Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet
Palazzo Reale – Milano
Sino al 5 giugno 2016
Nei simboli si raggruma la facoltà che la nostra specie ha di vedere ciò che non appare immediatamente percepibile. Anche per questo il simbolo è di per sé un concetto. Tutto ciò che chiamiamo cultura ha una struttura simbolica. Perché dunque denominare Simbolismo una particolare temperie artistica? La motivazione principale sta nel fatto che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti artisti fecero propria la definizione del mondo data da Baudelaire, per il quale «la Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuse paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers» (Correspondances, vv. 1-4). Simboli che attingono la loro potenza dalla forze profonde, pulsanti, estreme della vita.
All’interno della formula unitaria Simbolismo convivono in realtà espressioni e posizioni diverse come la Secessione viennese, i Nabis parigini, il Divisionismo. Le opere dei numerosi artisti che si riconobbero sotto questa formula indicano in modo assai chiaro due verità, una di natura generale e un’altra riguardante la storia.
La prima verità è che un eccesso di razionalità non è diverso da altri eccessi e dunque è pronto a capovolgersi nel suo opposto. I successi del positivismo, la convinzione di poter tutto ricondurre e ridurre alle metodologie della scienze dure, generarono un mondo fatto di segni inquieti, di sogni angoscianti, di incubi esoterici.
È questo che esprimono le opere raccolte nella ricca e suggestiva mostra di Palazzo Reale.
Thanatos di Jacek Malczewski (1898) ha l’implacabile freddezza della pura ferocia. Al chiaro di luna di Albert von Keller (1894) consiste nello stridente contrasto tra il corpo sensuale di una donna e la sua posa crocifissa. Parsifal di Leo Putz (1900) è il sogno del guerriero che immagina splendide creature nude pronte ad accogliere il suo ritorno. Si potrebbe continuare a lungo nell’indicare opere nelle quali il sogno si fa reale e la realtà assume i contorni onirici delle profondità interiori. Almeno un altro quadro va comunque ricordato: L’isola dei morti di Arnold Böcklin (1880-1896); e va ricordato non soltanto per la sua struttura e il suo contenuto davvero emblematici del Simbolismo -colori forti e insieme spenti, paesaggio lugubre e geometrico, centralità del morire- ma anche e soprattutto perché si tratta di un dipinto che fu molto amato da personaggi che apparentemente sembrano assai lontani tra di loro come Lenin, Hitler, Strindberg, D’Annunzio, Freud. Tutti costoro, in un mondo o nell’altro, non credevano più nella Ragione, nella sua autorità sulle vicende umane individuali e collettive. La ricorrente presenza di figure come Orfeo e Medusa indica l’estrema volontà di fare dell’arte una barriera contro l’orrore. Ma per far questo l’arte stessa assume i caratteri della paura.
La seconda verità è che queste opere mostrano in modo lancinante come l’Europa fosse pronta al trionfo della morte che afferrò il continente tra il 1914 e il 1918. Si moltiplicano infatti i segni della violenza, della distruzione e del demoniaco, seppur trasportati su piani allegorici.
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.
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4 commenti
agbiuso
Sì, caro amico, la decadenza è una realtà molto complessa, è un lasciarsi andare alle potenze del vuoto che sempre tentano l’essere. Le tue parole penetrano questa dinamica, mettono in guardia, ne riconoscono la forza ma dicono anche che possiamo liberarcene. Grazie per come regali lucidità a questo spazio.
Pasquale D'Ascola
Ringrazio io te perché il tuo è un salotto di vivace complicità, raro, rarissimo,speciale. Molto prossimo all’unicità se già non l’ha raggiunta. Ciao Alberto. P.
Pasquale D'Ascola
Credo Alberto che sia istituirsi nel registro del simbolizzare, ciò che permette di uscire dalla vago dell’abbozzo, dal regno del possibile dove tutto è possibile e dunque quanto probabile non si sa. Nel dì della mio 64° compleanno, mi rallegro per essere riuscito nell’intento, nel Tempo, a mettere(mi) in parole per un verso e a tradurmi dal caos della mia nascita a un prodotto non ancora finito, in itinerante finissage, un significante a perdere. Non tutti ci riescono. Alcuni tendono a simboleggiare, volenti e pericolosi o incoscienti e smarriti. Altri ancora ad attingere come tu rilevi a un repertorio di simboli, noti per lo più e dunque divenuti metafore, ridondanze cioè, per costruire presenza su ciò e da ciò che il simbolo invece traduce, in senso etimologico, cioè un’assenza, un buco; un non detto, qualcosa sì certo, ma di non dicibile, se non tramite la strutturazione di un linguaggio. La sintassi dopotutto è tutto. Sono curioso di vedere codesta mostra perché quando il simbolo si fa simbolismo come molto bene lasci inferire, mi pare diventi appunto décadence. Da qui, mi pare, l’astio manifesto del nostro amato F.N. per Wagner, che la pronunzia milanese vañer lascia scoperto, prigioniero della ripetizione, fabbricante coatto di simboli, interdetto al beneficio della sublimazione. Con una lunga terapia, avesse conosciuto Freud, avrebbe perso un Io surrogato e sarebbe diventato un buon musicista. Sceverare l’ismo dal fatto d’arte è rivelarne le insidie narcisistiche. L’assenzio di Degas vanta, secondo me, un alto tasso simbolico, nella misura in cui dipinge, tuttora intendo dire, ciò che non c’è o che se c’è, la bottiglia verde, brilla nel buio ad indicare l’uscita di sicurezza. Note azzurre stando al conte Dossi. Amen carissimo e arrivederci a domani.
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Pasquale D'Ascola
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.