Class Enemy
di Rok Bicek
Con: Igor Samobor (Robert), Daša Cupevski (Sabina), Doroteja Nadrah (Mojca), Natasa Barbara Gracner (Zdenka), Masa Derganc (Nusa)
Slovenia, 2013
Trailer del film
In un liceo l’insegnante di tedesco, molto comprensiva e molto materna, va in congedo. La sostituisce il Prof. Zupan, di tutt’altra indole. Un’indole poco coerente con il Progetto Formativo d’Istituto, il quale è assai morbido con gli studenti e la loro presunzione. Il conflitto tra la classe e il docente esplode quando una delle alunne si uccide. Anche se le cause sono di tutt’altra natura, viene ovviamente accusato il nuovo professore. La preside e i colleghi si barcamenano -come sempre in questi casi- tra viltà e interessi privati. I comportamenti certamente rigidi ma anche realmente educativi di Zupan scivolano sugli studenti e sui loro genitori. La meschinità di questi ultimi è palese.
Parlare di scuola non è facile, mai e per nessuno. Si tratta infatti di un mondo estremamente complesso ma del quale tutti si sentono autorizzati a dire, per la banale ragione che una volta -da studenti- ci sono stati. Al cinema, poi, i risultati sono quasi sempre falsi, semplicemente falsi. E invece una delle qualità principali di Class Enemy è la sua completa verosimiglianza. Certo, i caratteri sono un poco eccessivi (per lo spettacolo) ma le situazioni, le dinamiche, il retroterra sono decisamente reali.
In uno slancio di sincerità, la preside di questo liceo riconosce che «una volta ci temevano, ora noi temiamo loro». E ciò significa, né più né meno, la fine della scuola. Indulgere infatti nel sistematico giustificazionismo di ogni debolezza, capriccio, pigrizia, narcisismo degli studenti significa negare loro il diritto a diventare adulti. Diritto che in tutte le società conosciute passa anche attraverso dei riti di iniziazione. Le difficoltà e la fatica impliciti nel lavoro scolastico costituiscono anche tale iniziazione. Non a caso il testo sul quale le lezioni di Zupan si incentrano è Tonio Kröger di Thomas Mann, un bellissimo racconto di formazione.
Cancellata dalla scuola l’iniziazione, i ragazzi la cercheranno altrove, in modi e forme assai più pericolose. L’ignoranza di questa componente antropologica è una delle caratteristiche più distruttive del dominio che pedagogisti e psicologi esercitano sulla teoria e pratica dell’educazione e che ha come risultato l’assoluta fragilità degli adolescenti.
Class Enemy fa emergere tutto questo dall’interno del rapporto educativo, e lo fa con uno stile sobrio che nulla concede alla banalità, evitando finali sia drammatici sia lieti e ribadendo -nell’assai bella scena conclusiva- il vuoto profondo delle vite. Rispondendo alla preside, Zupan afferma che «essere studenti non è un diritto ma un grande privilegio». Condivido.
9 commenti
diegod56
Ogni persona dovrebbe poter amare il proprio lavoro, perché l’alienazione è la madre di tutti i mali del vivere. Ricordo un amico corniciaio, a Pisa, la sua descrizione del trattamento delle cornici dorate era intrisa d’una passione che mi commuoveva. Ci sono pagine bellissime di Gramsci al riguardo, magari ci torniamo su, qualche volta.
Certo, caro Alberto, tu sei «nato» maestro, e per fortuna corrisponde al tuo lavoro.
Pasquale D'Ascola
Mi pare che Alberto centri al solito il bersaglio. CIoè che la scuola sarebbe e lo è ancora un rito di passaggio, anzi le scuole, poiché credo che i riti siano molteplici. Non a caso un tempo v’era la deprecabile costumanza del goliardato con il corollario di vessazioni per le matricole. Sempre iniziazione era. Passata la fondamentale di taglio del cordone familiare, dI passaggio, cesura, come diceva Lacan da Lalingua (come lallazione materna) al Linguaggio, acquisizione che segna/erebbe il transito alla pienezza progressiva dal sapersi esprimere da sé in senso compiuto. Evito lezioni a chi ne sa più di me. Io credo che la scuola significhi ancora questo ed è per questo motivo che esercito il deprecato mestiere di insegnante resistente…contro i regi decreti, contro i programmi, contro le griglie, i codici disciplinari, i formulari, i dipartimenti, i consigli di dipartimento, l’illibertà di insegnamento, i consigli e i conigli ( il 90 per cento dell’insegnante senza corpo alcuno), i familismi, le truffe, gli inganni, la mancanza di sintassi, l’approssimazione linguistica, il lassismo, la negazione del maestro, l’autodidattismo, la mancanza di erotismo, di corpo, di saper sapere. Andare avanti in questa sede è pleonasmo. Taccio e non acconsento. Come Unamuno a Salamanca nel ’37 grido a una classe ormai digerita dal suo dirigere, crepate: VIncereis pero no convincereis. P.
agbiuso
@Diego
@Adriana
Rimanere sempre giovani. Perché la persona dell’insegnante invecchia, certo, ma chi ha davanti ha sempre la stessa età.
Vedere la superficialità trasformarsi in interrogativo e la servitù in libertà. E questo ogni giorno; giorno dopo giorno; tutti i momenti.
Parlare a tante persone di ciò che per te è ragione e senso dello stesso vivere.
Rendere presenti alcuni dei più grandi conoscitori del mondo, vissuti nelle epoche più diverse.
Leggere, rileggere, capire e penetrare testi e parole di straordinaria potenza.
Plasmare il mondo attraverso le persone come un artista plasma la materia; solo che qui la materia plasma anche te.
Non stare dietro una scrivania o un bancone o un laboratorio ma esistere con persone vive, tutte diverse e tutte pronte ad apprendere da te qualcosa.
E potrei continuare. Per queste e per tante altre ragioni, quello dell’insegnante è il mestiere più bello del mondo. Nonostante tutto: soldi, (disi)stima sociale, provocazioni, eccesso a volte di vivacità, e altro.
Ma non lo cambierei con nessun altro lavoro. Mi dispiace per i tanti che -ovviamente- non hanno insegnato in una scuola neppure per un’ora della loro vita. Avrebbero potuto essere creatori e forse -nella maggior parte- sono soltanto esecutori. Ma unicuique suum.
Adriana Bolfo
Sarò brutale anch’io, a margine.
1)A parte il fatto che il “mestiere” continua a piacermi nonostante, non posso permettermi di mollarlo perché non ho fortune di famiglia e nemmeno un marito lavorante.
2)Il re-litto è anche un de-litto, di cui andrebbero indagate le molteplici cause e concause, grandi e piccole.
3)Personalmente non mi sento né congelata né morta, anzi, su questi temi, mai stata così viva. E certo è l’arrabbiatura – oltre che un poco di pratica e di conoscenza – che vivacizza.
4)Ben oltre i quaranta – magari allora fossi stata così arrabbiata. Nulla avrei migliorato a livello nazionale, nella retribuzione e nella stima, anche considerati i sindacati menefreghisti e noi che ce ne siamo fidati, ma nella mia pratica e vita quotidiana avrei migliorato moltissimo e starei meglio ora.
Chiaro che, comparendo qui con nome e cognome – e questo per inesperienza quando mi iscrissi – non posso fare esempi personali, del passato o del presente.
5)Non posso che concordare circa il generale disprezzo e senso di superiorità con cui siamo guardati dall’esterno da gente di tutti, dico tutti, i livelli – di fatto, persone mediamente non “migliori” ma che si sentono tali perché fanno un altro mestiere.
diego
Sarò molto brutale, caro Alberto, ma voglio esprimere quel che provo da tempo su questi temi.
La maggior parte dei miei amici fa l’insegnante. Due o tre fanno il preside.
C’è di buono lo stipendio sicuro (se non sei precario), ma per il resto, attualmente, mi sembra davvero un brutto mestiere, perchè sei disprezzato, e non poco, dal resto del corpo sociale.
La barca è affondata, stanno attaccati al relitto, sperando di non congelare prima della pensione.
Le quarantenni imprecano sul fatto che, avendo tradizione in famiglia, le loro mamme a quell’età, erano andate in pensione.
Un clima pessimo, peggio di quello che si respira fra quelli come me senza stipendio fisso, magari si soffre tanto ma si respira, ci si sente più vivi.
Adriana Bolfo
Gentile Biuso,
la ringrazio della calda solidarietà che proviene dalla sua esperienza.
Mi riferivo quasi esclusivamente a ciò che accade in sede di esame di Stato, quando la povera insegnante di Lettere si dà per scontato che si sgoli a leggere a volce alta cinquanta e più lunghi compiti per la delizia degli altri commissari (più presidente) convenuti, perché la correzione è “collegiale”, dopo di che ciascuno legifera su cose di cui ha limitatissima, per non dir nulla, competenza. Ecchessaràmmai se nello scritto la punteggiatura è sbilenca, il lessico povero e l’argomento poco sviluppato, ma se il tutto, ad orecchie ignoranti, suona bene, perché forse chi legge ha la capacità di rendere espressivo anche un elenco telefonico. E poi, vuol mettere, i “contenuti”, sì vabbe’, nell’essenziale ci sono.
Ah ah. Come se il “contenuto” di uno scritto non fosse lo scritto stesso nella sua interezza, e come se non fossimo all’esame di Stato in uno Stato di cui quella lingua con cui è scritto lo scritto è lingua ufficiale, e quella è una prova conclusiva di un ciclo di studi tuttora chiamato “superiore” e magari il lavoro parla di letteratura, cioè della massima formalizzazione di quella lingua.
Per dire.
Certo, finché non ci si oppone a tale andazzo, di fatto lo si autorizza.
Conosco qualcuno che ha invertita, con educazione e fermezza, tale linea di tendenza.
Quanto alle acrobazie che si fanno ai normali scrutini anche senza ricorrere alla pletora di ragioni o sragioni da lei elencate, siamo compartecipi tutti, al di là della personale serietà e intransigenza o mollezza, per motivi e finalità su cui sarebbe il caso di discutere discutendone dalla radice.
E qui mi taccio, anche perché il passo successivo, già fatto a voce, è quello di dare un’accezione positiva al termine corporazione nell’ovvio senso di gruppo di mestiere (con attenzione alla parola “mestiere”), i cui tecnici, sottoposti alle varie giravolte governative, legislative e normative, sono i primi a NON essere consultati su qualsivoglia cosa li riguardi, fermi restando difetti, carenze e contraddizioni da non negarsi, e con l’acuta percezione che i primi a mettersi tra parentesi sono appunto “quelli del mestiere”.
Poi è ovvio che non si conti nulla, anche ci fosse tutto a favore, che non è.
Dopo l’attacco di bile nera, un saluto di cuore a tutti gli insegnanti che girano qui, soprattutto a quelli che non la pensano come me. 🙂
agbiuso
@ Dario Generali
Grazie, caro Dario. La tua condivisione è per me sempre preziosa.
@Adriana Bolfo
Comprendo bene, Adriana, che cosa intende dire. Bisogna aver vissuto o vivere ancora a scuola per capire che cosa significa che durante i consigli di classe, gli scrutini, gli esami, persone che non leggono mai un libro, che non si pongono mai domande, che riversano sul lavoro le loro frustrazioni e deliri, che strisciano davanti a presidi e direttori, tali soggetti poi in nome della «collegialità» modificano e aumentano indiscriminatamente i voti di alunni senza volontà, né talento, né onesta, giustificando tali interventi con le più varie motivazioni psicologistiche, sociologistiche, familistiche. E in nome della «collegialità» compiono veri e propri falsi in atto pubblico.
Per anni sono stato accanto a tali «colleghi» e vorrei indirizzare loro, adesso e con tutto il cuore, il mio più sincero disprezzo. Si riconosceranno.
Adriana Bolfo
E pensi che chiunque, anche agli esami, si crede in diritto di valutare un compito di italiano solo perché parla tale lingua dalla nascita, insegnanti compresi.
E per favore non mi si obietti con la solita solfa della collegialità, perché vorrei vedere la reazione di tali benpensanti di tutti i colori e odori se gli si andasse a mettere in dubbio la valutazione di un “loro” compito.
Per dirla con diplomazia, sono allo scazzo.
Dario Generali
Caro Alberto,
condivido naturalmente anch’io sia il senso della citazione finale, sia la lucida analisi che, come sempre, dai della scuola contemporanea e del suo progressivo degrado.
Un caro saluto.
Dario