Ma è un canto brasileiro
di Mogol – Lucio Battisti
(Il nostro caro angelo, 1973)
Cantano le sirene, dolci, invitanti, convincenti. Descrivono una donna «mentre sorseggia un’aranciata amara / con l’espressione estasiata / di chi ha raggiunto finalmente / un traguardo nella vita». Quante volte non ci sorprendiamo -cosa che dovremmo ben fare se non fossimo idiotizzati- nell’assistere in televisione a «un imbecille [che] entrando dalla porta / grida un evviva con la bocca aperta». E automobili bellissime e sinuose che sfrecciano tra paesaggi solitari e incontaminati (traffico, mai), automobili le quali raccontano «che la benzina / quasi quasi quasi purifica l’aria / sarà al mentolo l’ultima scoria». Attori e attrici ai quali basta indossare un camice bianco per convincere all’acquisto di un «dentifricio pure trasparente / dove ti fanno dire che illumina la mente […] / E mentre parli sei una semplice comparsa / vestito da dottore, che brutta farsa! / Ti fanno alimentare l’ignoranza / fingendo di servirsi della scienza!». Tranquille e costanti, le sirene della pubblicità rispondono con la loro melodia: «Ah ma è un canto brasileiro. / Ah ma è un canto brasileiro. / Ah ma è un canto brasileiro».
E tutto questo in un sapiente e originale tessuto musicale che alterna ritmi molteplici, anch’essi sirenici e ironici. No, queste non sono solo canzonette.
2 commenti
agbiuso
Il pianeta delle scimmie
Il Simplicissimus, 4.9.2024
Credo che la pubblicità quando diventa così pervasiva da colpire 24 ore su 24 e su qualsiasi media come accade nella nostra disperante era del tramonto, costituisca una vera e propria violazione dei diritti umani. Una pragmatica negazione del pensiero e della capacità critica oltre che una gabbia psicologica per l’espressione sociale e politica che vengono detenute in una gabbia sempre meno dorata. Tuttavia proprio il suo scopo di indurre alla continua stimolazione del desiderio come in topi da laboratorio, rivela molto dell’immaginario collettivo e anche della natura di quella “gioia” o “felicità” che ci viene ultimamente propinata come pozione politica in assenza di qualsiasi idea o programma sensato e tanto meno argomentato .
Una volta la soddisfazione per essersi impossessati dell’imperdibile oggetto del desiderio, veniva espresso dai testimonial pubblicitari con il sorriso, con il canto, con una battuta o con qualche accenno di danza. Oggi invece nella maggior parte dei casi, i personaggi si alzano dai loro bivacchi televisivi e cominciano ad agitarsi insensatamente e primitivamente come in discoteca o in spiaggia o nelle feste che esplodono qui e là tutte all’insegna non dello stare insieme, ma dello sballarsi dentro una folla o sarebbe meglio dire dentro la tribù raccogliticcia di una sera. Questo di tanta speme oggi ci resta: movenze primordiali, violente, completamente prive di qualsiasi “forma”, qualunque essa sia e più simili all’agitarsi dei nostri lontani parenti con il pelo, che ad azioni umane nelle quali di solito si nota l’intervento della materia grigia o per dirla con Nietzsche di quell’apollineo che in qualche modo permette al dionisiaco di esprimersi davvero (e naturalmente viceversa). Non c’è alcuna traccia di quell’unione del principio intellettuale – formale e di quello vitale che in qualche modo sono tipiche degli delle civiltà vitali.
Troppo per gli spot che ci cascano addosso come pietruzze che si staccano dal masso di Sisifo nel continuo e insensato circolo vizioso tra stimolo – desiderio – appagamento? Forse, ma quello che mi premeva sottolineare è che queste scomposte manifestazioni di presunto ed estremo giubilo che vediamo non solo nella pubblicità, ma in molte manifestazioni collettive, come ad esempio quelle sportive, hanno ben poco a che vedere con la contentezza: nonostante la simulazione di falsa allegria emerge plasticamente che esse sono frutto della rabbia e della fame narcisistica come fine ultimo del vivere, secondo le più famose le vulgate del neoliberismo. Non c’è nessuna gioia in quelle esultanze, ma angoscia e persino paura. Sono grida nel silenzio di un mondo dove l’unica cosa che si percepisce chiaramente è il non senso, il non futuro sociale e politico, la riduzione di tutto a una battaglia tra individui che tentano assurdamente di distinguersi con i più frusti trucchi del conformismo. Un vero pianeta delle scimmie. Esultare scompostamente non è solo una moda – anche se questa non è mai neutra e costruisce un approccio al mondo – è il modo di essere attuale dell’uomo occidentale, dove la supposta “fine della storia”, arrivata inopinatamente dopo quella di Dio, rende tutto tormentoso e deprimente. Non c’è nulla al di fuori dell’oligarchia capitalistica e delle sue supposte leggi, dove il tutto è retto da un’Ananke senza volto che si chiama mercato.
Dunque il gioire per qualcosa, per qualunque cosa è allo stesso tempo una finestra su questa condizione dove l’unica cosa concessa e ornai concepibile è la sua accettazione. Il mondo è questo e sarà sempre così, non rimane che la gara vinta o l’ultimo telefonino acquistato e non c’è alcun altro modo di esprimerlo se non l’assurda danza tribale. È proprio tale condizione di stasi ingannevolmente coperta dalla giostra del consumo di qualsiasi cosa, di oggetti materiali o di ideologismi di giornata, che sta portando l’Occidente alla sua dissoluzione finale. Il cannone tuona ai confini di un mondo che aveva l’ambizione di essere tutto il mondo, la storia ricomincia da un’altra parte e gli idoli si frantumano.
diego
tipico del miglior Battisti, tre accordi messi giù con apparente semplicità, ed un crescendo di sonorità in una produzione di grande qualità sonora
in modo simpatico ma più modesto, ci ha riprovato il pur bravo Rino Gaetano, ma in effetti, per l’epoca, la qualità delle registrazioni di Battisti era inarrivabile