The Lobster
di Yorgos Lanthimos
Grecia, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Francia – 2015
Con: Colin Farrel (David), Rachel Weisz (La donna miope), Aggeliki Popoulia (La donna spietata), Ariane Labed (la cameriera), Léa Seydoux (il capo dei solitari), Olivia Colman (la direttrice dell’albergo), Ashley Jensen (la donna biscotto)
Trailer del film
In un albergo di lusso. Serviti da camerieri inappuntabili. Ottimi pasti, saune, piscine. Splendidi panorami. Può un luogo come questo essere un lager? Sì, può. Perché l’essenza di un lager non è il cibo, le baracche, il freddo -che pure contano, certo- ma è il terrore di un potere implacabile e diffuso. Il potere, in questo caso, che si esercita su chi ha la ventura di rimanere da solo. Che il motivo sia la volontà del soggetto, l’abbandono da parte del compagno/moglie/marito o la sua morte, nessuno può e deve rimanere da solo. In questo albergo gli ospiti hanno 45 giorni di tempo per trovare un altro partner. Se non vi riusciranno, saranno trasformati in un animale a loro scelta. Possono incrementare i giorni loro assegnati catturando dei solitari, gruppi di ribelli che vivono nei boschi e il cui comportamento è speculare rispetto a quello delle istituzioni. Tra di loro, infatti, nessuno può innamorarsi o accoppiarsi ma deve rimanere da solo e provvedere in solitudine a tutte le proprie esigenze affettive. Per chi trasgredisce le pene sono terribili.
David è stato lasciato dalla moglie e viene ospitato in questo albergo. Nonostante la sua profonda indolenza, tenterà varie strategie per sopravvivere, compresa la fuga con i solitari.
Dogtooth (Kynodontas, 2009) rappresentava la famiglia come luogo claustrofobico e perverso. Qui la distopia riguarda i sentimenti, i legami, il naturale, totale, disperato bisogno che gli umani hanno di vivere con gli altri, di scegliere un proprio simile con il quale condividere l’esistenza. Che questo sentimento diventi obbligatorio o venga proibito, in entrambi i casi le conseguenze sono ipocrisia, menzogna, aridità, disperazione, vuoto. Quando infatti si tratta dei sentimenti umani, ogni carezza può diventare uno schiaffo, ogni tocco una violenza. Se le istituzioni entrano in questa sfera -e lo fanno da sempre- un’etica potenzialmente totalitaria invade i comportamenti e li rende fonte di dolore.
Il mondo grottesco, triste, patetico e feroce descritto da questo film è fondato sulla accentuazione di elementi già presenti nella nostra società. Il Grande Altro, infatti, si impone su ciascun individuo con tutta la forza di un condizionamento sociale ed etico al quale è quasi impossibile sfuggire. Le regole della convivenza istituzionale vanno al di là del codice civile e toccano il cuore delle persone e dei loro desideri. Per regolarli, certo, ma anche e soprattutto per controllarli, poiché il desiderio che da sé si costruisce e in sé si appaga è dirompente per l’ordine individuale e collettivo. Vivere in due o vivere da soli, più che una scelta consapevole e meditata è in gran parte un dovere introiettato dalla famiglia, dall’ambiente sociale, dallo Stato. Il film trasforma l’imposizione collettiva in norma totalitaria inderogabile ma il controllo, la repressione e il terrore abitano nelle morali eteronome prima che nei codici giuridici.
La struttura formale di Lobster è una delle sue migliori qualità. La tragedia viene raccontata con un distacco quasi totale. La forma è cadenzata e geometrica. Umano, animale e disumano si mescolano come un dato di fatto e non come una stravaganza. Lobster è l’aragosta nella quale David chiede di essere trasformato nel caso non riuscisse a trovare una compagna. La troverà là dove è proibito averla e questa donna sarà miope come lui. Forse non vedere troppo lontano nel futuro del dominio è una delle condizioni per sopportare il presente del potere. Il disincanto di Lanthimos è profondo e tuttavia anche un film come questo è uno sguardo gettato sulla struttura sadica dell’autorità, è una sfida all’accettazione di ciò che si presenta come ineluttabile.
3 commenti
agbiuso
Cara Lucrezia,
che quello raccontato in The Lobster sia «il peggiore dei lager poiché inglobato e assorbito dal Sé» è esattamente quanto ho tentato di argomentare.
Così come il Nulla di una struttura sociale priva di senso. La sua frase conclusiva -« nel tempo distopico del film chi viene al mondo ha già perso» apre uno sguardo che credo vada oltre il film (e ovviamente oltre quanto io ne ho scritto) e attinge a una comprensione radicale dell’esserci e del tempo.
Ringrazio quindi lei per aver arricchito in questo modo la recensione, cogliendone così bene contenuti e intenzioni.
Lucrezia Fava
Caro Professore Biuso,
ho visto il film e mi è piaciuto davvero molto.
La sua recensione è ineccepibile. La condivido per intero e la ringrazio per averla scritta.
Purtroppo il futuro immaginato da Lanthimos – in nuce già presente- è un sistema di soffocamento blindato, una prigione onnivora, ubiqua e inestirpabile, un lager appunto, anzi il peggiore dei lager poiché inglobato e assorbito dal Sé. Tutto è una condanna: un sentimento come un altro, un tipo di scelta e quella opposta. La condanna dell’Uguaglianza: bisogna sposarsi per essere uguali a chi si sposa, bisogna aver figli per essere uguali a chi ha figli, bisogna restar soli per essere uguali a chi resta da solo, bisogna fidanzarsi per essere uguali al proprio partner.
Non c’è salvezza perfino nella libertà dei pensieri più reconditi e taciuti: ogni dinamica personale deve essere subordinata all’Altro. Il sacrificio di sé è tale che non esiste altro che l’Altro, perciò questo stesso termine risulta insensato e il sacrificio avviene perché non si dia più nulla. O meglio, si dà il Nulla.
Lei scrive che “anche un film come questo è uno sguardo gettato sulla struttura sadica dell’autorità, è una sfida all’accettazione di ciò che si presenta come ineluttabile”. Condivido, se la sfida al “Grande Altro” avviene fin da adesso. Dopo infatti non avrebbe senso: nel tempo distopico del film chi viene al mondo ha già perso.
Un caro saluto,
Lucrezia
susannavalle
un lager vale l’altro George Orwell, insomma si invoca il grande fratello che solo l’web ci può garantire. chi sono gli Hacking Forse dopo l’epoca del romanticismo,dell’illuminismo,del nichilismo,ora siamo in pieno webismo, Gianroberto Casaleggio imprenditore e politico italiano, socio fondatore e presidente della Casaleggio è molto interessato a tutto questo per via dei softuare che venderebbe in un futuro webbista
cordiali saluti