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Sessantotto

Sessantotto

Nicola Chiaromonte
La rivolta conformista
Scritti sui giovani e il ’68
A cura di Cesare Panizza
Una città – Fondazione Alfred Lewin, Forlì 2009
Pagine 167

A trent’anni dal Sessantotto pubblicai un libro che ho poi ripreso nel 2012, aggiungendo un capitolo che è in parte una palinodia. Il titolo, Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia, è piuttosto chiaro. Qualche tempo fa l’amico Franco Melandri mi ha segnalato un volume di Nicola Chiaromonte, che sul Sessantotto aveva formulato critiche e osservazioni non lontane dalle mie. Anche in questo caso il titolo, La rivolta conformista, è eloquente.
Chiaromonte ebbe infatti la capacità di vedere molte delle ragioni profonde e delle conseguenze di lungo periodo della rivolta giovanile degli anni Sessanta. Nonostante alcuni tratti conservatori e il rimanere troppo accosto ai fatti, i suoi articoli pubblicati su Tempo presente e sulla Stampa colgono spesso i significati antropologici di quanto accadeva. L’autore ha ben chiaro che la rivolta è una questione che riguarda gli adulti prima e più che i giovani, poiché «le giovani generazioni -quelle dei nati dopo il 1940- si sono trovate a vivere in una società che non impone né merita rispetto, la cui autorità è nulla, di puro peso, e quindi autorizza tutte le sgregolatezze e tutte le ribellioni, anche quelle esteriori e di maschera» (p. 63). Adulti la cui cattiva coscienza conduce al più grave dei comportamenti verso i giovani: l’adulazione, la lusinga, lo «spettacolo inverecondo di professori cinquantenni che sono corsi appresso ai giovani tumultuanti nella certezza che essi marciavano nel senso della Storia e dunque bisognava stare con loro» (Ibidem). Dare ragione ai giovani soltanto perché sono giovani significa abdicare a quell’attrito generazionale senza il quale una società non può riconoscere e vivere le identità e le differenze, cadendo così nell’indifferenziato girare a vuoto il cui risultato è la stasi, la conservazione dei privilegi, la conferma delle ingiustizie che senza il movimento e il conflitto non possono essere rimosse.
Un esempio fondamentale e assai chiaro è l’istruzione. A uno dei tanti documenti Contro l’Università (uscito su Quaderni piacentini, n.33), alla rigidità ermeneutica che lo pervade, Chiaromonte risponde facilmente e giustamente che «i socialmente privilegiati, poi (contrariamente a una strana analisi fatta dal Comitato d’agitazione dell’università di Torino e citata da Viale) di solito non credono né nella scienza né nella cultura, e hanno un bisogno molto relativo di studiare seriamente, dato che appunto sanno di avere comunque un posto che li attende» (69). Attaccare la scuola e l’università ha avuto l’effetto -non si tratta infatti ormai di una previsione bensì di un rendiconto- di indebolire una delle poche strutture capaci in Italia, pur con tutti i suoi limiti, di rimescolare le appartenenze di ceto e di classe.
Al pari di Debord e di Pasolini, Chiaromonte intuisce che uno degli effetti più solidi della rivolta è il costituirsi del Teen market, del «fenomeno, così nuovo e così significativo» che attribuisce centralità economica alla ‘clientela dei giovani per il mercato dei prodotti industriali (dischi, indumenti più o meno bizzarri, macchine e macchinette varie, film)’», fenomeno che meglio di altri «indica abbastanza bene che, per cominciare, questi giovani ribelli sono le vittime inermi dell’organizzazione economica attuale e dei suoi mezzi di persuasione più o meno occulta» (51). Anche da qui nasce l’ossimoro che dà il titolo al libro:

«Così stando le cose, non c’è da meravigliarsi se la rivolta dei giovani assume la forma, apparentemente paradossale, della rivolta conformista. Infatti, al disordine imperante, essa sembra contrapporre da una parte delle forme estreme d’incoerenza e d’incongruenza nella sensibilità, nei gusti estetici e nei consumi ma dall’altra un rispetto molto realistico dell’efficacia, del successo, del mondo che, come dice Moravia, “è quello che è”, e alla fine anche della morale convenzionale, giacché, al termine di ogni sgregolatezza, che cosa si trova se non le necessità quotidiane e le regole usuali?» (51)

La ribellione narcisistica maschera l’avvento di nuove e pervasive forme del dominio. La rivolta contro gli aspetti di costume conferma il permanere di quelli strutturali, economici e politici. Il ricatto dell’assoluto ricade nella piena accettazione del relativo: «Ricatto che in buona logica si riduce all’assurda proposizione che quando non c’è tutto non c’è niente e se non si ha tutto non si ha nulla» (71).
Poiché tutto questo è il classico terreno dell’analisi anche teorica, Chiaromonte è molto duro nei confronti di quegli intellettuali -e furono moltissimi- i quali pur consapevoli dei significati di ciò che si prefigurava cavalcarono l’onda che appariva vincente, ne trassero indubbiamente dei vantaggi e furono poi però subito pronti -possiamo aggiungere ora- a mutare segno e a porsi al servizio di padroni ben più remuneratori: i partiti tradizionali, la grande stampa, la televisione commerciale.
Il culto del nuovo in quanto nuovo -indipendentemente dai suoi contenuti- è uno dei tratti più significativi dell’epoca, la critica del quale è in queste pagine esplicita e articolata: «Il passato è parte del nostro presente come le cellule del nostro corpo, come la lingua che parliamo, che nessuno ha creato, che ci viene dal fondo dei tempi, e alla quale tuttavia ognuno di noi apporta ogni momento qualche novità» (157). Un passato anche remoto che può ritornare in forme inattese e mescolarsi a significati del tutto nuovi. È in questa esatta chiave che Chiaromonte interpreta i grandi raduni del 1969 -Woodstock e l’isola di Wight-, osservandone la radice anche dionisiaca così come il loro somigliare alla spiagge di Rimini e di Riccione occupate da milioni di vacanzieri.
Ma nei fenomeni contemporanei la misura greca -vale a dire quella necessità intrinseca agli eventi la cui consapevolezza sta al fondo delle analisi di Chiaromonte- è smarrita a favore di un volontarismo che crede e  pretende di creare da sé e dal nulla gli eventi; una dismisura ben espressa dalla formula che recita «Le plus grand bonheur du plus grand nombre», la quale «non poteva non significare in pratica la massima servitù del maggior numero. E questo di necessità. […] La società prende il posto di Dio, come Rousseau aveva del resto visto con tutta chiarezza. E il contratto sociale significa che ognuno diventa schiavo di tutti e tutti di ognuno» (121). Il riferimento a Rousseau è indice di una comprensione davvero radicale del Sessantotto.
È anche da qui che discende l’acuta descrizione della dimensione spettacolare della rivolta attuata da una generazione che ha cercato di sottrarsi al peso delle premesse e delle conseguenze, per invece «ammirare e seguire chi agisce in modo spettacolare, non chi ragiona; hanno imparato che il mondo è quello che è e bisogna prenderlo per quello che è, non sognarne un altro che non esiste» (58). Di tale accettazione dell’esistente, apparentemente paradossale se attribuita al Sessantotto, è prova anche l’entusiasmo di molti verso la rivoluzione culturale cinese, un evento che in realtà «appare sempre più come un’astuta operazione diretta a scatenare il ribellismo dei giovani contro l’apparato del partito a maggior sostegno e gloria del dittatore Mao, con l’esercito come valida diga a impedire gli straripamenti» (60-61). Una definizione, questa, tra le più esatte di quella fase della Cina contemporanea.
Il libro affronta una delle questioni più controverse non soltanto della rivolta giovanile ma dell’intera storia umana: la violenza. Chiaromonte oscilla tra il disincanto di chi sa che non sono mai esistite società senza violenza e il netto rifiuto etico-politico delle sue pratiche contemporanee. In generale, la violenza viene definita come «il mezzo per instaurare o restaurare un potere dispotico, non per abbatterlo» (83) e questo varrebbe anche per il Sessantotto poiché «la violenza non fa che rafforzare il cosiddetto sistema, in quanto, creando un disordine che non mena a nulla, costringe a rimettere bene o male le cose in ordine: non è un’operazione di polizia, è una necessità organica della vita collettiva» (146).
Anche a questo proposito l’analisi che Chiaromonte conduce della rivolta conformista si fonda su una ben precisa visione della storia della sinistra dai moti del 1848 al Novecento: «In ultima analisi, è il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di ‘nuova sinistra’. E, con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciata nel 1914, si chiude» (58-59).
Numerosi altri sono gli elementi di interesse che tuttora rivestono le pagine scritte in tempo reale da Chiaromonte: i riferimenti a Husserl contro il relativismo gnoseologico; le sensate obiezioni alle pretese evangeliche che impongono di amare i nemici; la posizione esplicitamente e inaccettabilmente sionista a proposito della Guerra dei sei giorni; il confronto con le tesi di Galbraith sulla società dei consumi, confronto nel quale viene ribadita la natura conformista della rivolta in quanto funzionale agli interessi economici del capitale in espansione: «La corsa ai consumi di cui tanto si parla non è una causa, ma un effetto, l’effetto di una concezione della vita secondo la quale scopo dell’uomo sulla terra è usare e godere della vita stessa ossia obbedire -con minore o maggiore discrezione- al proprio piacere ed arbitrio. Oggi come oggi, tale concezione mi sembra comune sia ai ‘consumisti’ che agli ‘anticonsumisti’, e non mi sembra quindi sufficiente a trarci fuori dalla società dei consumi» (154).
Così infatti è stato: «À l’acceptation béate de ce qui existe peut aussi se joindre comme une même chose la révolte purement spectaculaire: ceci traduit ce simple fait que l’insatisfaction elle-même est devenue une marchandise dès que l’abondance économique s’est trouvée capable d’étendre sa production jusqu’au traitement d’une telle matière première» (‘Alla beata accettazione dell’esistente può anche/certo coniugarsi come una stessa cosa la rivolta puramente spettacolare: questo traduce il semplice fatto che l’insoddisfazione stessa è diventata una merce appena l’abbondanza economica è stata capace di estendere la sua produzione sino al trattamento di una tale materia prima’; Guy Debord, La Société du spectacle [1967], Gallimard 1992, af. 59, p. 55).

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