Teatro Elfo Puccini – Milano
Il vizio dell’arte
(The Habit of Art, 2009)
di Alan Bennet
Con: Ferdinando Bruni (Auden), Elio De Capitani (Britten), Umberto Petranca (Carpenter), Ida Marinelli (Kay), Alessandro Bruni Ocana (Tim), Vincenzo Zampa (George), Michele Radice (Neil), Matteo De Moiana (Tom)
Regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Sino al 31 gennaio 2016
Il poeta Wystan Hugh Auden e il compositore Edward Benjamin Britten si incontrano a Oxford nel 1972, dopo molti anni di distante amicizia. Le loro passioni, il disincanto, l’omosessualità, le forme, la socialità, convergono nel vizio dell’arte che è la loro esistenza.
Questo incontro è messo in scena nel 2009 da una compagnia che lo interpreta, lo prova, lo commenta, ci litiga sopra, lo modifica insieme all’autore del testo.
Noi vediamo questa compagnia all’opera, nel doppio tempo dell’azione narrata e della sua messa in scena. Teatro nel teatro a livelli altissimi di sincronia, di ambizione drammaturgica, di penetrazione nel tessuto creativo di due dei massimi artisti inglesi del Novecento. L’ironia british di Alan Bennet diventa sorriso, riso, battute folgoranti, continuo divertimento. Uno spettacolo che restituisce per intero il piacere e la fatica del teatro, del farlo e del vederlo. Auden ribadisce lungo tutta la commedia che per un artista -come per un filosofo o per uno scienziato- ciò che conta è l’opera e non la biografia. Assunto del tutto condivisibile e che in questo spettacolo trova un’espressione felicemente paradossale. È delle vite che infatti si parla -della loro forza e delle loro miserie- ma lo si fa attraverso l’opera, in un’opera, per l’opera. Per ciò che davvero rimane degli umani che hanno la fortuna di scrivere e creare. È anche questo il senso della poesia che Auden dedicò alla morte del poeta William Butler Yeats, della quale riporto qui i versi conclusivi: «Prendi un ospite onorato, / terra: William Yeats è stato. […] Il Tempo che è insofferente / con l’ardito e l’innocente, / e insensibile in un giorno / ad un corpo tutto adorno, / il linguaggio onora, e approva / chi gli dona vita nuova; / vanità e viltà perdona, / finalmente le incorona. […] E, poeta, tu, sprofonda / nella tenebra più fonda, / la tua voce sempre voglia / liberarci d’ogni doglia; / messi i versi tuoi a coltura, / rendi vigna la sventura, / la miseria umana in canto / volgi estatico nel pianto; / nei deserti d’ogni cuore / apri il fonte guaritore, / chi, dei giorni schiavo, gode / libertà muovi alla lode» (Trad. di Nicola Gardini).
10 commenti
Pasquale
Alberto, di quelle strutture, lo sai, sono convinto. Spiego così la mia passione per la mitologia fin dalla primissima infanzia. Noi camminiamo lungo fiumi dalla cui corrente ci troviamo rapiti e non sappiamo come. Nuotare non lottare.
Sai infine che non faccio complimenti. Abbracci in stile libero, da nuotatori. P.
agbiuso
Pasquale, posso dirti soltanto grazie per delle parole così dense di affetto e di stima. “Scrivere come una Pizia” è qualcosa che non mi sarei mai aspettato mi venisse detto. Così come essere “un artista del pensare”.
Davvero dalle nostre menti emerge qualcosa che non ci appartiene, archetipi e strutture che ci sovrastano nei millenni.
Pasquale
sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero»
Da imparare a memoria. DImenticai. P.
Pasquale
Perché questo tipo di amore non è un rapporto personale o una epistasi genica, ma più probabilmente un’eredità demonica, insieme dono e maledizione degli antenati invisibili»
Ecco sì ci siamo intesi; e ciò provoca il benessere che lo scavo dona quando fa uscire alla luce insieme. E quindi uscimmo a rivedere le stelle Da piangere. Ci sono dei momenti in cui scrivi come una Pizia. Ed è il brivido totale del disvelamento. Lo vedi che sei un artista del pensare.
P.
agbiuso
Mi sembra, caro Pasquale, che abbiamo ben chiarito e che concordiamo in gran parte.
Il riferimento a Hillman mi sembra molto significativo dato il suo costante riferimento a un nucleo originario e potentissimo che nessun ostacolo né scelta né condizionamento esterno possono intaccare: «Noi nasciamo con un carattere; che è dato; che è un dono» (Il codice dell’anima. Carattre, vocazione, destino, Adelphi, 2006, p. 22), questo daimon non ci abbandona mai, esso consiste non in ciò che facciamo ma nel modo con cui agiamo in ogni circostanza, incontro, situazione, decisione, angoscia e gaudio della nostra esistenza.
Tale, per Hillman, il significato dell’affermazione di Eraclito per la quale «ethos anthropoi daimon». E dunque l’eudaimonia, il ben-essere, la felicità, consiste nel dare al nostro demone ciò che gli spetta, nel riconoscere la sua natura, nel non ribellarsi inutilmente alla sua potenza. La quale si esprime in ogni attimo della vita ma lo fa con una forza immensa nell’istante dell’innamoramento: «Se mai volessimo la prova lampante dell’esistenza del daimon che chiama, basta che ci innamoriamo una volta. Le fonti razionali dell’ereditarietà e dell’ambiente non sono abbastanza ricche da far scaturire il fiume in piena dello spasimo romantico. Lì ci sei tutto intero, in nessun’altra occasione ti senti altrettanto sopraffatto dall’importanza del tuo essere e dal destino; in nessun’altra occasione ogni tuo gesto si rivela più chiaramente ispirato da un demone […] Perché questo tipo di amore non è un rapporto personale o una epistasi genica, ma più probabilmente un’eredità demonica, insieme dono e maledizione degli antenati invisibili» (pp. 186-188).
Che è quanto dimostra la Recherche: «Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero». (Proust, Sodoma e Gomorra, Einaudi, 1978 p. 561).
Il libro su Nietzsche lo avrai, magari durante una bella cena vegetariana 🙂
Pasquale
La vita di Nietzsche sono i suoi pensieri, i suoi libri
Ah ah il mitico Pasquale però non dice per niente che l’opera va valutata illuminandola con il faro biografico. La citazione di Jaspers casca a fagiuolo, oh Alberte. È vero dunque che non tutti i disgraziati sono Leopardi. Potrebbero. Io dico però, non sono il solo, si veda La forza del carattere, di Hillman, che esiste invece una relazione stretta tra la biografia, il carattere della biografia e l’opera intesa come opera d’arte. Nel catalogo d’arte metto per comodità tutte le opere dell’ingegno, quindi anche con tanta ragione quelle di Alberto. Peraltro ricordo che Wilde affermò, e le affermazioni contano qualcosa, specie se sono apparenti boutades, affermò: “nei miei libri ho impiegato il mio talento, il mio genio l’ho speso nella mia vita”. Ripeto che non vedo contraddizione, tra quelle che, Alberto, tu chiami piccinerie o miserie del grande e la grandezza della sua opera. È una sorta di contrappasso forse. Ma non dico che occorre essere storpi, orbi sordi, taci e maci per fare gli artisti o i grand’uomini in genere. Nego anzi la corrispondenza ipso facto tra genio e sregolatezza. Queste sono idealismi, romanticherie che mi sono visto appioppare persino io, che sono una quieta e ribelle home maid: la fa il pane, la lava i pavimenti, la si stira i calzoni, la si attacca i bottoni anche con i bottegai. Ma non vedo la contradizione tra questo e ciò che scrivo, ammesso che sia opera d’arte, fatto che riconosco senza incertezze o pruderie di modestia. Ripeto ancora che la biografia io la valuto in quanto rivelatrice di un composizione caratteriale e dunque di una volontà. Cito sempre l’americano così come l’ho capito io. Da questo a giudicare l’opera attraverso queste biografia mi pare che ne corra. Direi per concludere che la biografia è un’opera d’arte in sé. E quanto ho voluto intendere scrivendo quella di mio padre che d’arte non ha mai prodotto niente.
La vita di Nietzsche sono (invece) i suoi pensieri, i suoi libri .
Il libro su Nietzsche: mi manca.
Quanto al pizzaiuolo Diego, ma va là, io e Alberto siamo vegetariani. Non potremmo mai.
Un abbraccio allegro a tutti.
agbiuso
Caro Diego, ciò che scrivi a proposito del diverso punto di vista dell’autore e del lettore (o ascoltatore o altro) mi sembra assolutamente corretto e condivisibile. Molto efficace anche la metafora del pizzaiolo :-). Grazie!
diego
Secondo me occorre distinguere da che punto di vista si affronta la questione. Se la consideriamo dal punto di vista soggettivo, dal vissuto dell’artista, mettendosi «nei suoi panni», è evidente che la sua vita è fortemente presa dalla sua opera. Prendiamo il filosofo d’alto livello padrone di casa di queste pagine. Per A.G.B. pensare, riflettere, comunicare il proprio pensiero e farne opera duratura, è il senso stesso del suo stare al mondo, la scelta fondamentale per spendere la propria vita. Quindi è giusta l’esortazione del mitico Pasquale ai propri (fortunati) discenti d’esser tutt’uno col proprio essere artisti, creatori, forgiatori d’opere. Ma se esaminiamo le opere dal punto di vista del lettore, del fruitore, nonostante la simpatia che promana l’etneo sapiente amico, le opere si apprezzano, si gustano per quel che sono; quando mangi una pizza buona non è che vorresti masticare un dito del pizzaiolo, sarebbe assurdo;
agbiuso
Caro Pasquale, provo a chiarire che cosa intendo a proposito del rapporto tra opere e biografia riportando quanto ho scritto alle pagine 24-26 di Nomadismo e Benedizione (ometto le note e i corsivi).
Aggiungo qui che non pochi sono gli umani bruttini e che hanno difficoltà amorose ma questo non li rende dei Giacomo Leopardi.
Un abbraccio.
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L’opera e il pensiero di Nietzsche –uomo dalla straordinaria passionalità -vanno ben oltre i drammi, i paradossi, la miseria, a volte, della sua esistenza. Esse sono il frutto in primo luogo di una profonda ricerca teoretica. Solo come tali vanno giudicate e conosciute. Pertanto la tesi assai diffusa, e ribadita anche da Janz, della «dipendenza dal fattore biografico» dell’opera nietzscheana1, è accettabile solo in quanto limitata alla tensione –indubbiamente presente in Nietzsche- verso la unitarietà di vita e conoscenza, pensiero ed esistenza.
Tale unità ha il proprio fondamento nel corpo, nella sua percezione, nella sensibilità, nello scaturire da esso dei pensieri, della volontà, della vita. Un corpo che è volto ma anche maschera e la profonda connessione fra questi due elementi è parte fondamentale dell’enigma che Nietzsche, la sua filosofia come il suo vivere, è stato. Una conferma proviene dal modo in cui nel cammino di Nietzsche avvenne la svolta a metà degli anni ‘70: «Nietzsche volta le spalle a quanto di più prezioso possieda. Tra il 1875 e il 1880, quindi, Nietzsche abbandona allo stesso tempo l’insegnamento, la metafisica schopenhaueriana e la causa wagneriana: è nel contesto di questo triplice alleggerimento che egli affronta, a partire dal 1875, il tema dell’alleggerimento della vita»2.
Per il resto, ha ragione Jaspers quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa»3. E fu proprio Nietzsche ad affermare che «una cosa sono io, un’altra i miei scritti» e di non ritenere «confutato un uomo della nostra specie né dai suoi vizi, né dalle sue follie. Sappiamo che siamo difficili da conoscere, e che abbiamo tutte le ragioni di munirci di facciate»4.
Egli era anche consapevole di quanto spesso sarebbe stata strumentalizzata, contro la sua filosofia, la sua stessa vita: «Si giudica me, allo scopo di non aver nulla a che fare con la mia opera: di questa si spiega la genesi -e con ciò risulta sufficientemente confutata»5.
Il pensiero di Nietzsche è troppo vasto, articolato e complesso per essere ridotto al suo carattere e alla sua esperienza, anche se naturalmente non può del tutto prescindere da esse. Gli scritti e i pensieri del filosofo furono elaborati non solo in continuità con la sua indole personale ma anche in profondo contrasto con essa. Un carattere che fu in parte non risolto, spesso in equilibrio precario, quasi sempre eccessivo nelle sue manifestazioni.
Nietzsche si lamenta di continuo; nonostante la sua intenzione di celare le proprie sofferenze, egli non riesce a tacerne e quando parla della sua salute e dell’umore si rivelano i legami con un’atmosfera tardo romantica e decadente. Ma sono ugualmente rivelatori altri e diversi elementi che tornano costanti nelle lettere, nelle confidenze, negli appunti personali: una volontà di leggerezza, di allegria, di sorriso sulla vita e su se stesso; il bisogno struggente di amici; l’amore-odio verso la solitudine. In ogni caso, «qualsiasi pretesa di stabilire una sorta di nesso causale tra le vicende della vita di Nietzsche e il suo pensiero è destinata al fallimento. (…) La vita di Nietzsche sono i suoi pensieri, i suoi libri»6.
Le stucchevoli questioni relative alla malattia mentale di Nietzsche -e alla sua origine- hanno per troppo tempo sviato l’attenzione dal complesso significato teoretico della sua opera, mettendo al suo posto il mito-Nietzsche, o sono servite a esorcizzare quella che per molti è ancora una filosofia inattuale, troppo radicale, sempre pericolosa.
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Pasquale
O non ho capito io o, Alberto, non sono molto d’accordo su questa tesi di dicotomìa tra opera e biografia. Per quanto e di quanti la conosco e per quello che conosco di me, anche nel paradosso, non c’è scissione tra essere e fare. O sono guai. Anzi la biografia, il carattere che la determina e le opere che incidono il carattere a loro volta, mi pare confermino la mia convinzione. Io parlo del mondo artistico che conosco, ma non voglio essere accusato di conflitto di interessi. Se prendiamo un personaggio come Turing mi pare coincidente il suo fare della decifrazione la sua vita. Non potendo decifrarsi essotericamente, fece della decifrazione, dell’Altro, il suo fare. Ma il suo fare era (di) Turing. Ciò che nascondeva rivelava. Ciò che seminava sul suo percorso erano i suoi indizi; quasi una vita intera tramutata in atto mancato. Ma mancato finché si vuole un atto è atto. Pensiero dell’azione, intenzione dell’azione, azione, distingue il buddismo. Senza complicarsi troppo le cose, se ascolto la musica di Strauss e guardo Strauss dirigere o osservo la sua casa, o ascolto la sua vita, il suo modo di vivere, tutto ciò mi pare coincidere. Nessuna contraddizione. Shostakovitch non ha scritto una Sinfonia domestica. Non si contraddicono nemmeno la biografie di Freud, sia la romanzata che la ufficiale, con la sua opera. È vero che io sono decisamente psychoanalysis oriented ma, andando a Bruni e De Capitani che conosco un pochino da più di una quarantina d’anni, posso asserire che anche in loro, l’opera, le scelte, sono loro stessi. Questo, di far coincidere essere e fare per non affrontare una vita di schizofrenia, è poi quanto cerco di indurre i miei studenti ad ottenere da sé. Per il loro bene. Del resto anche bruciarsi prima del tempo, prima di esaurire il proprio combustibile, o sull’orlo o nel timore di questa morte apparente che è la fine della giovinezza, è anche questo un indizio della coincidenza tra chi sono e che cosa faccio. Vedi i casi, Mozart il solito a parte, di Michael Jackson e Freddy Mercury. Insomma io vedo la vita di un artista incisa nelle stelle della sua opera e viceversa. Teresa di Lisieux, a proposito di stelle, meno che bambinetta disse a suo padre, ottimo orologiaio: “Vedi babbo, vedi il mio nome scritto tra le stelle”. SI possono deridere queste persone, come la d’Avila. A me convincono invece queste vite, specie le infantili. Del resto il fratello minore di un mio amico qui di Lecco, medico palestinese, a 11 anni tornò a casa, avendo consegnato in bianco il foglio dei compiti di licenza elementare. Alla madre disperata che in quella gli gridava che cosa farai mai nella vita il bambino deciso rispose, il falegname. Divenne un ebanista e mobiliere di grido a Beirut.
Forse non ho decifrato io bene quanto asserisci tu, però. Abbracci