L’Âge des ténèbres
(titolo italiano L’età barbarica)
di Denys Arcand
Canada, 2007
Con: Marc Labrèche (Jean-Marc Leblanc), Sylvie Leonard (Sylvie Cormier-Leblanc) (Diane Kruger (Veronica Star), Caroline Neron (Carole Bigras-Bourque), Macha Grenon (Beatrice di Savoia), Emma De Caunes (Karine Tendance)
Trailer del film
Il governo del Québec emana una legge che proibisce l’utilizzo di parole antiche, dirette, eloquenti, come ‘negro’ o ‘nano’. Chi le usa rischia l’incriminazione, il licenziamento, la condanna sociale. È quanto accade a Jean-Marc Leblanc. Ennesimo evento, questo, di una ‘vita insignificante’, con una moglie rampante, delle figlie indifferenti, dei capoufficio conformisti e idioti, che sottopongono gli impiegati a training del sorriso completamente artificiosi e a corsi motivazionali del tutto scoraggianti. Di fronte all’insensatezza, allo squallore, alla violenza travestita da rispetto, il protagonista del film si rifugia nell’allucinazione e nel sogno di una vita di successo. Soluzione disperata e nichilistica. Meglio reagire e chiamare la stupidità del Politically correct per quello che è: una delle più gravi e significative manifestazioni del conformismo che domina la Società dello Spettacolo.
Non si tratta certo di un film o di sola finzione. Si moltiplicano ovunque -a partire naturalmente dagli Stati Uniti d’America- le norme che proibiscono l’uso di parole ‘offensive’. Ma a tutti alcune parole risultano offensive. A me, ad esempio, offendono non pochi sostantivi, espressioni e aggettivi di uso sempre più pervasivo. Ho quindi il diritto di chiedere che tali parole non si pronuncino in mia presenza poiché ne rimango offeso? No, naturalmente.
Grave è anche la violenza espressiva implicita nella sostituzione del maschile neutro con soluzioni un po’ grottesche e un po’ patetiche del tipo ‘dello/della studente/studentessa’ o ‘student*’. La lingua è donna e merita di essere rispettata, non di essere violata in questo modo.
Le parole sono sacre. Comunità e civiltà che cominciano a violentare le parole danno un segno esplicito della propria ferocia. Dietro questa dittatura del politicamente corretto si cela una sostanziale indifferenza nei confronti dei reali bisogni dei disoccupati, delle vittime della violenza, degli anziani. Il politicamente corretto costituisce anzi una delle cause dell’ingiustizia, in quanto rappresenta l’alibi che ritiene di poter sanare e nascondere con un linguaggio asettico la ferita sociale. Come sostiene Robert Hughes, il Politically correct è «una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo».
Sono animalista e vegetariano ma ritengo gravissimo e insensato -un vero e proprio atto criminoso- voler censurare o stravolgere le moltissime fiabe nelle quali il lupo o altri animali appaiono in una chiave del tutto negativa. Eppure è quanto fanno seriamente negli Stati Uniti d’America. Allo stesso modo c’è chi comincia a invocare la censura di Shakespeare e di Dante Alighieri in quanto antisemiti e antislamici. Quando infatti si inizia a percorrere la china dei divieti linguistici, l’esito non può che essere la cancellazione della letteratura o la sua distruttiva ‘riscrittura’.
Amo le parole, tutte. Anche quelle che non mi piacciono. Perché «l’‘essere nel mondo’ dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare» (Martin Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Adelphi 2017, p. 53). Un parlare libero, armonioso, semplice e funzionale. Non censurato o autocensurato dal timore che qualcuno si possa sentire offeso dal nostro linguaggio. Per non offendere nessuno sarebbe infatti necessario stare zitti. Che è, di fatto, il vero e ultimo esito di ogni dire politicamente corretto, di un‘âge des ténèbres, un’epoca di tenebre.
15 commenti
agbiuso
Segnalo, e allego il relativo pdf, un’intervista rilasciata a Le Figaro Magazine dal regista di L’Âge des ténèbres a proposito del suo nuovo film: Testament.
Denys Arcand: «Quand une fille déclare ne plus être Suzanne mais Albert, c’est unnouveau monde qui s’ouvre»
agbiuso
Anche Goethe accusato di sessismo. È inevitabile: destino e meta del Politically Correct è il deserto culturale, l’urlo onomatopeico e idiota del quale parla Pasolini (Lettere luterane, Einaudi 1976, pp. 7-9). Ma non sono mancate le reazioni: Wir haben das Goethe-Haus in Weimar geschändet.
agbiuso
Le macchine del bene praticano da sempre un grottesco cortocircuito ma ora lo fanno con l’automatismo dei Social Network: accusano di odio odiando.
E invece il sereno e sano “diritto all’odio” che Pasquale D’Ascola argomenta e difende è una delle frontiere della libertà. Della gentilezza, direi.
Cuorinmàno e arcobàlani
agbiuso
Une école de Barcelone retire 200 livres jugés sexistes de sa bibliothèque
Ancora una conferma del fatto che il politically correct è espressione di ignoranza antropologica e barbarie culturale, il cui esito ultimo è quello prefigurato da Ray Bradbury in Fahrenheit 451.
agbiuso
L’energia scintillante della parola e la forma dell’ironia di Pasquale D’Ascola, strumenti preclari contro il politicamente corretto che incatena Céline e adora Saviano. Non c’è proprio proporzione. Scenderanno nel nulla dal quale provengono e l’intelligenza rimarrà ancora lì, a splendere.
Imputtane alzatevi, le sottane
agbiuso
Una riflessione a proposito della china totalitaria sulla quale sono avviate le società contemporanee.
===========
Provate a spiegarle cos’è il fuorigioco…
di Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2019
Alla trasmissione Quelli che il calcio, condotto da due comici, Paolo e Luca, Fulvio Collovati, ex stopper dell’Inter e della Nazionale, ha affermato: “Quando sento una donna, anche la moglie di un calciatore, ma questa è una mia opinione, parlare di tattica…mancano gli ‘esterni’…mi si rivolta lo stomaco”. Per questa affermazione l’A.D. della Rai Fabrizio Salini ha sospeso per due settimane l’ex calciatore non solo da Quelli che il calcio di cui era un ospite fisso, ma da qualsiasi trasmissione della Rete pubblica.
Sono assolutamente d’accordo con Collovati. Provate a spiegare a una donna il fuorigioco e poi mi direte. Per quel che mi riguarda le donne se proprio ci tengono ad andare allo stadio dovrebbero essere relegate in qualche settore a loro dedicato come avviene, saggiamente, in alcuni Paesi musulmani. Il calcio, anche se ormai sconciato dall’irrompere sul campo della tecnologia, la televisione e il Var su tutto (si veda il grottesco episodio di Spal-Fiorentina di domenica scorsa dove dopo un fallo in area della Spal, non rilevato dall’arbitro, gli spallini in contropiede vanno in rete, esultanza, stop, fermi tutti, interviene il Var, il gol della Spal viene annullato e accordato il rigore alla Fiorentina, quattro, cinque minuti di sospensione con tanti saluti alla magia del gioco) è rimasto l’ultimo luogo del sacro in un Occidente totalmente materialista. Come ogni rito vuole una concentrazione assoluta. Non sono mai andato allo stadio con una donna. Perché non si può guardare una partita e nello stesso tempo sbaciucchiarsi. O l’uno o l’altra. Inoltre il calcio è un rito omosessuale, maschile, nel senso che permette di esprimere, sublimandola, l’omosessualità che è in ciascuno di noi senza incorrere nel rimbrotto sociale.
Questa naturalmente è una mia personalissima opinione come lo era, e molto più autorevole in questo settore, quella di Collovati. Ma la questione è molto più ampia e trascende il mondo del calcio anche se nel calcio spesso ritorna perché il mondo del pallone è uno specchio della società. Rimanendo per il momento in questo settore si è fatta una gran polemica perché mercoledì in Atletico Madrid-Juventus, al secondo gol dell’Atletico il suo allenatore, Simeone, ha fatto un gesto che alludeva a quelli che ipocritamente si chiamano “attributi”, cioè le palle, volendo significare che i suoi ce le avevano. Nel dopopartita si è parlato molto di più di questo gesto che del fatto sostanziale, cioè che la Juventus aveva fornito una prova incolore, mentre Godìn, Koke, Giménez e gli altri ci avevano messo tutto il loro ardore agonistico.
Riprendendo gli episodi che riguardano Collovati e Simeone vorrei sottolineare come ormai in questa società molto democratica sia di fatto proibito esprimere, con parole o gesti, le proprie opinioni o le proprie emozioni senza incorrere non solo nella sanzione sociale ma anche, come nel caso di Collovati, in quella professionale. Collovati ha detto una sciocchezza? Può darsi. Ma ha il pieno diritto di dirla se vale ancora nel nostro Paese il principio della libertà di espressione garantito dall’art. 21 della Costituzione. Invece tutto ciò che esce dal luogo comune è proibito. Forse anche questo articolo. Particolarmente feroce è la repressione democratica nei confronti dei nostalgici del fascismo. Non si può fare il ‘saluto romano’ senza rischio di galera, non si può avere fra i propri simboli il fascio littorio e così via. Ancora peggio va per chi voglia fare ricerca sull’Olocausto. Mi sono sempre domandato: ma è giusto incarcerare per tre anni uno storico come l’inglese David Irving arrestato in Austria per aver scritto un poderoso tomo in cui ridimensionava le cifre dell’Olocausto? E’ sufficiente sostenere una tesi aberrante senza torcere un capello a nessuno per finire in gattabuia? Le tesi assurde di certi storici andrebbero contrastate con più cultura e più controinformazione, non con le manette. Eppure, se ricordiamo Galileo e la giusta difesa che ne facciamo da secoli, il diritto alla ricerca è uno dei cardini di una società democratica. Il ‘revisionismo storico’ è proibito. Eppure è stato il liberale Benedetto Croce, che non può essere certamente sospettato di simpatie per il fascismo, ad affermare che “la Storia è il passato visto con gli occhi del presente”. E quindi non è affatto obbligatorio che il presente veda le cose con gli stessi occhi del passato. Anche perché la Storia del passato, nell’immediatezza dei fatti, è sempre la Storia vista dai vincitori. Poi c’è la ‘legge Mancino’ che con l’ipocrita dicitura “istigazione al” vieta l’odio razziale e, più genericamente, ogni tipo di odio. Come ho già scritto è la prima volta che si certa di mettere le manette ai sentimenti. Anche i peggiori regimi totalitari, se hanno vietato azioni, idee, ideologie, non hanno vietato l’odio. Perché l’odio è un sentimento, come lo è l’amore, la gelosia o l’ira, e come tale non è né contenibile né punibile in quanto tale. Va da sé che se tocco anche solo un capello a una persona che odio devo finire in gattabuia. Questa dovrebbe essere la sola regola valida in un regime che si definisce democratico. Invece non possiamo più dire né fare nulla. Nemmeno toccarci i coglioni.
agbiuso
Il politicamente corretto non può che finire nel buio della censura e della sessuofobia.
Basta scene troppo hot: arrivano i censori del sesso
di Davide Turrini
il Fatto Quotidiano, 12.2.2109
agbiuso
WOODY VS. #METOO
di Matteo Fais
Pangea, 2.9.2018
Altro che rogo dei libri e dell’arte degenerata! Oramai siamo oltre. Un fuoco farebbe troppo fumo, si noterebbe a distanza. Meglio silenziare, ritirare i soldi e impedire la distribuzione, come è successo a Woody Allen con il suo ultimo film A Rainy Day in New York. Ecco cosa accade quando il fascismo diviene subdolo e politicamente corretto.
È bene chiarire il concetto: noi viviamo sotto una dittatura bianca, morbida. Come in tutti i più spietati regimi, un comitato vaglia le opere dell’ingegno umano e decide a cosa dare o non dare diritto di pubblicazione. E continuando così, statene certi – del resto, è già successo – il principio diverrà anche retroattivo. La censura colpirà persino chi fino a oggi l’aveva passata liscia. In un’università di Manchester è toccato a una poesia di Rudyard Kipling, If, accusato di essere stato razzista. Prima o poi sarà il turno di Lolita dell’amato Vladimir Nabokov da cui, presumibilmente, ricaveranno una versione adatta per le scuole dove si insegna l’educazione sentimentale.
Tutto ciò accade sotto i nostri occhi e, come già detto, senza la necessità di ricorrere a mezzi estremi. Avviene in modo indolore, evitando la coercizione e l’olio di ricino. Basta levare un finanziamento e ammantare di nobili intenti la propria vocazione nazista. Nella fattispecie, far passare per difesa delle donne maltrattate la bieca pratica di non permettere a una voce scomoda e dissonante di essere ascoltata.
Woody Allen ha avuto il torto di raccontare una storia d’amore – o come preferite chiamarla – tra un uomo di 44 anni e una giovane di 15. Una cosa peraltro già vista in certi suoi precedenti film, come quel Manhattan tanto osannato dalla critica. Ma il punto non è questo e nemmeno le accuse che lo riguardano (molestie varie). Qui è in gioco la libertà di espressione artistica, ovvero l’unica cosa che sembrava mantenere una sua nicchia di autonomia – visto che la semplice libertà di espressione, almeno sui giornali, esiste solo idealmente. Il #metoo e chi lo sostiene, in America come in Italia, vorrebbe costringerci a leggere e vedere solo ciò che si conforma al loro parametro di correttezza morale, ovvero i libracci di Saviano e i film buonisti all’italiana. Certo, non i romanzi di Houellebecq e i capolavori tragici e ossessivi di Lars von Trier. In due parole, siamo nella merda, di cui loro ci hanno ricoperti e che sicuramente cercheranno di passarci per merda d’artista.
In ogni caso non bisogna desistere, né concedere a questo manipolo di squinternate, che poco ma sicuro saranno supportate da qualche potere forte che le sovvenziona, la possibilità di porre un argine al nostro sacro anelito di dire l’indicibile, anche qualora si tratti di un’apologia del male, come il racconto di un amore che non osa dire il suo nome.
agbiuso
Micromega mi ha rubato il titolo ma va bene così :-).
Un titolo ovvio, certo, ma è una buona cosa che venga ribadita la necessità di porsi contro il politicamente corretto, contro il suo autoritarismo e la sua censura.
Copio qui una mail ricevuta dalla rivista.
========
MicroMega 6/2018: “Contro il politicamente corretto”
Da giovedì 27 settembre in edicola
È un vero e proprio “manifesto” contro il politicamente corretto il nuovo numero di MicroMega in edicola, libreria, ebook e iPad da giovedì 27 settembre.
Il senso del numero lo dà in apertura il direttore Paolo Flores d’Arcais che punta l’indice contro la nuova stagione di eccessi che l’ideologia del politically correct sta vivendo e che ha condotto alla riscoperta ‘progressista’ della censura. Una questione che interroga da vicino la sinistra, la quale ormai ha scambiato l’essere al fianco degli oppressi con l’assunzione delle ideologie degli oppressi, anche quando “comportano l’oppressione da parte degli oppressi su altri doppiamente oppressi (in primis e sempre le donne)”.
A offrire un quadro dettagliato della situazione e della posta in gioco è la prima sezione del numero che si apre con un’ampia rassegna dei casi più eclatanti di censure politicamente corrette degli ultimi anni, a cura di Ingrid Colanicchia. La filosofa Gloria Origgi descrive invece la genesi e gli sviluppi di questa ideologia tutta americana; mentre la sociologa Chiara Saraceno analizza gli effetti delle rivendicazioni identitarie sui corsi di studio universitari; Gérard Biard, caporedattore del settimanale satirico Charlie Hebdo, rivendica dal canto suo il diritto alla libertà di offesa, parte integrante della libertà di espressione; e infine la filosofa femminista francese Élisabeth Badinter mette in guardia dal ritorno del religioso e dai rischi dei comunitarismi.
Specificamente dedicata a potenzialità, rischi e limiti del movimento #MeToo – che si muove tra sacrosante rivendicazioni e rischi di derive giustizialiste e puritane – è invece la seconda sezione del numero con interventi di Ginevra Bompiani, Cinzia Sciuto, Silvia Bencivelli, Simona Argentieri, Stefano Ciccone, Caterina Malavenda, Sveva Casati Modignani, Elena Stancanelli, Giulia Blasi, Simonetta Agnello Hornby, Eva Cantarella e Telmo Pievani.
Arricchiscono e completano il numero il saggio del filosofo francese Marcel Gauchet, che a partire dalla constatazione della fine della dominazione maschile, analizza le ragioni che hanno governato l’organizzazione plurimillenaria dei ruoli sessuali e quelle che hanno condotto alla messa in discussione di un sistema di ruoli e identità così stabilmente consolidato; e l’intervento/appello dell’attivista iraniana Masih Alinejad – fondatrice della campagna contro il velo obbligatorio “My Stealthy Freedom” – che invita le donne occidentali a smetterla di legittimare, in nome del rispetto della diversità, quelle politiche che nel mondo musulmano opprimono le donne.
IL SOMMARIO DEL NUMERO
LA LINEA GENERALE
Paolo Flores d’Arcais – Il politicamente corretto oppio della sinistra
La sbornia politicamente corretta che ha travolto la sinistra ormai da diversi decenni sta vivendo negli ultimi tempi – grazie al revival dei movimenti identitari – una stagione di nuovi eccessi. Con acrobazie (il)logiche degne dei migliori trapezisti, si è giunti ormai alla riscoperta ‘progressista’ della censura, immunizzando in primis, in nome del rispetto, le superstizioni venerabili e storiche dalle critiche rivolte a dogmi santi profeti e altri Dii, per bordeggiare infine le sontuosità beghine della sessuofobia.
ICEBERG 1 – libera offesa in libero Stato
Ingrid Colanicchia – La dittatura del politicamente corretto: una rassegna
Nel lontano XVI secolo Daniele da Volterra si guadagnò l’appellativo di Braghettone per aver coperto, a seguito delle disposizioni del Concilio Tridentino, i nudi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Sono passati cinquecento anni e il ‘politicamente corretto’ – nato in risposta all’egemonia culturale, linguistica, politica del maschio bianco occidentale – si è trasformato in una mannaia da abbattere sulla libertà di espressione. Sotto i suoi colpi cadono classici della letteratura, capolavori dell’arte, opere liriche, film e persino cartoni animati. Una rassegna (non esaustiva) dei casi più eclatanti degli ultimi anni.
Chiara Saraceno – La sorella di Shakespeare e i canoni universitari
Le rivendicazioni dei gruppi discriminati hanno avuto il benefico effetto di mettere in discussione i criteri con cui si creano i canoni letterari e artistici, spesso però rimanendo confinate in corsi di studio ad hoc e incidendo poco nei curricula standard. Oggi il rischio è che, a partire da tali rivendicazioni, si stravolgano i corsi di studio, cancellando opere letterarie e artistiche in nome del ‘politicamente corretto’. Un’operazione insensata e antistorica, che nulla ha a che fare con la necessaria attenzione che – grazie a una sensibilità più accorta – dobbiamo prestare alle produzioni di chi appartiene a gruppi storicamente svantaggiati.
Élisabeth Badinter – Non c’è femminismo senza laicità
Non crede nel femminismo islamico, punta il dito contro le derive del #MeToo, mette in guardia dal ritorno del religioso e dall’arretramento della laicità, denuncia l’antisemitismo montante. La filosofa francese tratteggia un quadro non molto incoraggiante del nostro presente ma, dice, “sono una pessimista attiva. Penso che qualunque cosa accada sia necessario battersi per le proprie idee, anche se sono diventate minoritarie”.
Gérard Biard – Il furore identitario e le sue contraddizioni
L’annosa questione della distinzione fra legittima critica e offesa si ripresenta oggi ulteriormente rafforzata dal furore che aleggia nelle nostre società, secondo il quale le ‘identità’ – etniche, culturali, religiose, sessuali e chi più ne ha più ne metta – dovrebbero essere immuni da critica perché altrimenti si rischia di offendere la sensibilità altrui. Il che si traduce inevitabilmente in una forma di censura (e di autocensura). Perché ciascuno ha la propria di sensibilità e per non offendere quella di nessuno non possiamo che tacere. A tutto questo si contrappone la becera reazione da destra che accusa coloro che non ne accettano la narrazione xenofoba di ‘moralismo’ e di ‘buonismo’. I tempi sono dunque duri per la satira, come ci racconta una firma di punta di Charlie Hebdo.
Gloria Origgi – Genesi, sviluppi e derive di un’ideologia americana
In un paese come l’Italia in cui un ministro leghista solo qualche anno fa definiva gli africani ‘bingo bongo’, non c’è proprio da avere paura dell’egemonia del politicamente corretto. Che invece spopola nelle università americane, dove d’altronde è nato decenni fa, producendo esiti spesso paradossali che riguardano soprattutto le facoltà umanistiche. In alcuni dipartimenti ormai l’ideologia regna sovrana: chiunque pensi che ci siano solo due sessi è un nemico del popolo che va ostracizzato, mentre chi ritiene che Shakespeare valga comunque una lettura se si studia letteratura inglese non è altro che un bianco imperialista. Un approccio che – lungi dal servire la causa dell’apertura dei canoni tradizionali – si traduce in chiusura identitaria e annullamento dello spirito critico.
IL SASSO NELLO STAGNO
Masih Alinejad – Care donne occidentali coraggio, state dalla nostra parte
Qualche anno fa ha pubblicato su Facebook una foto che la ritraeva senza il velo, invitando altre donne iraniane a fare lo stesso. È nata così la campagna ‘My Stealthy Freedom’, diventata virale in pochissimo tempo e che oggi è anche un movimento fuori dalla rete, fatto di donne che ogni settimana si danno appuntamento nelle strade dell’Iran coi capelli al vento. La sua promotrice, che oggi vive negli Stati Uniti, accusa: “Nella mia vita mi è sempre stato detto che non era il momento giusto per rivendicare i miei diritti. Anche oggi, in Occidente, mi viene detto che ‘non è il momento giusto’ perché rischio di alimentare l’islamofobia. Io dico: basta! Nessuno può più impedirmi di parlare, perché è sempre il momento giusto per lottare per la libertà”.
SAGGIO
Marcel Gauchet – La fine della dominazione maschile
A partire dalla constatazione che siamo di fronte alla fine della dominazione maschile, il filosofo francese analizza le ragioni che hanno governato l’organizzazione plurimillenaria dei ruoli sessuali, il modo di intendere la differenza dei sessi, la funzione che ricopriva nel funzionamento collettivo della società e allo stesso tempo le ragioni che hanno condotto alla rimessa in discussione di un sistema di ruoli e identità così stabilmente consolidato.
ICEBERG 2 – pericolo puritano (il #MeToo e le sue derive)
Ginevra Bompiani – Anche da me
Il patriarca è una specie particolare di uomo, si circonda di esseri inferiori da comandare e da proteggere. Fra loro primeggiano le donne, spesso le predilette di casa. Il patriarca non si serve di loro, ma da loro. La donna è stata senz’anima per millenni. Il suo corpo era proprietà privata come un corpo animale. E forse nel lieve trasalimento di quando viene sorpresa, nell’esitazione a negarsi o a denunciare, emerge una sorta di memoria collettiva delle donne. Una memoria che rivive ogni volta che, ancora oggi, un patriarca allunga la mano, e che potrà trovare pace solo quando di patriarchi non ne esisteranno più.
Cinzia Sciuto – Meriti e limiti del #MeToo
Il movimento #MeToo ha avuto il grande merito di richiamare l’attenzione sull’asimmetria che caratterizza le relazioni fra uomini e donne. E se è vero che, come ogni movimento di emancipazione e liberazione, è suscettibile di derive reazionarie e presenta alcuni limiti, è altrettanto vero che insistere, come da più parti si fa, nel sottolinearne le possibili derive e storture rischia di ricacciare le donne nel silenzio.
Silvia Bencivelli – Confessioni di una ‘famosetta molestata’
Se non parli vuol dire che ti stava bene, se parli fai vittimismo. Stiamo pericolosamente alzando l’asticella nella definizione di ciò che è violenza, per cui se non hai come minimo qualche livido che vuoi che sia stato… Ma oggi, ai tempi della rete, le forme della violenza sono cambiate e una persona – capita perlopiù alle donne – può finire in un tunnel di insulti e minacce a mezzo web che può segnarla profondamente e che si traduce in una concretissima limitazione della propria libertà e sicurezza. La testimonianza di una giornalista che ha scelto di rendere pubblica la propria storia perché è ora di rompere il silenzio.
Simona Argentieri – Non in mio nome
Il #MeToo non è un’organizzazione strutturata né un partito. Pertanto non si possono addebitare a esso tutte le scomposte conseguenze né le incontrollabili ricadute che ne sono derivate. Non è direttamente colpa sua se sul carrozzone, accanto a quelle che hanno finalmente trovato uno spazio collettivo e una forza sociale ed economica per chiedere giustizia, si sono arrampicate altre donne deluse, esaltate, assetate di vendetta. Ciononostante non possiamo non constatare, con amarezza, il clima da giustizia sommaria e a tratti puritano che si è creato e che, se forse può costituire nel breve termine un deterrente contro alcuni abusi, non ci fa fare nessun passo avanti in termini di riflessione collettiva.
Stefano Ciccone – La violenza sulle donne è un problema degli uomini
La violenza maschile contro le donne (ma anche quella omofoba) affonda le sue radici in una struttura delle relazioni tra i sessi che vuole il ‘femminile’ sempre in posizione passiva, privo di una soggettività e di un desiderio autonomo, sempre a disposizione del maschile. Questa rappresentazione modella il nostro immaginario, le forme del corteggiamento, i nostri atteggiamenti quotidiani, ben al di là e ben prima di qualunque violenza. Se non mettiamo mano a questa cultura, ribaltandola, potremmo forse punire i singoli che si macchiano dei delitti più abominevoli, sollevandoci la coscienza, ma non avremmo fatto un solo passo in avanti per risolvere il problema alla radice.
Caterina Malavenda – Lo Stato di diritto ai tempi del #MeToo
La nostra normativa fornisce già tutti gli strumenti giuridici per perseguire i reati di abuso sessuale, con una ragionevole proporzionalità della pena in relazione alla gravità dei reati. Lo stesso famigerato limite dei sei mesi per presentare denuncia – oggetto di molte critiche – è in realtà un periodo di tempo superiore a quello previsto per altri reati, proprio perché il legislatore ha tenuto in conto le particolarità dello stupro. Le denunce tardive inoltre non solo non consentono all’accusato di difendersi in un tribunale, ma rendono molto più complicato l’accertamento della verità di quanto viene denunciato. Ben venga dunque una presa di consapevolezza collettiva, senza però dimenticare i princìpi cardine di uno Stato di diritto.
Sveva Casati Modignani – Una salutare ribellione di massa
Il ‘te la sei cercata’ è l’argomento principe che viene usato per minimizzare i casi di molestie e abusi. Un argomento che le donne interiorizzano fin dall’infanzia e che impedisce loro di prendere consapevolezza dei propri diritti. Persino oggi che, grazie al #MeToo, tante hanno trovato il coraggio di denunciare gli abusi, in molti (e tra questi anche diverse donne!) continuano a scagliarsi contro le vittime, colpevoli di sedurre o di approfittare dei poveri stupratori!
Elena Stancanelli – Contro il vento neopuritano e il reato di molestie
Se gli adulti fossero adulti – ossia se il modello educativo funzionasse bene e producesse uomini e donne consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri – non sarebbe necessario avere uno Stato che discuta dei centimetri di coscia su cui si può appoggiare una mano. Dovrebbero essere, queste, faccende private da gestire, appunto, tra persone adulte. Ci stiamo invece pericolosamente avviando verso un modello – che proviene da oltreoceano – nel quale veniamo tutti trattati come ragazzini. Un modello che rischia derive autoritarie, a partire da quelle sessuofobiche e censorie.
Giulia Blasi – Di cosa parliamo quando parliamo di stupro
La violenza inizia lì. Quando quello che racconti non coincide con lo stereotipo che l’immaginario collettivo si è costruito della ‘vera stuprata’. Che di norma è violentata da uno sconosciuto (possibilmente straniero), fuori casa, che ha per forza urlato come Sophia Loren in La ciociara, che deve necessariamente avere qualche segno evidente, qualche ferita, qualche livido, che deve per forza essere scioccata e non riuscire più a condurre una vita ‘normale’. Se tutti questi elementi non ci sono, via, circolare, non c’è niente da vedere.
Simonetta Agnello Hornby – Giù le mani
Per la scrittrice siciliana naturalizzata inglese (e avvocato), autrice di La Mennulara, alcune derive del movimento femminista – che con il #MeToo stanno esondando – sono del tutto inaccettabili. Due in particolare: quella che porterebbe a denunciare gli abusi oltre i termini di legge, mettendo in discussione il sacrosanto principio del giusto processo; e quella per la quale le donne sono sempre nel ruolo di vittime e gli uomini in quello di carnefici. La realtà dimostra che le cose non stanno affatto così.
Eva Cantarella – La caccia alle streghe e la certezza del diritto
Il principio fondamentale su cui si basa il nostro sistema penale è che i reati debbano essere provati. Non è, e non può essere, dunque sufficiente il ‘vissuto’ della vittima, che invece nelle vicende che hanno al centro la questione molestie spesso si pretende costituisca una ‘prova’. Con pericolo per la certezza del diritto, oltre che per le relazioni fra i sessi, diventate oltremodo complicate. Ed è curioso che l’ondata di puritanesimo e caccia alle streghe che si sta rapidamente diffondendo in Europa provenga da quegli Stati Uniti che negli anni Sessanta sono stati il luogo della libertà per eccellenza. Nei cui campus oggi si prova a censurare perfino Ovidio e dove anche un gentile complimento viene considerato una molestia.
Telmo Pievani – Natura e normalità (ovvero il #MeToo ai tempi dei trogloditi-fieri-di-esserlo)
La campagna #MeToo – con tutti i limiti di un movimento che ruota attorno a un hashtag – è sicuramente una nuova tappa della lotta e della riflessione sulla questione femminile. Ma essa pone anche una questione maschile, che invece è pressoché assente dal dibattito, come se la condizione degli uomini fosse assodata, pacifica, determinata. E invece vediamo maschi nervosi, fragili, frustrati, e dunque aggressivi e prepotenti, e diciamo: ‘Ma sì, i maschi fanno così’. Con un appello a una presunta ‘natura’ che, oltre a essere totalmente infondato, è solo una foglia di fico per il nostro cinismo.
agbiuso
Invito a leggere uno splendido testo di Pasquale D’Ascola: Pezzi di merda indignatevi.
L’autore ha ragione: meglio essere materia terragna anche se un poco schifosa piuttosto che sensibili anime belle, pronte tuttavia alla ferocia. Ancora una volta Nietzsche ci aveva avvertiti: guardatevi soprattutto dai buoni, dal loro risentimento, dalla scarsa ma strisciante intelligenza che sempre li accompagna.
Pier Vittorio Molinario
Caro Alberto, considerata la mia età e la mia formazione classica è scontato che io provi fastidio per le più becere parole o espressioni alla moda, per gli eufemismi più o meno buonistici, eccetera. Ciò non toglie che poco tempo fa un tuo giovane e brillante collega (Baptiste Morizot, in Le Diplomates, Ed. Wildproject 2016, p.22) mi abbia dato una scrollata brutale. A proposito del gesto adamitico di dare un nome, configurare, orientare rapporti (per esempio con gli altri animali) scrive: «Les mots ne représentent pas les choses, il les changent». Un saluto, Pier
agbiuso
Caro Pier, certo che le parole creano e mutano il reale. Proprio per questo bisogna rispettarne con cura la genesi, la stratificazione storica, la complessità fatta di molti colori e non del bianco o del nero. Le parole sono sia realtà sia metafora.
E quindi rispettare gli altri animali significa non torturarli negli stabulari, nei laboratori, negli allevamenti intensivi. Non significa cancellare, censurare, violare le meravigliose fiabe delle quali sono protagonisti con ogni possibile comportamento.
E così rispettare gli umani significa non trattarli come merce, come bruta forza-lavoro, come contenitori da imbonire. Che è esattamente quello che fa il liberismo trionfante, del quale il Politically correct è strumento ed espressione. Sì, «les mots ne représentent pas les choses, il les changent», anche nel senso del nascondere le cose dietro il velo ideologico delle parole. E così sentirsi in pace con la propria coscienza utilizzando parole eque mentre la realtà continua a essere iniqua.
agbiuso
Sì, cari Fausta e Pasquale, l’attacco alla lingua, alla sua complessità, alla sua polisemanticità e anche alla sua durezza, è un attacco a uno dei nuclei stessi dell’esistere, poiché complessa, molteplice e dura è la vita.
Condivido per intero anche il bisogno di “segretezza”, di riservatezza e di sobrietà, rispetto alla pubblicità perenne -alla trasparenza totalitaria- dei Social Network e di ogni altro contesto dove si dica tutto.
Pasquale
Caro Alberto, che dire, incitarti a leggere L’impero del bene. E a scrivere sempre con questa accanita forza di resistenza alla scemenza.
Non fosse tragedia quella che si annuncia e che magari qui tra latini non arriverà ai risvolti grotteschi e ignoranti che assume oltreoceano, essi non sanno che negro oltre che spagnolo è italiano,
Di quel marchese Alfonso il primo è figlio,
Il qual tratto dal Negro negli aguati,
Vedeste il terren far di sé vermiglio L.Ariosto Orlando C33, non fosse per questo, ci sarebbe da raccontare storielle da veglia intorno al fuoco. Tutti ricorderanno gli scioperi dei macchinisti delle ferrovie che volevano cosa, essere chiamati piloti.
Gli è che chi scempia la lingua sa benissimo che così facendo la taglia. E quindi che toglie. Oggi un idraulico qui della provincia fiorentina, giovane, alto, a proposito dell’acqua e dei danni che può fare m’ ha detto, La guardi, l’acqua l’è ignorante. Ti immagini chi potrebbe avere la fantasia in fess bouc di trovare una tale metafora per l’acqua.
E dunque ne vedremo delle belle.
Fausta
Sono anche io molto imbarazzata nel sentire storpiata la lingua italiana, che di per se stessa è neutra, con le sue parole e i loro significati, per una specie di risarcimento del femminile , genere per il quale molti ruoli esistono solo al maschile, in funzione del ruolo sociale che poneva/pone il maschio in situazione predominante.
Trovo orribile dire ministra, o sindaca, e trovo orribile la pretesa di certe intellettuali che vogliono essere chiamate professore e non professoressa, ricusando un caso in cui la nostra lingua contempla il femminile. Nel mondo dell’arte e della letteratura, va meglio, nessuno si offende ad essere definita come pittrice, o poetessa, anche se capita di vedergli preferito il più neutro poeta, e siccome è comunque al femminile, va tutto bene. La causa è comprensibile, in passato pittrice, o poetessa, sono state troppe volte sinonimo di cattiva qualità dell’opera, e in quanto tale, usato in forma spregiativa.
Ma sarebbe segno di autentico riscatto, usare il buon uso della lingua, senza temere che questa ci colpisca in forma spregiativa. Altri sono i problemi, e la discriminazione, da prendere di petto, come, per esempio, la parità salariate, tra presidenti e presidentesse, maestre e maestri, ministri e ministre, deputato e deputate…
E di seguito il ridicolo del “diversamente abile”, nero al posto di negro (che in spagnolo significa semplicemente nero) e se il disprezzo passare solo da una convenzione linguistica da cambiare, saremmo felicissimi di farlo, o non farlo, perché la sostanza del rispetto per chi rispettato no lo era, e ancora non lo è, ci porterebbe a non ripararci dietro inezie come quelle appena citate. Mi pare che in modo sostanziale, si stia tornando al razzismo, al conformismo, a cambiamenti di regole e leggi che sono state possibili per il coraggio di pochi, per il bene di tutti. Crocifisso o non crocifisso nei posti pubblici? mi pare un problema fittizio, bello sarebbe che ci fosse il reciproco rispetto, e invoco perfino al segretezza per quel credo, o non credo, che è patrimonio segreto di ciascuno di noi, cittadini del mondo, se sarà possibile.