, Svezia 2018
Con: Matt Dillon (Jack), Bruno Ganz (Virgilio), Uma Thurman (Donna 1), Siobhan Fallon Hogan (Donna 2), Sofie Gråbøl (Donna 3), Riley Keough (Donna 4)
Trailer del film
Un Virgilio paziente e antico conversa con la figura crudele di un ingegnere che avrebbe voluto essere architetto -poiché «l’ingegnere legge la musica, l’architetto la esegue»- ma senza averne le capacità. Tenta così di costruire opere d’arte composte da materia viva, o che era viva, di plasmare i corpi dando loro morte. Le vittime tuttavia sono in qualche modo consapevoli.
La prima è una donna rimasta in panne che costringe Jack ad aiutarla e poi, garrula e insopportabile, gli dice esplicitamente che forse ha fatto male a salire sul furgoncino di lui, perché ha l’aria di un serial killer. E tutto questo sorridendo e ammiccando. La vanità.
La seconda è una signora che non gli apre la porta sino a quando Jack non le promette che può farle raddoppiare la pensione. L’avidità.
La terza è una madre che accetta un picnic insieme ai suoi due bambini, sui quali Jack esercita la propria abilità di cacciatore. La famiglia.
La quarta è una ragazza che lo giudica molto strano ma alla quale piace. Il desiderio.
E poi il gelo che mantiene i corpi; il sangue che «la grande pioggia» lava; le cattedrali medioevali; Glenn Gould che suona in vestaglia; l’inesorabile legge della fame; Goethe; le tesi di Albert Speer sulle rovine; una teoria dell’ombra; la produzione di vini da dessert; citazioni dai precedenti film di von Trier; La barca di Dante di Delacroix (immagine qui a sinistra).
Infine la catàbasi conclusiva, nella quale il film svela apertamente la propria natura simbolica e religiosa. Guidato da Virgilio e vestito di rosso come Dante, Jack visita i regni dell’oltretomba, giunge nel profondo dell’inferno, decide di tentare l’uscita anche se Virgilio lo avverte che nessuno c’è riuscito mai. Su questo tentativo si chiude la crudele commedia che lui stesso è stato.
Un film a tratti manierista, con un protagonista impressionante e indimenticabile. Un viaggio banale, desolato e atroce nel gorgo dell’umano, nella ferocia del nulla che noi siamo.
5 commenti
Mario
Recensione molto acuta nella sua (abituale) sintesi: in quelle che avevo finora spigolato in giro nessuno aveva ancora evidenziato la simbologia connessa ai caratteri delle vittime come emblemi di peccati da castigare da parte dell’inaccettabile “Giustiziere”, chapeau.
A questo punto, il titolo della mia (che invece si riferiva alla marchiana impunità che la dabbenaggine dei “buoni” riserva alle sbandierate nequizie del protagonista) diventa praticamente un ossimoro: http://www.posthuman.it/cinema/delitti-senza-castigo-nella-casa-di-jack.
Gran film comunque, come al solito: ti ho citato al piede della mia per avermi fatto correggere l’errore pittorico (io avevo pensato alla Zattera di Géricault) 😉
agbiuso
La tua recensione, Mario, è come sempre erudita sulle fonti, il contesto, il percorso dell’artista. Leggerla è stato un piacere che consiglio di gustare.
Ti ringrazio per l’apprezzamento verso la mia ermeneutica della colpa. Forse von Trier è il più religioso tra i registi viventi, una sorta di Bresson diventato feroce: in lui -originario della luterana Danimarca- il concetto e la realtà del peccato costituiscono un dispositivo centrale. Dogville è forse il suo film in questo senso più esplicito, con la Grazia che si trasforma in Castigo.
In ogni caso, e qualunque sia l’esito estetico del film, la sua opera è talmente filosofica da suscitare interesse e ammirazione. Di fronte a chi lo critica a partire da intenti politico-moralistici si può enunciare la formula evangelica: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt, 8, 21).
Mario
Sante parole.
E grazie come sempre per l’apprezzamento per le mie cinedisquisizioni!
Ora che siamo “colleghi” (esco appena dai miei fanta-incontri coi virgulti del liceo scientifico di Lodi), ho così bisogno di conferme… 😉
Salvatore Fricano
Caro Alberto,
a un certo punto del film, quando Virge-Virgilio accompagna Jack c’è un sentiero interrotto (!), che condurrebbe verso la parte superiore: “Fuori l’inferno, e verso l’alto”. Virge dice una frase che vuol essere, mi pare, sibillina. Questo percorso prima era accessibile, adesso non più perché una parte del ponte è crollato. E comunque Jack (l’artista!) dice di tentare comunque, aggirando l’ostacolo. Virge glielo sconsiglia perché, dice, molti hanno provato, ma senza successo. Come decifrare tale momento, a mio modesto parere, emblematico di un film che comunque scuote le nostre -putrefatte- coscienze?
agbiuso
Nel vedere questo film sei stato molto attento e molto acuto, caro Salvatore. Sì, quello al quale ti riferisci è un momento fondamentale e come tale può essere interpretato in molti modi. Jack è un ingegnere, costruisce dunque anche ponti. Ma il suo costruire è infimo e incapace, tanto è vero che lui stesso demolisce di continuo i propri progetti.
Il ponte una volta era transitabile, adesso non più. Deve essere successo qualcosa che ha determinato la sua caduta.
Sono antichi miti e antiche concezioni che ritornano intatte nel mutare dei linguaggi e della storia. Sono archetipi dentro i quali abitiamo poiché essi abitano in noi.