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Il funesto demiurgo

Il funesto demiurgo

Il funesto demiurgo
di Emil Cioran
(Le mauvais démiurge, Gallimard 1969)
Trad. di Diana Grange Fiori
Adelphi 1991 (1986)
Pagine 161

«Conoscere è discernere la portata dell’Illusione» (p.153). In questa frase, come in tutto il pensiero di Cioran, convergono numerose esperienze: gnosi, catarismo, Schopenhauer, scetticismo, Stirner, buddhismo. Cioran offre a questo sapere la coerenza del suo modo di esistere e lo scintillio di una scrittura fredda e perfetta.
«Che l’esistenza sia viziata alla sorgente» (11) è il punto d’avvio di questo sedicente «parassita del Peccato Originale» (157). Non si tratta, però, di un dogma iniziale, del principio da cui si deduce un sistema. Si tratta, semplicemente, di una constatazione. I testi di Cioran è di questo fatto che danno conto, indagandolo con la spietata lucidità di un eremita della metafisica. Tutto serve a confermare e spiegare la tristezza del mondo: eventi privati, letture sparse e varie, indagini sui grandi sistemi, osservazioni sugli animali, sogni.
Tra le filosofie alcune emergono evidenti. Fu tipico degli gnostici e dei catari l’orrore per la carne e per l’insensatezza del generare, in quanto stolta imitazione dell’operato del funesto demiurgo che insieme alla vita plasma il dolore. «Procreare significa amare il flagello, volerlo conservare e favorire» (20), moltiplicare la presenza di quell’autentico «punto nero della creazione» che è l’essere umano (22), sterminatore di se stesso e degli altri animali. Quando accenna a questi ultimi, la prosa di Cioran è permeata di grande rispetto, di autentica ammirazione. È infatti una costante di tutte le filosofie antiumanistiche una più esatta e oggettiva valutazione di quel mondo non antropico che non esiste soltanto in funzione nostra.
Altra presenza ben visibile è quella di Schopenhauer. Direi che in ogni assunto di Cioran c’è qualcosa della sua saggezza. Qui, ad esempio, emergono le due idee fondamentali del filosofo di Danzica: il male insito nel principium individuationis, la volontà come fonte prima del dolore («nel benefico caos precedente alla ferita dell’individuazione»; «una sola malattia, la più tremenda di tutte: il Desiderio», pp. 104 e 130).
Lo scetticismo allontana Cioran da ogni discepolato, da qualunque infatuazione, anche per la più cupa delle filosofie, e gli fa apprezzare -segnale emblematico- il secolo dei Lumi. Lo scetticismo, infatti, «è un esercizio di de-fascinazione» per quanto anch’esso possa esser visto come «la fede degli intelletti ondeggianti» (pp. 146 e 152). La verità viene dunque dissolta insieme all’essere. I due temi della metafisica e di ogni filosofia spariscono nel nichilismo radicale di questo pensiero.
Cosa rimane, infatti, dell’essere al confronto con la sapienza del Buddha e con l’idea della morte? Non si tratta solo di respingere «questo mondo, il mondo degli antenati, il mondo degli dèi», come recitano antiche formule orientali (90) ma di pensare ossessivamente alla morte fino a desiderarla, fino al coraggio e alla sapienza dell’unico «bel suicidio. Il solo che meriti questo epiteto è quello che nasce da niente, che non ha un motivo apparente, che è ‘senza ragione’: il suicidio puro» (78-79).
Civiltà del suicidio fu quella classica, dei Greci, dei Romani. Al loro politeismo va la nostalgia di Cioran. Molteplicità di dèi significa più possibilità di scegliere significati e venerazioni, significa maggiore disincanto e tolleranza, vuol dire un clima culturale e religioso più respirabile, vuol dire una società più libera: «Nella democrazia liberale vi è un politeismo soggiacente (o, se si vuole, incosciente) e, inversamente, ogni regime autoritario ha in sé un monoteismo camuffato» (40). Il politeismo pagano possiede, inoltre, la misura dei limiti della Terra e dell’uomo che il cristianesimo ha fatto smarrire nella sua pretesa di un dio incarnato qui e fra noi: «L’Incarnazione è la lusinga più pericolosa di cui siamo mai stati oggetto. Ci ha concesso uno status fuori misura, del tutto sproporzionato rispetto a ciò che siamo. Innalzando l’aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza, ci ha precipitati nell’illusione» (43).
Il nichilismo di Cioran è dunque un elogio. Elogio dell’astenersi, elogio degli animali, elogio del paganesimo, elogio della nolontà, elogio anche dell’ignoranza come redenzione da ogni presunzione, elogio della morte su cui la riflessione è continua, martellante. Elogio, infine, del nulla; dell’unico stato lieto, dell’unica possibile felicità: «la dolcezza di prima della nascita, la luce della pura anteriorità» (114).  Ecco dunque la migliore definizione che Cioran abbia forse dato di se stesso: «Frivolo e incongruente, dilettante in tutto, avrò conosciuto a fondo soltanto l’inconveniente di essere nato» (160).
Nella disperata lucidità dei suoi pensieri, Cioran mostra un ultimo paradossale e intimo desiderio di felicità: «Se fossi certo d’essere indifferente alla salvezza, sarei di gran lunga l’uomo più felice che sia mai esistito» (156). È la salvezza, una qualche salvezza, il tarlo vitale di Cioran, la risposta al ‘perché non mi sono ancora ucciso?’. Questa suprema incoerenza ha prodotto i libri di Cioran. Ha prodotto testi e pensieri che schernendo ogni verità, dissolvendo tutto l’essere, si sono accostati più di tanti -come la gnosi, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger- alla più intima verità dell’essere. Sein zum Tode (essere per la morte), la filosofia come riflessione senza timori su ciò che conta, su ciò che in ogni caso è una certezza.

2 commenti

  • Pasquale

    Gennaio 16, 2016

    Oso aggiungere in merito qualche inattuale di più, Alberto. Giudica se cancellarla con totale libertà. Ave atque vale.

    È impossibile, è un‘illusione, non si può pensare approdando a, partendo da, usando un sistema di riferimento chiuso, uno schema dialettico finché si vuole, e aderendovi.
    Cristianesimo o uno qualsiasi dei sistemi filosofici laici in sostanza non differiscono. Il soggetto, vi incespica, non ragiona si confonde si riduce ad impazzar come in una fucina di Rossini. Se il soggetto non è per scelta o per natura accorto, non coltiva con faticosa determinazione il coraggio del con mis soledades voy/de mis soledades vengo/ porque para andar conmigo me bastan mis pensamientos ( Lope de Vega, La Dorotea, 1632), si confonde si riduce ad adottare qualunque preconcetto o pregiudizio, pur di mettere pace e gioia gioia e pace e ordine tra le tensioni del pensare. Si scinde in corpo e mente. Meglio schizofrenici, finisce per ammettere, che soli senza una bibbia qual sia sia. Finisce invischiato in concettismi per far collimare ciò che penserebbe, se osasse, con ciò che il sistema prevede si pensi. Per non andare distanti il bibbiede in questione si comporta come quei tizi che, in pittura, hanno adottato Raffaello come sistema di riferimento estetico, e almeno non gli è stato imposto, e cercano di trovare Raffaello in Bacon, o non gli piace e lo temono; così Bacon finisce per diventare Raffaello ai loro occhietti; lo chiamano tolleranza ed ecumenismo. C’è gente che trova Mozart in tutto, anche in David Bowie o non riescono a tollerare quest’ultimo, ma come sono contenti quando sguazzano e non san più cosa son cosa faccio. Così si trova il cristianesimo in Tolstoji e alla stessa maniera in Nietzsche o Cioran, persino in Freud, il tolemaico nel copernicano. I migliori aspirano a qualche sorso di indipendenza e da prigionieri anelano all’ora d’aria, fingendosi à l’aise a cena con Monsieur de Charlus ma sono dei bas bleu e sotto il pantalone si vede. Il tempo massimo che riescono a sopportare di iperventilazione è un’ora. Dopo è coattivo il richiamo dei loro sette passi per lungo e tre per largo, branda esclusa. Tornano alla cellula delle loro devozioni, possono pregare anche San Friedrich se riescono a trafiggerlo di sufficienti frecce per farlo frollare tanto da digerirlo. Au contraire, come un Maigret che scorra con lo sguardo sulla scena di un crimine e se la dimentichi, ciò che Fritz Nietszch ha illustrato per bene è a lasciarsi scorrere su molteplici oggetti, afferrarli, lasciarli, riprenderli forse, frase dopo frase, frammento per frammento. Nel dopo cristo pochi altri prima di lui, Leopardi per esempio, uscirono più di lui ripuliti dalla placenta non solo religiosa che è il massimo della vinctio e del convicium, poi molti. Da ciò l’impossibilità di creare un sistema, o sarebbe caduto anch’egli in un terribile monoteismo, e allora altro che nazismo, tutti gli ismi sono cisti fantasiose sullo stesso ovario. Nietzsche segna la fine dei sistemi e la rinascita del pensare con tutte le conseguenze anche nefaste che comporta; un ritorno alla Grecia antica. All’aria fresca, lucida e parfois dolente del paganesimo. Ha prodotto pensieri Fritz e figli mai uguali a se stessi, nemmeno al fiume di Eraclito. Paradossali disen ‘i alter philister, conflittuali, e alura… Πόλεμος μὲν… Anche l’acqua calda è in conflitto con l’acqua fredda. La monoculòsi invece, come l’herpes, è tanto endemica in questo mondo péniblement idiot et vilain, dévoué à sa sale mort che la vita quotidiana, che dovrebbe essere filosofia, ne è scossa; fronte al polisèmico, al polittico, le acque si agitano, monta la marea dell’ansia e della violenza fine al se stesso del conservarsi sé per accopparsi altro. Gli ésimi ismi hanno introdotto il virus del mòno, Mònòstatos. Il cattivo demiurgo. Ed ora che le cose vanno a rotoli, si rincorre per cura la malattia. Trascura il metodo Pasteur ma c’è del metodo pervicace nella fede… la si è inventata dove non disponibile. La si inventa. Il behhpedàme, il budellame standard è convinto di pensare quando crede. Osservare le pur orrende, talvolta, dittature dei Cesari; sono passate e trapassate intatte nella storia senza creare uno straccio di ideologia, di sistema; non esiste il cesarismo, ma Cesari che talvolta sbroccavano in gesti cruenti. Nessuno tuttavia ha mai creato credenze avverse a qualcun altro. Intuirono il pericolo politico della nuova ossessione paolina, ma non capirono che la medesima ossessione li avrebbe tirati su da politici in martiri. L’antichità non conosce il martire. Erano quel che erano le cesarìe, efferate, blande, inefficienti, marcaurelie, adriane, fasciste mai. Il resto era efficiente amministrazione. È il cristianesimo che ha reso possibile e legale la pubblicità. Non si maledirà mai abbastanza costantino-in-hoc-signo-rino.

  • Pasquale

    Gennaio 14, 2016

    Il nichilismo di Cioran è dunque un elogio. Elogio dell’astenersi, elogio degli animali, elogio del paganesimo, elogio della nolontà, elogio anche dell’ignoranza come redenzione da ogni presunzione, elogio della morte su cui la riflessione è continua, martellante. Elogio, infine, del nulla; dell’unico stato lieto, dell’unica possibile felicità: «la dolcezza di prima della nascita, la luce della pura anteriorità» (114). Ecco dunque la migliore definizione che Cioran abbia forse dato di se stesso: «Frivolo e incongruente, dilettante in tutto, avrò conosciuto a fondo soltanto l’inconveniente di essere nato»

    Comprendi tanto CIoran che scrivi sulle sue ali. CIoran è il mito. Biuso si rivela il suo aedo. P.

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