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di Yann Arthus-Bertrand
Francia, 2009
[La versione originale del film è in inglese, con la possibilità di seguire l’audio mediante dei sottotitoli molto chiari. È stata comunque predisposta una versione in lingua italiana. Devo la segnalazione di questo film alla Dott.ssa Stefania Ruggeri, che ringrazio]
«Faster and faster». Veloci, sempre più veloci. Lo si ripete di continuo in questo film. Veloci nell’abbattere foreste, nello sporcare i mari, nel massacrare altre specie, nel surriscaldare l’atmosfera. Veloci nell’avvelenare il pianeta. L’opera di Yann Arthus-Bertrand (prodotta da Luc Besson) è la più efficace illustrazione di una frase attribuita a un capo pellerossa: «Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro».
C’è qualcosa di psicopatologico in questa frenesia dell’Occidente, ma non soltanto di esso, volta a distruggere la casa di tutti i viventi e quindi anche l’abitazione umana. Di psicopatologico ma anche di spiegabile con un fatto tanto semplice quanto decisivo: l’orizzonte temporale. La singola vita di un essere umano, compresa quella dei capi delle multinazionali e degli stati (vale a dire dei dirigenti delle più grandi organizzazioni criminali), è breve: 80-90 anni al massimo. E dopo? Dopo che venga pure il diluvio, come si racconta abbia detto un famoso sovrano. Intanto, ci si arricchisce. Intanto si ha l’impressione di star comodi e di vivere bene. Se tutto questo costa ora grandi sofferenze ad altri umani e ad altre specie e alla lunga porterà alla fine della vita sul pianeta, chi se ne importa. Pensare ciò che accadrà quando saremo morti è non soltanto fastidioso ma anche del tutto astratto. Il concreto è la mia vita, qui e ora. E al diavolo il futuro. La miopia di un simile atteggiamento è evidente. E infatti civiltà più sagge della nostra (ci vuole poco) hanno visto più lontano.
Home è lo stridore stesso. Lo stridore che separa le immagini splendenti riprese dall’alto e la ferita profonda che a quegli ambienti viene inferta giorno dopo giorno. Ghiacciai, deserti, montagne, profondità, isole, oceani sembrano ricamati da degli artisti informali, sembrano l’astrazione stessa e l’essenza dei concetti, delle forme, della geometria. Ma dentro la loro vita, nel cuore della loro struttura, sta avvenendo l’irreparabile. È questo iato tra bellezza e veleno a costituire l’originalità di un film che si gusta come una sintesi dell’arte con la quale la materia plasma se stessa.
Una parte di questa materia, quella cosciente che chiamiamo ironicamente sapiens, opera con tenacia per far tornare la Terra alle condizioni irrespirabili che precedettero la comparsa dei primi batteri. Ci riuscirà l’Homo sapiens, ci riuscirà. E, sinceramente, non mi dispiace. O meglio, mi dispiace per le piante, per gli altri animali, per il blu del cielo. Ma sopravviveranno i vulcani, si estenderanno gli oceani senza più pesci e mammiferi, splenderanno ancora i colori accesissimi dei tramonti in un’atmosfera senza più ossigeno. Il finale non sarà quello nonostante tutto fiducioso di questo bellissimo film ma l’altro ben più realistico di una Terra ricondotta al gorgogliare delle sue lave, al punteruolo delle sue cime, alla cupezza dell’anidride. Quando gli ultimi batteri moriranno anch’essi, la materia continuerà a esistere. Sino a che -tra cinque miliardi di anni- il Sole avrà esaurito la sua immensa energia e in un ultimo sussulto si espanderà a inglobare i pianeti, compreso il nostro. Tutto sarà fuoco. E poi il silenzio. Prima, molto tempo prima, una specie di primati senza peli si sarà creduta saggia nell’anticipare la propria distruzione. E per questo forse saggia lo è veramente.
11 commenti
agbiuso
Caro Diego, condivido ogni parola di ciò che hai scritto e ti ringrazio per la chiarezza con cui lo hai detto.
In particolare questa affermazione mi sembra fondamentale:
“Ebbene, chi ha un’attività imprenditoriale ha assoluto bisogno di un mercato nazionale protetto e regolamentato, altrimenti è inevitabile che debba soccombere alla concorrenza spietata e sleale di chi puo’ lavorare senza regole e con alle spalle giganteschi capitali”.
Aver fatto finta di non capire tale semplice ed evidente dinamica -aver dunque dato credito all’ideologia ultraliberista a supporto, come tu dici, del Capitale- è uno dei crimini politici che ha distrutto la sinistra.
L’hanno chiamata e la chiamano “globalizzazione”.
diegod56
Quello del mercato aperto come un bene e del mercato chiuso come un male è il dogma più devastante degli ultimi 25 anni. Probabilmente l’errore più micidiale dopo il crollo del muro. Voglio esprimere un parere non da comunista, non da uomo di sinistra, ma, caro Alberto, un parere da imprenditore, da uomo che vive di mercato. Ormai sono un imprenditore ai minimi termini, sia chiaro, ma ho sempre vissuto nell’impresa e nella cultura d’impresa. Ebbene, chi ha un’attività imprenditoriale ha assoluto bisogno di un mercato nazionale protetto e regolamentato, altrimenti è inevitabile che debba soccombere alla concorrenza spietata e sleale di chi puo’ lavorare senza regole e con alle spalle giganteschi capitali. A che servono le frontiere? Possibile che il passaggio delle merci è sacro, guai a porre qualche limite, mentre gli umani, gli esseri umani, debbono morire come bestie in un tratto di mare, verso di loro i confini sono sacri? Secondo me è giusta la libera concorrenza fra operatori economici, ma dentro una cornice ci regole omogenee, per cui se io ho un dipendente che ha i suoi sacrosanti diritti non è giusto subisca la concorrenza di chi invece non li riconosce e sfrutta brutalmente. Il problema è il capitalismo: un conto è l’impresa privata vera, di persone vere che intraprendono e creano reddito e lavoro, un conto è un capitale cieco e spietato che investe in un settore finchè rende e poi lo lascia, lasciando sul terreno solo l’ambiente distrutto e disoccupazione. Dobbiamo capire che essere contro la globalizzazione non è essere comunisti, ma è essere a favore dell’impresa e del lavoro armonicamente intessuti con il corpo sociale. Grazie dello spazio Alberto, ma questo punto di vista è poco rappresentato secondo me.
agbiuso
In occasione della manifestazione mondiale sul clima, l’editoriale di oggi sul manifesto è un brano di Naomi Klein che evidenzia come l’ultraliberismo sia una ideologia con tutti i crismi, “un’ideologia estrema e fondamentalista che sta distruggendo l’umanità”.
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I gas tossici del capitalismo
di Naomi Klein, il manifesto, 21.9.2014
Non siamo riusciti a diminuire le emissioni perché alla fine le cose che dobbiamo fare sono in contrasto con il «capitalismo deregolamentato», e cioè con l’ideologia che domina da quando tentiamo di trovare il modo per uscire da questa crisi. Non riusciamo a sbloccare la situazione perché le azioni che offrirebbero maggiori possibilità di evitare la catastrofe (e che andrebbero a beneficio di un’ampia maggioranza) rappresentano una grave minaccia per una élite minoritaria che tiene completamente sotto controllo la nostra economia, i nostri processi di decisione politica e la maggior parte dei mezzi di comunicazione.
Forse il problema non sarebbe stato insormontabile se fosse emerso in un momento storico diverso ma per grande sfortuna di tutti noi, la comunità scientifica è giunta a formulare la sua diagnosi decisiva sulla minaccia climatica proprio nel momento in cui le élite assaporavano un potere politico, culturale e intellettuale senza paragoni se non con i primi anni Venti del ’900. Governi e scienziati, infatti, hanno cominciato a parlare seriamente di tagli drastici alle emissioni di gas serra nel 1988 — proprio l’anno in cui si profilò quella che si sarebbe chiamata «globalizzazione» e l’anno in cui fu firmato il Nafta, l’accordo sulla più grande intesa commerciale del mondo. All’inizio, tra il Canada e gli Stati Uniti, diventato poi, con l’inclusione del Messico, l’accordo Nafta.
Quando gli storici osserveranno in retrospettiva i negoziati internazionali dell’ultimo quarto di secolo vedranno due processi cruciali spiccare sugli altri.
Il primo sarà quello del negoziato mondiale sul clima, che procede avanzando a stento, senza mai raggiungere i propri obiettivi.
L’altro sarà il processo di globalizzazione delle grandi imprese, che invece avanza spedito di vittoria in vittoria (…).
I tre pilastri su cui si fondano le politiche di questa nuova era li conosciamo bene: privatizzazione della sfera pubblica, deregolamentazione di tutte le attività di impresa e sgravi fiscali alle multinazionali, tutti pagati con tagli alla spesa statale.
Molto è stato scritto sui costi reali di queste politiche: l’instabilità dei mercati finanziari, gli eccessi dei super ricchi, la disperazione di poveri sempre più sfruttati, lo stato fallimentare di infrastrutture e servizi pubblici.
Pochissimo, invece, è stato scritto sul modo in cui il fondamentalismo del mercato, sin dai primi momenti, ha sabotato in maniera sistematica la nostra risposta collettiva al cambiamento climatico, una minaccia che si è profilata proprio quando quella ideologia era al suo apice.
Il problema centrale è che l’abbraccio mortale esercitato in questo periodo dalla logica di mercato sulla vita pubblica fa apparire le reazioni più ovvie e dirette alle questioni climatiche come un’eresia politica. Per fare un esempio: come si può investire massicciamente in servizi pubblici e infrastrutture a emissioni zero in un momento in cui la sfera pubblica viene sistematicamente smantellata e svenduta? I governi come possono regolamentare, tassare e penalizzare pesantemente le aziende di combustibili fossili in un momento in cui qualsiasi manovra del genere viene liquidata come un residuo di comunismo autoritario? E, infine, come si può dare sostegno e tutele al settore delle energie rinnovabili per sostituire i combustibili fossili quando «protezionismo» è diventata una parolaccia?
Se fosse stato diverso, il movimento per il clima avrebbe tentato di sfidare l’ideologia estrema che sta ostacolando tante azioni sensate, avrebbe unito le forze con altri settori per dimostrare che il potere delle corporation, lasciato senza freni, rappresenta una grave minaccia per l’abitabilità del pianeta.
Gran parte del movimento per il clima, invece, ha sprecato decenni preziosi nel tentativo di incastrare la chiave quadrata della crisi climatica nella toppa rotonda del «capitalismo deregolamentato», alla ricerca infinita di soluzioni al problema che fossero fornite dal mercato stesso.
Pasquale D'Ascola
Sto guardando il film; leggerò il dibattito. Segnalo che originale o no, il lavoro è anche o soprattutto in francese, per chi volesse, dico. E ho visto che ne esiste una versione in russo. Vabbè , torno al film.P.
stefania ruggeri
… Io credo che agli effetti della tecnologia tour court si associ purtroppo il percepibile senso di onnipotenza che dal suo utilizzo l’uomo – vanesio! – illisoriamente deriva. La tecnologia ha ampliato, potenziato, esteso, amplificato le nostre capacità e possibilità, da quelle meramente fisiche, a quelle mentali che ne discendono e/o viceversa.
Prodigiosi programmi neurolonguistici innestati nella mente o mirabolanti propaggini del corpo, gli “oggetti” della moderna tecnologia hanno di fatto profondamente mutato la MACCHINA UOMO, che – ebbra della propria novella potenza – pare visibilmente impazzita e impegnata in un frenetico, diuturno movimento (faster and faster: inutile a dirsi, l’input verso la velocità viene proprio da essa).
Talvolta, alla guida della mia auto, tra le auto, ho proprio la sensazione che abbiamo tutti tra le mani un’arma micidiale, per il cui utilizzo non eravamo pronti, se mai pronti si potesse esserlo.
L’automobile si muove infatti sfidando continuamente le leggi della fisica, della meccanica, della cinetica, del tempo. Il nostro corpo dentro di essa pure. Un solo attimo di sfasamento o spostamento di uno solo degli infiniti anelli della catena di eventi che essa genera e in cui è coinvolta può essere fatale, può spegnere una o più vite, può spegnere tutto…
E però l’automobile ci rende POTENTI, superando e surclassando i prodigi che le nostre gambe sono pur capaci di compiere, dotandoci anzi di gambe nuove, immensamente più efficaci e più capaci delle nostre.
Insomma, la gazzella non è più l’animale più veloce del mondo…
I più veloci siamo noi, come pure – grazie alle nostre propaggini tecnologiche – siamo quelli dotati della vista più acuta, dell’udito più fine, della forza maggiore… e infine della capacità di incidere massimamente e straordinariamente sull’ambiente che ci circonda.
E forse era ovvio che in simili condizioni ci ammalassimo di un esiziale delirio di onnipotenza, quello che ci ha portati oggi a scimmiottare dio, intendo dire il dio creatore, cioè infine a mio parere la Natura.
E la Natura non la stiamo anzi addirittura sfidando in un improbabile braccio di ferro?
Sì. Stiamo correndo verso il suicidio – chiudo lambendo il felice epilogo del professore Biuso -, per giunta faster and faster.
Io non amo i buonismi e non tollero le ipocrisie, ma sento “il dovere dell’ottimismo”. Allora, se guardo attraverso lo specchio l’homo sapiens che a sua volta mi guarda, abbasso gli occhi mestamente, illudendomi tuttavia che anche lui li abbia intanto abbassati mosso dal mio stesso sentimento.
E se si tratta di una pia illusione, pazienza…
diego
grazie dott.ssa Ruggeri e grazie a te, caro Alberto, per la risposta così articolata e comprensibile
in effetti ogni romantico richiamo al «buon selvaggio» è fuorviante (ho letto e riletto «Antropologia e Filosofia» fra i tuoi testi) e, in effetti, il punto chiave del film è l’espressione «faster and faster», quindi non l’affermazione che l’uomo moderno è peggiore di quello arcaico, ma, causa la tecnologia troppo «veloce», così rapido e intenso nelle sue attività da non concedere alla natura il tempo di riassorbire i danni provocati (portando al collasso del pianeta); quindi direi che la natura umana è sempre la stessa, ma effettivamente il salto tecnologico è un evento particolare con conseguenze particolari; mi pare che nel finale del film tenti anche di individuare la via d’uscita (un po’ ottimisticamente) attraverso l’uso della tecnologia stessa (per esempio fotovoltaico in alternativa al petrolio); grazie per la considerazione, immeritata, alle mie domande
stefania ruggeri
Desidero anch’io, assai più modestamente che il Professore, tentare di formulare una risposta al quesito sollevato da Diego. Sottolineo intanto che, se è pur vero – checché dicano quanti, a respingimento della pur ovvia tesi sull’esistenza di un preciso gruppo di “dirigenti delle organizzazioni criminali” (per dirla felicemente con il professore Biuso), invocano il suggestivo termine di COMPLOTTISMO – che l’attuale situazione di disastro è stata predeterminata (ma non a mio parere determinata) da “pochi e arricchiti esemplari” della specie umana, è credo parimenti innegabile che ricondurne soltanto a tali esemplari la responsabilità rischi di misconoscere il peso che ognuno di noi ha e anzi DEVE avere nel determinare le sorti del pianeta. Personalmente deriverei dall’adesione ad un tale punto di vista il senso di una asfissiante mia deresponsabilizzazione e, per ovvio contrappunto, il deterministico annientamento dei miei modesti quanto pervicaci tentativi di incidere positivamente nella situazione…
Nelle brevissime righe con le quali ho qui commentato il post del Professore, ho parlato della arretratezza di specie che emerge a mio parere dalla nostra avidità e soprattutto dal nostro bisogno di apparire, di strafare, di strapossedere… Io credo infatti che la nostra sia la tragedia dell’ESSERE sconfitto da una sorta di psicopatologica pulsione collettiva che ci spinge verso l’AVERE (non intendo con ciò scomodare Fromm). Una pulsione cui cediamo appunto come PAESANI IMPAZZITI…
I modelli di organizzazione politica ed economica sin qui adottati dall’umanità hanno più che fallito; eppure a pochi soltanto viene in mente di ABBANDONARLI e dirigere la prora ormai derivante ALTROVE…
Io credo di ravvisare nella filosofia dell’open sourcing – un’utopia!, quello di cui abbiamo appunto bisogno per non cedere le armi e tentare di resistere all’avversità degli elementi ricercando una nuova, salvifica META – quell’importante salto culturale attraverso cui finalmente il mito (quanto piccino!) dell’individuo possa cedere il passo al SENSO DELLA SPECIE e dovrei forse dire al SENSO DELL’ESSERCI. Essere cioè là dove è la vita. la vita.TUTTA. Tutto è infatti legato…
Lo ha ben compreso, ad esempio, l’eponimo fondatore della Khan University, la cui avventura suggerisco di indagare a quanti non la conoscessero.
Ringrazio dell’attenzione e della cortese ospitalità, di cui mi auguro non avere abusato.
SR
agbiuso
Caro Diego, l’argomento è certamente di grande interesse. Non c’è alcun dubbio che il modo di produzione capitalistico, coniugato alle possibilità consentite dalle tecnologie contemporanee, abbia velocizzato e intensificato enormemente la distruzione dell’ambiente. E tuttavia non sono d’accordo nell’attribuire soltanto a esso la responsabilità di quanto accade. E ciò per alcune ragioni che cerco di riassumere.
1. Contrariamente a molte leggende (roussoviane e anche ambientaliste) varie ricerche dimostrano che nessuna civiltà umana è stata ed è del tutto priva di rischi per l’habitat naturale. Un libro molto chiaro a questo proposito è Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens di Jared Diamond (Einaudi 1994). La domanda alla quale cerca di rispondere è questa: «Come l’uomo, un semplice mammifero di grossa taglia, sia diventato in breve tempo il conquistatore del mondo; e come abbia acquistato la capacità di rovesciare questo progresso dall’oggi al domani» (p. 9). Uno dei risultati a cui perviene è così riassunto «Oggi è chiaro che numerose società preindustriali hanno per migliaia di anni sterminato molte specie, distrutto l’habitat e minato la loro stessa esistenza. In alcuni fra gli esempi meglio documentati sono coinvolti polinesiani e amerindi, i popoli citati più spesso come modelli di ambientalismo» (387). E tutto ciò è detto da uno studioso attivamente impegnato nella protezione sia dell’ambiente sia delle popolazioni polinesiane, amerinde, aborigene. Diamond sottolinea, infatti, come l’olocausto ambientale non sia né una fantasia isterica, né un rischio contingente ma costituisca un evento che è già cominciato da 50.000 anni, che continua a ritmi sempre più veloci e che non sappiamo se sarà possibile fermare.
2. Uno dei fondamenti del marxismo è l’idea progressiva e prometeica dell’umanità padrona e signora della natura. Anche i regimi comunisti dunque, in questo fedeli esecutori del pensiero marxiano, hanno condiviso e condividono la frenesia produttivistica e la distruzione dell’ambiente in nome della crescita indefinita del Prodotto Interno Lordo. Lenin affermava, con la sua consueta icasticità, che il comunismo consiste nei «soviet più l’elettrificazione». I problemi ambientali dei paesi a regime comunista sono stati e sono anch’essi enormi (cfr. la Cina).
3. L’universalità del culto verso ‘il Progresso’ che accomuna capitalismo e comunismo sta nella struttura antropocentrica di entrambi. Una delle radici del capitalismo è il cristianesimo calvinista (credo che Weber su questo punto abbia proprio ragione) e del comunismo l’idea prometeica dell’essere umano superiore a ogni altra specie. Ma se simili paradigmi sono così pervasivi, lo si deve secondo me a qualcosa di più radicale e che consiste nella capacità biologica e filogenetica dell’Homo sapiens di occupare qualunque nicchia ecologica, in essa installarsi, sfruttarne per intero le risorse e passare altrove. Ma quando non ci sarà più dove andare, allora sarà finita.
4. Naturalmente tutto questo non solleva in nessun caso da tutte le loro enormi responsabilità coloro che ho definito nel testo i «dirigenti delle più grandi organizzazioni criminali» vale a dire i capi del sistema capitalistico: politici, banchieri, militari, tecnici e scienziati al loro servizio. E dunque alla questione che poni -«se noi attribuiamo il disastro alla specie, non rischiamo di velare le responsabilità specifiche di pochi (e arricchiti) esemplari della specie stessa?»- la mia risposta è no, non corriamo questo rischio ma cerchiamo di comprenderne ancor meglio la pericolosità, proprio perché tali responsabilità affondano nella vicenda filogenetica della specie.
5. L’ovvia e pratica conseguenza di tutto questo è che chi si mostra consapevole di tali rischi e ne attribuisce la pervasività, come tu giustamente fai, al sistema capitalistico dominante deve non soltanto astenersi dal sostegno ai regimi politici e ai governi che se ne fanno promotori, tra i quali certamente quello italiano in carica e quelli che lo hanno preceduto, ma dovrebbe anche criticarlo in maniera costante e profonda.
Ti ringrazio per l’occasione che mi hai dato di chiarire meglio il mio pensiero.
diego
Caro Alberto, vorrei porre una domanda a te ed implicitamente alla dottoressa Ruggeri, riguardo l’approccio a questi temi. All’inizio del film (che ho visto per intero e magari ci torneremo su) si ricorda giustamente come la specie umana è stata cacciatrice e raccoglitrice per circa 190 mila anni e soltanto negli ultimi 10 mila, dalla rivoluzione agricola, si è incardinato uno sviluppo di civiltà organizzate, con tuttele conseguenze nel bene e nel male. Ma il vero punto di svolta, la rottura devastante, è stato l’avvento dei combustibili fossili e l’immissione irresponsabile di CO2 nell’atmosfera. Allora mi domando: dato che molti scienziati avvertono l’imminente catastrofe non è forse giusto pensare che essa non sia causata dall’ uomo come specie, ma dal sistema economico capitalistico finanziario, asservito ad una legge del profitto «costi quel che costi». La tecnologia già oggi permetterebbe di fare a meno del petrolio e non sarebbe neanche sconveniente in termini economici se i costi ambientali venissero aggregati ai bilanci lucrosi della finanza. Economia, da oikos, gestione della casa, cioè economia come gestione del pianeta, la nostra casa. Qualche raro statunitense che pensa (Rifkin) queste cose le dice. Dunque mi domando: se noi attribuiamo il disastro alla specie, non rischiamo di velare le responsabilità specifiche di pochi (e arricchiti) esemplari della specie stessa? Son stato lungo, ma spero l’argomento sia di un qualche interesse.
diegod56
per motivi di tempo, ho potuto seguirne solo metà, per ora, ma debbo confermare che è un film davvero interessante, di grande valore iconografico ed estetico, molto pregnante come tematica, forse sono concetti non nuovi, ma esporli così è molto utile in termini divulgativi
stefania ruggeri
Faster and faster… Dà la misura della nostra arretratezza di specie. Rozzi siamo, bramosi, avidi come chi provenga da lunghe privazioni e stenti. Per dirla con una metafora tutta e solo culturale, siamo PAESANI, paesani impazziti, siamo i paesani della vita, del pianeta e forse anche del cosmo.
Mentre noi infatti ci agitiamo ora grotteschi
ora meschini nell’essere e nell’esistere e nel mondo, gli animali brucano l’erba masticando indolenti e senza manco degnarci di uno sguardo.
Grazie, Professore, per aver fatto risuonare una mia nota…