Qualche giorno fa ho svolto gli esami di una delle materie che insegno. Riepilogo qui i risultati.
Studenti esaminati: 21
Non approvato (è il modo burocratico di definire una bocciatura): 10
Voto 18: 5
Voto 20: 1
Voto 22: 2
Voto 23: 1
Voto 24: 1
Voto 26: 1
Come si vede, una catastrofe didattica. Non è la prima volta, anche se devo aggiungere che in altre mie discipline i risultati sono migliori. E tuttavia l’esito avrebbe potuto essere anche peggiore se non fossi stato un po’ accondiscendente e mi fossi attenuto con rigore al livello scientifico che un esame universitario sempre richiede.
Le spiegazioni di una simile situazione possono essere numerose: il docente è una carogna (tendo per ovvie ragioni a escludere tale risposta); gli studenti tentano la fortuna (lo si fa più spesso di quanto si pensi e con esito anche positivo); i contenuti sono troppo difficili (ma siamo all’Università, vale a dire al livello più alto della formazione); le conoscenze di base sono scarse (credo che questa sia una delle spiegazioni più sensate, visto il livello medio di preparazione con il quale gli studenti escono dalle scuole, nonostante l’impegno totale e la serietà professionale di moltissimi insegnanti, impegno e serietà che ben conosco per la mia lunga esperienza nei licei); le persone hanno dei limiti naturali, come ha osservato in maniera assai franca Arthur Schopenhauer: «Il nostro valore intellettuale, come quello morale, non ci giunge quindi dall’esterno, ma sgorga dalla profondità del nostro proprio essere e nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, tomo I, trad. di G. Colli, Adelphi 1981, p. 647) (una tesi che rappresenta l’opposto dell’onnipotenza educativa sostenuta dai comportamentisti e più di quella mi sembra corrispondere alla realtà); viviamo in un contesto sociale che tende a illudere le persone, producendo così molti danni individuali e collettivi (grave è che su tali temi si pensi spesso al ‘trauma’ che un soggetto può subire per il fallimento delle proprie aspirazioni personali, senza porre attenzione al trauma sociale prodotto da competenze attestate ma non possedute: vi affidereste a un medico che ha ottenuto la laurea ‘per ragioni umanitarie’?); nel profondo si è convinti che scuola e università non servano a nulla e che quindi una laurea non la si debba negare a nessuno, neppure a chi -come mi è accaduto di sentire in questa sessione di esami- a una domanda sul periodo nel quale venne inventata la stampa a caratteri mobili ha risposto: «Nel 1965»; le strutture universitarie si adattano al principio punitivo imposto dalla Legge Gelmini (mantenuta con convinzione dall’attuale governo), la quale riduce i finanziamenti agli Atenei in relazione al numero di studenti che non riescono a completare l’iter formativo nei tempi previsti (un principio giuridico-contabile tanto insensato quanto micidiale).
Scuola e Università non sono soltanto luoghi di scienza ma anche efficaci strumenti di ascesa sociale. A condizione però che diplomi e lauree non perdano di valore e di senso. Gramsci lo sapeva bene:
Il ragazzo che si arrabatta coi barbara, baralipton si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. […] La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale.
(Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117).
Le difficoltà sono reali, invece. Studiare, apprendere, capire il mondo è qualcosa di splendido e come tutto ciò che vale richiede tenacia e fatica. Illudere dei ventenni che la frequenza di Corsi Zero o analoghi strumenti didattici possa sostituirsi alla loro intelligenza e al loro impegno, illuderli con il rendere tutto facile o persino regalando materie e voti, significa mancare loro di rispetto, significa ingannarli.
La ragione forse ultima e più profonda di questa e di altre catastrofi didattiche sta nel fatto che governi, media, pedagogisti sono attivamente impegnati -ciascuno per la sua parte- a favorire la costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile. Non lo accetterò mai.
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17 commenti
agbiuso
Il collega Fabio Minazzi ha avuto un percorso simile al mio: molti anni di insegnamento nei Licei prima di passare all’Università. Posso dunque confermare che la sua efficace sintesi della recente storia di scuole e università corrisponde esattamente a quanto è accaduto: burocratizzazione della vita quotidiana, promozioni generalizzate senza merito, incapacità da parte di non pochi studenti di scrivere in lingua italiana, imbarazzanti manifestazioni di ignoranza e, su tutto, un pervasivo e rivelatore linguaggio aziendalistico.
Credo che chiunque viva oggi l’università -come studente o come docente- non possa negare che la situazione (i fatti) è quella descritta da Minazzi, anche se poi ne dà una diversa interpretazione.
Per quanto mi riguarda sottoscrivo per intero il testo, che è stato pubblicato sul numero 10 – giugno 2021 del mensile Nuova Secondaria.
Un Manifesto per la difesa della scuola e l’università?
agbiuso
Francesco Coniglione ha pubblicato su Roars un articolo dal titolo La scuola che non boccia, e non forma, è una “buona scuola”?
Ringrazio il collega per la consueta chiarezza e per il coraggio civile.
Un corpo sociale irresponsabile e infantile è il risultato della politica scolastica e universitaria che viene imposta ormai da molti anni.
Uno degli effetti meno avvertiti è che non potendo più affrontare alcun rito di iniziazione a scuola, i ragazzi li cercano altrove, anche in modi e forme pericolosi.
Francesco ha fatto benissimo a citare Gramsci. Mi permetto di ricordare qui il brano più ampio in cui quella frase si trova:
“Il ragazzo che si arrabatta coi barbara, baralipton si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico.
Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. […]
La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare ‘facilitazioni’. Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale”
Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117
agbiuso
Il governo del Partito Democratico, presidente Gentiloni e ministra Fedeli, porta a compimento “il lungo processo di riforma neoliberale dell’istruzione superiore [e quindi poi dell’Università] basata sulla formazione alla precarietà e al lavoro gratuito e sulla riduzione del sapere a ‘pillole’, oggetto di una valutazione e certificazione da parte dei docenti trasformati in somministratori di test, come in una scuola guida”.
Profonda è l’amarezza per i miei studenti e per tutti gli studenti italiani, ridotti a carne da macello del profitto ultraliberista.
agbiuso
L’amico Pasquale D’Ascola mi ha fatto leggere una comunicazione da lui inviata agli studenti dei corsi che svolge al Conservatorio di Milano. Gli ho chiesto l’autorizzazione a renderla pubblica perché mi sembra significativa di alcuni elementi della ‘catastrofe didattica’ della quale rischiano di essere vittima anche antiche e prestigiose istituzioni.
In ogni caso, né io né Pasquale ci arrenderemo mai. A questo proposito, il Prof. D’Ascola mi ha ricordato alcuni versi di una canzone di Bruce Springsteen:
Like soldiers in the winter’s night with a vow to defend
No retreat, baby, no surrender.
Vivendo e combattendo così alla fine si vince, qualunque sia l’esito della battaglia.
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Cari studenti,
per il bene vi porto, diceva ai suoi compagni, un personaggio, un ufficiale italiano nel film la Rosa del deserto, di Monicelli. Poi moriva. Non sono lontano da questo traguardo ma non mi arrendo al moderno cioè all’infame, allo sfàkelos, imparate questo termine greco che sta per pus, gangrena, che avanza; e da sempre sento che è mio preciso dovere difendere il sapere dallo sfàkelos. Il sapere, si acquisisce con fatica. È un privilegio che un diritto sancisce. Ciò non giustifica le semplificazioni e i livellamenti al basso, il privilegio è tale e resta e non si aggiusta. Ricorderete il discorso di inizio d’anno sulla pappa pronta. Da domani comincia per alcuni di voi la fase conclusiva del loro lavoro di preparazione. Credo di avere fatto tutto quello che è in mio potere per permettervi di avere almeno un’idea di quanto occorre saper fare e saper sapere, in generale, non parlo del piccolo orticello della mia o delle vostre materie. Continueremo su questa strada ma ho deciso di cambiare un pochino la rotta intrapresa e, credo con vostra grande gioia, di passare ad esaminare alcune questioni specifiche del fare teatro lirico. Poiché nel mondo di fuori il melodramma è in mano ad assassini preferisco chiarirvi io alcune questioni alle quali si accedeva un tempo con il mestiere. Il mestiere nessuno lo conosce più né vuole saperne perché è più facile convincersi di essere creativi senza sapere che avere la pazienza di insegnarne il come. È l’ambizione di tutti, dai mezzi soprani (soprani a metà) ai pericolosi registi. Dunque
1. da Martedì 7 marzo avremo la fortuna di avere di nuovo tra noi un maestro d’eccezione, l’attore E.B., poco men che ultimo tra coloro che conoscono il teatro all’italiana. Mancare alle sue lezioni è un insulto che rivolgereste a voi stessi da voi stessi.
2. da domani invece vi annuncio che voglio vedere solo carta e matita a lezione. Fotocopie dunque degli spartiti per non dire gli originali. Cellulari e ipad usateli come vi piace per mandarvi messaggi d’amore. Purtroppo siete giovani e vi capita questo sconcerto della vita personale. Se a qualcuno non va questa intransigente decisione, il qualcuno è libero di andarsene dove creda di imparare di più e con il suo buon comodo. Da subito mi dichiaro pronto a firmare cambi di classe.
Vi auguro affettuosamente di invecchiare presto e bene e di non adattarvi mai al coro del sentire comune e del pensare comune. Vostro D’Ascola
agbiuso
Qualche giorno fa ho sottoscritto una Lettera Contro il declino dell’italiano a scuola, che è stata firmata da più di seicento docenti universitari.
agbiuso
I contributi più dannosi alla catastrofe didattica provengono spesso da dei “riformatori approdati all’università giovanissimi e mai trovatisi nella necessità di correggere un compito, gestire uno scrutinio o colloquiare con un genitore, s’impancano ora, al rintocco dei settant’anni, a grandi esperti di una scuola di cui nulla sanno, e di cui pure vogliono fare un deserto chiamandolo modernità”.
Tre declinazioni possono bastare, di Walter Lapini, Roars, 25 giugno 2016
Caterina
Quanto è difficile!
E’ difficile per noi genitori ammettere che i propri figli possano avere “limiti naturali”.
Quando frequentavo il liceo, ti confesso che non mi piacevano né lo studio, né gli insegnanti. Non mi piaceva la loro “compagnia”, in tutti i sensi, come “accompagnatori” del nostro percorso, come “modelli” di adulto. Non mi ricordo una sola loro lezione. Mi ricordo, invece, alcune interrogazioni o alcune prove. A volte si avvertiva un certo gusto per la paura suscitata, per il potere esercitato… Non è una bella cosa: un’esperienza vissuta o subita come ricerca della dimostrazione di ciò che non sapevi, più che come impegno a farti sapere.
E potrei raccontarti episodi su loro comportamenti ridicoli, immaturi o, addirittura, diseducativi.
Fino all’ultimo anno. Allora ho scoperto, ho provato, ascoltando le tue lezioni, qualcosa di nuovo, ti assicuro.Purtroppo sei arrivato tardi e non insegnavi tutte le materie…
Ho voluto la scuola pubblica, vicino a casa, per i miei figli. Per scelta ideologica, direi, pur potendo farne altre… Mi circondano amici e parenti che hanno fatto una scelta diversa, per offrire ai propri figli molte più opportunità. Ed io sono sicura che le avranno. Spesso a prescindere dalla “preparazione”. Per il curriculum servono scuole di prestigio, voti, sì, a prescindere… così mi risulta da quello che vedo nel mondo del lavoro… Se non altro perché è impossibile usare un unico metro da tutti, su tutti, dappertutto. E’, semplicemente, non umano.
Rivivo la mia stessa esperienza attraverso i miei figli. Anzi, peggiore.
All’Università ho finalmente capito che moltissimo dipendeva da me, lì quasi del tutto solo da me: questo mi è piaciuto. Ma i miei studi, in Giurisprudenza, obiettivamente non esigevano ottime basi culturali…
E’ verissimo quello che scrivi: lo studio è una fatica enorme, fisica e, direi soprattutto, psicologica. È ansiogeno, deprime ed esalta.
Ed è verissimo quello che so che tu pensi: la cultura, il sapere è una ricchezza infinita che da sola compensa qualsiasi fatica.
Ma… certo che la maggior parte delle persone ha limiti naturali: da ragazzi, in realtà da esseri umani, si aspira naturalmente alla gioia.
Se i ragazzi avessero spontaneamente un’inclinazione alla fatica ed alla sofferenza, senza ancora essere consapevoli, avere la maturità di apprezzare le pure gioie della conoscenza o se l’avessero naturalmente quell’inclinazione, pur senza essere “accompagnati” da qualcuno che sia in grado di farle subodorare quelle gioie, non dovremmo stupirci perché saremmo di fronte all’eccezionale?
Questo eccezionale oggi lo sarebbe più che mai, perché è innato nell’uomo anche il desiderio. Il primo desiderio è quello, non di sopravvivere, ma di vivere. Oggi, più che in altri tempi, non c’è spazio sociale e misericordia per la sopravvivenza. Uccide lentamente.
Nella vita, dal sacrificio ci si aspetta, naturalmente, istintivamente, un riscatto, un compenso. Anche se fosse vero, se potessimo oggi dire ai nostri figli che, per ogni loro sacrificio, saranno sicuramente compensati, quanta fiducia riporranno nelle nostre parole?
Ma dobbiamo tutti, allora, essere eccezionali? Senza speranza e senza fiducia, sacrificarsi sempre, comunque, almeno per sopravvivere?
E, soprattutto, siamo sicuri che l’eccezionale sia sempre “naturale”? e non sia, invece, spesso, non sempre, solo un grande privilegio, per un ambiente favorevole… all’eccezione?
E’ anche questo il mito, per me, il falso mito, della meritocrazia.
agbiuso
Cara Caterina, ti ringrazio per questa lettera/analisi, molto profonda da ogni punto di vista: pedagogico, sociale, culturale. Ti ringrazio anche e naturalmente per le parole così belle che mi rivolgi e che mi sostengono nel cercare di dare ai miei studenti tutto ciò che posso.
Mi ricordo bene dei colleghi ai quali fai riferimento e quindi comprendo quanto mi dici. Ho conosciuto centinaia di insegnanti e come in tutti i gruppi sociali e professionali vi si trovano persone eccellenti e altre miserabili. La differenza rispetto ad altre categorie sta soprattutto nel fatto che la nostra funzione è delicata e irreversibile, quanto e più di quella dei medici. Ecco perché un cattivo docente può fare molti danni e un buon docente può invece contribuire alla crescita dei singoli e della collettività.
Apprezzo e condivido la scelta tua e di tuo marito della scuola pubblica per i vostri figli. Soprattutto perché una volta fuori dalla scuola i ragazzi si trovano a doversi confrontare con una pluralità e difficoltà che molte scuole private tendono a nascondere, secondo me con grave danno.
Non enfatizzerei così tanto la sofferenza -esperienza verso la quale non nutro alcuna inclinazione!- e parlerei piuttosto del’inevitabile attrito dal quale la vita stessa è costituita. Un attrito spesso doloroso ma senza il quale non potremmo camminare.
Sulla meritocrazia come struttura ideologica sono del tutto d’accordo con te. E mi sto battendo -insieme ad altri colleghi- per condurne una critica argomentata e motivata. Se vuoi, puoi trovarne traccia qui:
Valutare e punire.
Salvatore Fricano
Grande analisi, Alberto. Semplicemente concordo su tutto. Lo studio è veramente fatica, ma è anche una delle attività più belle che gli esseri umani si sono inventati. Purtroppo qualche giovane, in parte incolpevole in quanto inserito in un contesto ‘facilitante’, non vuole (non può? come sottolinea Schopenhauer, in modo sornione) assaporare i frutti della consapevolezza che derivano – anche – dagli approfondimenti e dalla precisione.
La scuola secondaria ha sicuramente le sue colpe.
Non so quanto pertinente alla tua analisi, ma mi piace ricordare che Hegel aveva ammonito, da qualche parte nella Fenomenologia dello Spirito, che la filosofia deve assumersi la ‘fatica del concetto’!
agbiuso
Grazie, Salvatore. La condivisione da parte di un collega come te, preparato, appassionato e capace di confrontarsi ogni giorno con i suoi allievi, è per me un importante sostegno.
Il tuo riferimento a Hegel è del tutto pertinente. A esso si possono accostare le parole conclusive dell’Ethica di Spinoza, il quale di fronte alle difficoltà del lavoro filosofico afferma che “omnia præclara tam difficilia quam rara sunt”, tutte le cose davvero importanti sono rare e difficili da raggiungere.
Pasquale D'Ascola
La ragione forse ultima e più profonda di questa e di altre catastrofi didattiche sta nel fatto che governi, media, pedagogisti sono attivamente impegnati -ciascuno per la sua parte- a favorire la costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile. Non lo accetterò mai.
Giungi a fagiolo, come dicevano i Latini, Alberto caro,
Reduce è il caso di dirlo da esami anch’io. Allora che dire di più, mi domando e non rispondo. Lascio per intero alla lettura di questo commento a un libro che si costituisce quale centuria perduta di Nostradamus.
Rovine culturali: l’Italia del sottoproletariato cognitivo
by Francesco Coniglione – © http://www.roars.it/ 2016-06-20
Un libro profetico, quello di oltre trent’anni fa di Marcello d’Orta, Io speriamo che me la cavo. Come tutti i grandi libri esso non costituiva solo la diagnosi, la presa d’atto di una catastrofe avvenuta, ma indicava una strada, il futuro sviluppo cui inevitabilmente si sarebbe andato incontro seguendo l’andazzo delle politiche educative sinora attuate. Detto fatto: l’ignoranza che lì era il frutto del proletariato economico e del sottosviluppo civile, il carattere di settori marginali della società, che non riuscivano a liberarsi attraverso l’acculturazione dalla propria condizione di minorità ma che avrebbero voluto farlo se ne avessero avuto le possibilità, è ora diventata una condizione diffusa, che si è trasmessa a tutti i gangli della società, alti a bassi, medioborghesi e proletari, sino a raggiungere le “cime abissali” della politica. Ma ora si è affermata una nuova figura di indigenza cognitiva, quella propria dello “ignorante ipermoderno”, di chi antisocraticamente “non sa mai di non sapere”, non si acccorge neanche di essere ignorante e scambia il proprio digiuno culturale per la massima realizzazione del sapere. Tale nuova specie umana, che si diffonde sempre più, è analizzata, descritta ed accuratamente postillata in tutte le sue manifestazioni nel libro di Davide Miccione, Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (IPOC, Milano 2015). Non è facile riassumerlo, perché sono molti i motivi, gli esempi, gli argomenti che esso tratta, non fosse che per il metodo utilizzato, prevalentemente fenomenologico; cercheremo di darne una presentazione muovendoci sul sottile e pericoloso crinale tra esposizione e interpretazione, una sorta di personale riflessione dialogante col testo e da esso ispirata.
È facile indicare quali siano i caratteri del nuovo tipo di ignoranza avvistata dall’autore. Innanzi tutto l’abolizione del tempo, che porta il nuovo ignorante alla completa inconsapevolezza della storicità di se stesso e di ciò che vede, in un’assenza assoluta di profondità temporale in cui tutto si appiattisce su uno sfondo indeterminato, nebbioso, in cui figure ed eventi si agitano immersi nella nebbia di un passato che non si sa mai se remoto o vicino, se prima o dopo Cristo. Ciascuno ha nel suo carniere accademico molteplici di aneddoti ricavati dalla proprie esperienze universitarie, e l’autore ne riporta alcuni di gustosi, che qui vogliamo evitare di riprendere. È importante invece riflettere sulle conseguenze di questa abolizione del tempo; innanzi tutto lo scambiare la cultura per natura, il credere che ciò che oggi è, sia sempre così stato e di conseguenza il proiettare sull’ieri l’evidenza del presente, pensando che il passato ad immagine dell’oggi. Questa
inclinazione è particolarmente esiziale quando si viene a parlare di questioni politiche o religiose, per cui viene naturale all’incolto ipermoderno pensare che il cristianesimo di oggi (cioè quello successivo al Concilio Vaticano II) sia stato il cristianesimo di sempre; o che il fanatismo islamico di oggi, sia sempre esistito, perché l’Islam è “il male assoluto”, dotato di un’essenza immodificabile, immodificata, di per sé malvagia. Ma non è il rifiuto della storia (in qualunque disciplina, non solo in quanto tale) e del suo presunto nozionismo, a favore di materie più “attuali e utili”, una tendenza che si diffonde sempre più nella scuola di oggi? Ma l’ignorante ipermoderno rifiuta anche la conoscenza del generale, quella organizzata in norme e categorie di pensiero. Ogni approccio alla realtà deve essere mediato dal vissuto, riportato al concreto, a ciò che è più vicino al suo mondo vitale, e quindi pensato sotto la spinta dell’immediatezza, del sentimento provvisorio, dell’attrazione momentanea; e così il mancato accesso a una conoscenza più astratta – definita come inutile appunto perché “astratta” – lo porta alla ignoranza dei meccanismi che regolano il funzionamento della realtà, anche di quella più prossima ai suoi interessi. Tutto viene riportato al cozzo di sentimenti e pulsioni elementari: buoni contro cattivi, antipatici contro simpatici, ladri contro onesti. Lo schema del Far West costituisce in merito una esemplare elucidazione del modo in cui funziona il mondo.
E del resto, non vogliono le moderne tendenze pedagogiche e i suggerimenti ministeriali che la scuola sia più vicina agli “interessi” dei giovani, che siano eliminate le eccessive difficoltà, che l’insegnamento sia avvicinato quanto più possibile al gioco, all’intrattenimento e quindi eliminate materie astratte e inutili e soprattutto “difficili”, quali, ad es., il latino e il greco, che rendono il liceo classico “ostico”, quindi impopolare e pertanto in estinzione. Quando il metro di ciò che deve essere alla base della formazione del giovane viene sempre più avvicinato al criterio degli interessi immediati di quest’ultimo, allora tanto più ci si allontana dalla cultura, perché quest’ultima – giustamente annota l’autore – «come l’abbiamo finora conosciuta è il risultato di una lotta feroce contro le circostanze ma soprattutto contro tendenze implicite nello stesso uomo. Questa lotta ricomincia ogni giorno perché ogni giorno nascono uomini e, scusate l’ovvietà, nascono senza saper parlare, capire una lingua, far di conto, saper leggere, saper scrivere». Come ben sapeva un rivoluzionario come Gramsci, che ancora credeva nel valore della cultura come occasione di riscatto ed elevazione delle classi popolari, «lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza». E sapeva anche che sarebbe sbagliato voler facilitare le classi popolari mediante l’abbassamento della qualità dell’insegnamento: «occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato».
Il rifiuto dell’astrazione e del pensiero categorizzante porta l’ignorante ipermoderno a vedere il mondo come “fluido”, realizzando così la diagnosi di Bauman. Si vengono a perdere gli elementi discreti che lo costituiscono, che ne danno l’articolazione e permettono di scandirlo in momenti, fasi, successioni: «Tutto sembra farsi flusso indistinto. La specificazione, qualunque essa sia (date, nomi, autori, luoghi) appare ormai come pignoleria. Ciò non vale solo per lo studio, ma appare come una modalità di rapporto con il mondo». Il mondo viene così ridotto a una sorta di nebbia emotivo-sensoriale e tende sempre più a svanire come oggetto di conoscenza: al suo posto resta una confusa ed emozionale socializzazione, quale quella che ormai sembra essenziale alla pratica scolastica. Incute invece profonda paura o insofferenza proprio «la solitudine del processo di acquisizione della conoscenza, in quanto concentrazione e sospensione momentanea della socializzazione ossessiva e continua (twitter, controllo pagina facebook, sms spediti e ricevuti, squillo ricevuto e inviato per dire “Ti penso”, messaggio su Whatsapp ecc.)».
Ma una caratteristica su tutte è quella che rende questa specie di ignoranza diversa da quelle passate: la sua nobilitazione. Giacché il “non sapere di non sapere” si trasforma dialetticamente in esaltazione dell’ignoranza come superiore saggezza, come lontananza dalle astruserie dei “professoroni”, dalle incertezze dei “cacadubbi”, da quella “pallida cera del pensiero” che rende malsana la “tinta nativa della risoluzione”, per citare Shakespeare. Agire impone di non pensare, di non conoscere, di entrare in “presa diretta”, immediata, istintiva, intima col reale, di conoscerlo per pratica personale ed idiosincratica. Così Berlusconi – manager di successo – sarebbe stato in possesso di tutte le conoscenze idonee a fare dell’Italia una azienda di successo. Ed è stato proprio lui a liberare «l’ignoranza degli italiani da ogni cattiva coscienza, da ogni colpa, da ogni vergogna», come già scritto da Mario Perniola. Ormai l’ignorante non sente la propria condizione come una diminutio, non aspira alla conoscenza da cui la cattiva sorte lo ha separato (la povertà della famiglia, la sfortuna, le circostanze della vita o qualsiasi altro motivo), non vede nella scuola e nell’università il luogo del proprio riscatto sociale, civile, economico. E del resto ormai assistiamo ad un processo di dequalificazione delle agenzie formative nazionali pubbliche che è solo il sintomo di come i veri ricchi e coloro che vogliono darsi una qualificazione spendibile negli ambienti che contano «hanno mollato la vecchia e piccola borghesia al proprio destino e costruiscono per i loro figli strade scolastiche appartate, internazionali e, soprattutto, private». Le scuole del passato – quelle che si consideravano d’élite, quali i licei (classici e scientifici) – non assicurano più una comunanza di destini cognitivi a ricchi e poveri, ad alta borghesia e media borghesia, ma stanno sempre più diventando luoghi di alfabetizzazione minima di massa, di “comunanza sociale dell’ignoranza”. Perché la lotta di classe è stata vinta, a favore di chi deteneva e ancora detiene il potere, sicché anche l’università va incontro al proprio destino: «A tutti o quasi tutti una laurea, poi, per pochi, una cooptazione basata sul legame con chi è già dentro, per gli altri il nulla».
L’ignorante ipermoderno nelle sue modalità di interazione sociale e politica con l’ambiente che lo circonda, cioè in quanto elettore e cittadino, assume la funzione di un nuovo tipo di sottoproletariato, impossibile da redimere. Incapace di perimetrare il reale attraverso una sua conoscenza adeguata, questo nuovo sottoproletario cognitivo è ormai per le classi dirigenti massa di manovra, manipolabile con i mezzi di comunicazione maggiormente diffusi (ancora oggi il 75% della popolazione italiana si informa solo attraverso la televisione). Ma esso non è più collocabile solo alla periferia della società, tra i diseredati – come il sottoproletariato marxiano – ma piuttosto si incarna in molteplici epifanie sociali, perché sta ad indicare quella parte della società nella quale impera l’assoluto rifiuto di qualsiasi perfezionamento personale, la celebrazione della propria nativa e inestinguibile ignoranza, l’esaltazione del sé come puro consumatore di beni. Ormai questi lumpenproletari li troviamo ovunque: tra i marginali delle periferie, nella media borghesia, nelle classi professionali, tra i politici (e si potrebbero fare nomi celebri), tutti accomunati e ammaliati dagli stessi armamentari visibili: «rapporto faticoso con le norme di ogni tipo, titoli di studio non meglio specificati o raccattati nei sottoboschi mercenari dell’istruzione, passione per i segni visibili del lusso (suv, donne vistose sottobraccio eccetera), disinteresse a tutto ciò che non sia solo materiale (diritto, religione, letteratura, arte)».
Baricco ha in merito parlato di “nuovi barbari”, che sarebbero i portatori di una cultura incomprensibile agli aderenti a una diversa e più vecchia civiltà, analogamente a come i romani consideravano i barbari che demolivano la loro cultura; allo stesso modo, noi guarderemmo alle recenti mutazioni non cogliendo la diversità, la “nuova civilizzazione” di cui sono portatori coloro da noi definiti “barbari” e della quale non siamo in grado di valutare l’eventuale grandezza, limitandoci a sottolinearne la distruttività. Ma l’autore giustamente nota come quella di Baricco non sia altro che una bella metafora; non ci si può innamorare di essa, perché la distruzione barbarica fu una perdita reale e non solo un cambiamento di civiltà in positivo; lo testimonia il fatto che «appena in grado, l’Europa cristiana rifondò l’istruzione superiore, lo studio di greco e latino, diritto e medicina, la monetazione ecc.»; insomma cercò di riprendere, faticosamente e con errori, l’antico esempio, il filo di un cammino che si pensava interrotto: il Rinascimento. Ma c’è di più: gli antichi barbari, nel momento in cui distruggevano, spesso in modo praeterintenzionale, l’Impero, erano affascinati dalla sua grandezza, venivano soggiogati dalla sua cultura, cercavano di imitarne le istituzioni. Non ci riuscivano – è vero – ma erano lontani dal celebrare la propria ignoranza per contrapporla a quella della civiltà classica; semmai cercavano di armonizzarla, di adattarla, di riprendere quanto capivano ed erano in grado di recepire. Ma i nuovi barbari non hanno il senso di una cultura che scompare, non hanno alcuno sguardo di considerazione per essa, non sentono per essa alcuna ammirazione o soggezione: essa merita per loro semplicemente di scomparire in nome di nuove e più “utili” saperi, di più performanti visioni del mondo, di “competenze” – non più “conoscenze” – adatte alla società moderna, il cui futuro è solo l’alta tecnologia.
Il nuovo simbolo politico di questa fase, del nuovo sottoproletariato cognitivo, non è più Berlusconi, che ha avuto un sua funzione chiave nello sdogonamento dell’ignoranza ipermoderna, bensì Matteo Renzi. Con esso viene dichiarata «la fine della speranza che dalla sinistra, bolsa e pedagogica quanto si vuole, possa giungere uno stimolo al miglioramento delle menti. Renzi incarna tutto ciò che un sottoproletario cognitivo può ammirare e tutto ciò che lo conferma nel suo non voler migliorare. Rientra perfettamente in quel populismo che non sopporta concetti astratti, norme e realtà intermedie, oltre a spingere alla personalizzazione della politica, cioè quella che è in assoluto la dimensione più primitiva».
Si è voluto caratterizzare l’atteggiamento civile tipico del sottoproletario cognitivo come atteggiamento servile, di lontana ascendenza storica, prono alla volontà dei potenti, premuroso nel soddisfare i loro desideri, sempre pronto ad “accorrere in soccorso del vincitore”. Ma l’errore – a giudizio dell’autore – è in questo caso il voler trasformare una questione che è anzitutto cognitiva in una che è esclusivamente morale e civile, che porta solo ad una produzione verbale o scritta di carattere omilitico-edificante. In effetti alla sua base v’è una percezione della realtà, un giudizio su di essa: il capofamiglia che vende i voti dei suoi parenti per qualche euro non è affatto servile, ma ha solo dato qualcosa che per lui non ha valore (il voto) in cambio di ciò che vale (il denaro). Ha insomma fregato dei soldi a un fesso di passaggio. A concetti astratti – eguaglianza, solidarità, distribuzione della ricchezza, onestà ecc. – il popolano che vende i suoi voti oppone la concretezza dei suoi bisogni qui ed ora. Non è in grado di vedere al di là del suo limitato orizzonte: appunto vive da lumpenproletario affetto da ignoranza ipermoderna. È questa – secondo la definizione che ne ha dato Maurizio Viroli – la libertà del servo, cui si contrappone quella del cittadino. La prima è estremamente concreta, consistendo nel non essere intralciato o ostacolato nel perseguimento dei propri fini e soprattutto dei propri desideri: consiste nell’essere lasciato in pace adesso, nel soddisfare il proprio bisogno immediato. La libertà del cittadino «è invece astratta e potenziale non coincidendo con l’esercizio attuale della libertà ma con la assicurata possibilità di esercitarla ora e in futuro. Dunque essa è essenzialmente astratta e legata al regno della possibilità». Questa necessita di una certa potenza astraente, della capacità di immaginare futuri possibili, della capacità di pensare a doveri civici che vadano al di là dell’immediato, l’idea che sia possibile pianificare una società in cui complessivamente tutti stiano meglio, la capacità di sublimare l’interesse immediato e posticiparlo, di reprimere il desiderio e trasportarlo nel futuro, dove avrà una realizzazione più elevata e più gratificante. È il principio – lo diceva Freud – di ogni capacità di costruire una civiltà.
Certo, si potrebbe anche pensare che nel comportamento del cafone napoletano – diffidente verso i giacobini che volevano portare la rivoluzione, i diritti, la giustizia sociale: tutti concetti astratti di cui non sapeva che farsene (come viene illustrato in un romanzo di Enzo Striano) – vi sia depositata la secolare saggezza di un popolo che sa bene come al cambiare dei governanti per esso nulla è mai cambiato. E allora perché non scambiare un futuro progresso, impossibile e del tutto utopico, con un tangibile guadagno, presente e ben concreto? Questo comportamento, che facilmente attribuiremmo a proterva ignoranza, in una persona colta potrebbe rappresentare una disincantata saggezza del mondo, una diagnosi sulla inguaribilità o immutabilità di una società. È la sapienza propria di un Principe di Salina, del Gattopardo: una filosofia della storia per la quale le nuove classi dominanti finiscono per ristabilire il potere e i privilegi da loro prima combattuti, ma in condizioni nuove e con protagonisti rinnovati per anagrafe ma non per funzione. Di ciò ne abbiamo avuti abbondanti esempi. Perché allora non derubricare tale atteggiamento popolare da proterva ignoranza a istintiva e inarticolata sapienza sul modo in cui vanno le vicende umane?
Per sfuggire a questo tragico e fatale acquietarsi alla eternizzazione del presente è necessaria una maturazione del pensiero che si sottragga alle istintive inclinazioni provenienti dal disincanto storicamente consolidatosi e si apra nuovamente all’incantesimo e alla seduzione di un pensiero che concepisce il nuovo come possibile e attuabile. E proprio in ciò sta la forza della cultura e del pensiero ad essa connesso: appunto nella possibilità di rendere “visibili” concetti e possibilità che non si danno nell’immediato, ma che hanno una corposità vincolante per chi ha occhi esercitati a guardare e una mente in grado di afferrarli e capirli, ritenendoli quindi non impossibili, ma attendibili. E, di converso, l’interesse di tutte le classi dominanti che vogliono difendere il proprio privilegio, è quello di avvilire la cultura, di renderla difficile, inaccessibile ai loro sottomessi; ma non più con artificiali barriere sociali, bensì svilendola, dicendo che a nulla vale, che meglio fare il pizzaiolo che laurearsi, affermando che scuola e università garantiscono solo disoccupazione, facendo credere che la causa di tutto siano le “humanities”, perché è necessario evitare lo sviluppo del pensiero critico, alternativo, impedire la consapevolezza del passato e il senso della storicità. Occorrerebbe allora investire in educazione, cultura, idee, concetti, allo scopo di riaccendere la fiducia nell’astratto, nel possibile, nell’utopico (anche se minimo); bisognerebbe di nuovo dare alla gente la capacità di ‘illudersi’, di nutrire aspettative, di innamorarsi di ‘fantasmi’ che – nonostante la loro evanescenza epistemologica – possano tuttavia avere una grande forza pratica. In fin dei conti cosa sono gli intellettuali che credono in moralità, civismo, norme, ecc. se non degli ‘illusi’ (anche se in un nobile senso)? E in cosa consiste il progresso – se a questo termine vogliamo ancora attribuire un significato – se non immaginare nuove terre verso cui dirigersi, giacchè, come ha affermato Oscar Wilde, «Il progresso non è altro che l’avverarsi delle utopie».
agbiuso
Caro Pasquale, ti ringrazio per aver segnalato il libro di Miccione e la recensione di Coniglione, due valenti colleghi catanesi.
Mi fa piacere che anche Francesco abbia ricordato le tesi di Gramsci, le quali sono state evidentemente dimenticate non dai berlusconiani ma dai dirigenti e dagli intellettuali (?) del Partito Democratico, ormai totalmente americanizzato e -sul tema specifico- gelminizzato.
Pasquale D'Ascola
È così. P.
diego
mi hai fatto emergere un episodio della mia adolescenza, che ti voglio raccontare perchè forse è anche una spiegazione degli accadimenti; frequentavo la 5a ginnasio nel liceo della mia città, non ero uno studente pessimo ma neanche eccellente, così come il mio compagno di banco, insomma due mediocri; lui era figlio di un medico; un giorno eravamo in casa sua ad arrabattarci con una versione di greco, e ci stavamo pure lamentando che era troppo difficile; ad un certo punto il padre del mio amico stufo delle nostre lagne prese il rocci e cominciò a farci lui la versione; eravamo contenti ma lui era parecchio contrariato, e lamentava il fatto che probabilmente due somari come me e il suo figliolo saremmo stati promossi, e probabilmente avremmo anche finito il liceo; mi colpì il fatto che lui non era un professore di greco, ma semplicmeente un medico che aveva fatto il liceo classico, e le versioni le sapeva fare; correva l’anno 1970 o giù di lì, e in effetti il mio amico è poi diventato un medico, un bravo dermatologo, ma le versioni di greco ai figli non è minimamente in grado di farle; alla fine di questo noiosetto racconto la morale è: non si fanno più i licei come andrebbero fatti, e perfino alcuni insegnanti sono dei quasi somari, a causa di ciò
agbiuso
Quanto riferisci, caro Diego, è significativo del percorso verso l’ignoranza nel quale da decenni siamo incamminati. Ma rimango fiducioso che lo si possa invertire. Senza tale fiducia non potrei insegnare!
diego
guarda io penso, carissimo Alberto, che tu sia un uomo di grande qualità a presciendere la tua immensa cultura, qualità proprio come base nietzschianamente biologica, però in te un rischio c’è, ed è la poca propensione ai compromessi, al cosiddetto «male minore»; con questo intendo dire che nei confronti degli studenti alla fine, se non è possibile elevarne la qualità al livello accettabile, penso sia comunque opportuno apprezzare almeno la buona volontà, il «provarci» senza sotterfugi; io penso che insegnare almeno a pensare è già tanto, tantissimo
pasquale D'Ascola
Ah no, i compromessi van bene al pd, ai parroci, caro Bruschino, andavano bene al piccì prima e a tutto il merdaio italico. A noi no. Provarci non basta. Insegnare a pensare è un passo utile. Ma poi è la fatica e il sapere e la responsabilità a guidare. Bisogna riuscirci o mollare. Una volta varcata la porta di una facoltà si ha il dovere etico di sapere, dovere che era molto chiaro ai fabbri ferrai di un tempo e che tutta la marmaglia semi analfabeta che popola il paese ignora. Questo mi fa arrabbiare per bacco.