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Milano

Milano tra le due guerre
Alla scoperta della città dei Navigli attraverso le fotografie di Arnaldo Chierichetti

Palazzo Morando / Museo di Milano
Sino al 13 febbraio 2014


Chierichetti_Milano_tra_due_guerre
Non come Venezia ma simile alla città pervasa dalle acque. Così Milano è stata ed è apparsa per secoli, sino a quando una delle tante stolte decisioni d’epoca fascista interrò la cerchia dei Navigli. Poi arrivarono anche i bombardamenti anglo-americani a radere al suolo palazzi e quartieri. Ma durante questi attacchi alla città sembra che i milanesi dicessero: «Cossa gh’é de piang? Se ved propi che si mai staa a Pompei». Un’ironia che ha permesso ancora una volta a Milano di rinascere e a molti di ripetere le parole dedicatele da Stendhal: «Questa città divenne per me il più bel luogo della terra». Non pochi milanesi fanno fatica a capire come si possa amare così la loro città. Una risposta l’ha data Vittorio Sereni. Forse bisogna infatti venire dalla provincia lombarda -come questo poeta- o essere nati in un paesino, magari del Sud, per invitare a meditare su «cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi 1980, p. 67). La città aiuta a redimersi da questo diventare nulla; lo fa anche attraversando «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (Ivi, p. 21).
Bellissima immagine che si fa figura nelle fotografie che Arnaldo Chierichetti dedicò alla città. Le acque di Milano, i suoi spazi, il vento, la luce riflessa dagli edifici e le nebbie attraversate dagli ultimi brumisti diventano vedute, tagli, documento. Diventano, quando l’oggetto delle fotografie sono i Navigli, «la quintessenza stessa del rimpianto».
Ma la potenza della struttura urbana inventata dagli umani circa dieci millenni fa -luogo finalmente di una conquistata identità rispetto alle instancabili differenze del nomadismo- permette anche a Milano, come alle altre città del mondo, di mutare incessantemente e tuttavia rimanere sempre quello spazio intimo e aperto, riservato e rutilante, grigio e fastoso, che anche queste immagini testimoniano.

 

4 commenti

  • Pasquale D'Ascola

    Febbraio 8, 2014

    Ok adesso piango. È l’ora. Con permesso. P.

  • diegod56

    Febbraio 8, 2014

    Riporto, cari amici, un mio racconto dedicato alla zia che avevo a MIlano

    Per le feste, arrivava la zia Piera. Era immancabile, ad un certo punto dell’inverno, andare alla stazione a prenderla. Fischiava, all’uscita della galleria, il treno da Milano. Quando le carrozze gemevano per il freno, dal finestrino, quasi sempre, il suo viso tondo, il rossetto vivo, i suoi guanti li vedevo subito. A casa della nonna, questa zia dall’accento diverso, apriva i suoi pacchetti, srotolava stoffe fruscianti sul tavolo, che mia mamma, sarta, accoglieva con una piccola ovazione, già immaginandole trasformate in bei vestiti da donna, con la vita molto stretta, come usava i primi anni sessanta. Mentre si cambiava, mi chiamava un attimo in disparte e per me c’era una mancia favolosa, rispetto al rigore sobrio dei miei. Era bello, a tavola, ascoltare le vicende di vita, le storie condite di malizia, nel suo accento diventato milanese. In realtà seppi più tardi della vita dura, in fabbrica, delle mille insidie di una vedova giovane nella giungla della grande città. Ma allora, era tutto bello, tutto ricco, tutto milanese ciò che faceva ridere la tavolata. Non tutte le battute le capivo, perchè ero un bimbo di allora, di quelli che non sapevano niente. Dopo la befana, alla stazione, grandi saluti e, mentre il treno stiracchiando e gemendo sui binari partiva per Milano, dai suoi occhi, sul viso tondo e allegro, lacrime di commozione. Non sapeva trattenersi, era grande in tutto, era milanese, almeno per me.

  • agbiuso

    Febbraio 8, 2014

    Questo magnifico e dolente ritratto di Milano è il dono che hai voluto fare a me e al sito, caro Pasquale. Grazie di cuore per la splendida scrittura che sa volgere in figure la memoria e dell’indignazione fa poesia.
    Era un’altra città, non v’è dubbio. Perché era un’altra Italia e uomini diversi. Ora gli individui e le collettività sono esattamente ciò che descrivono la tua arte e la tua furia (e il nome di Gadda a me sorge inesorabile nel leggerti, ma non è Gadda, è D’Ascola). E tuttavia pensa a come deve essere grande un luogo per apparire ancora così bello e intimo e lucente a chi lo guarda senza aver saputo la sostanza che prima lo intrideva, come io non so.
    Tu puoi fare un paragone con un’altra Milano e te ne piangi. Io porto dentro di me e vivo lo splendore di Sicilia ma anche la micragneria senza passato e senza futuro di certi angoli dell’Isola. A Milano ho trovato quello che cercavo più che altrove. Pur con tutti i suoi limiti e il proliferare senza requie di ganassa. Ho trovato soprattutto dei milanesi accoglienti, colti, ironici e fattivi. E ho trovato degli artisti come te.

  • Pasquale D'Ascola

    Febbraio 8, 2014

    Oìmoi oìmoi Alberto caro, la città di cui dici non c’è più, cancellata un po’ dagli sconci del piccolo cafone di piazza venezia; fosse nato qualche tempo più tardi avrebbe fatto edificare lui le villette con le tapparelle, gli infissi anodizzati e le ringhiere elettrosaldate in stile; molto distrutta dai bombardamenti; ricordo ancora le file di case minime per i sinistrati che correvano da piazza San Francesco a piazza San Nereo prima del ponte dell’ortica; moltissimo dalla famelica volontà devastatrice di architetti compiacenti con gli impresari e compiaciuti della loro bassa ignoranza di architettura moderna, la stessa che invece costruì e costruisce in Francia e ricostruì in Germania. So benissimo che Milano avrebbe potuto diventare un posto delizioso di brume e lumi crepuscolari, viali e costruzioni belle come quelle che punteggiarono dal 1910 in poi le periferie- viale Romagna, Città studi – oggi sottoposte alla libidine di proprietari senza vergogna. In Cina qualche tempo fa li avrebbero fucilati come nemici del popolo. Tu non c’eri qui quando ci si perdeva al mattino nella nebbia più bella e non si vedevano le luci del tram per andare a scuola. Nè quando si chiedevano ai vigili i gettoni per telefonare alla mamma, ci fossimo attardati fuori di scuola a giocare. Né hai visto cose, che di sicuro hai visto a Bronte, il magazzino di grano e stoccafissi in piazza Santo Stefano; non, credo, le birrerie come a Vienna, una era in viale Tunisia e i camerierie erano tutti triestini; i locali per intellettuali affogati tra le macerie ancora di via Santa Marta e via Torino, tutti posti dove si andava mangiare e bere per 50/100 lire. Fino all’alba. Non hai potuto sentire cantare al Brambillone di Quarto Oggiaro la coppia di un soubrette ritinta e un pianista cieco. Credo sapessero solo una canzone, CIribirin che ben faccin che naso fin da malandrin. E poi non sai che nell’orrida oggi via Falcone, dietro il tiburio rinascimentale di una delle più belle chiese del mondo, quella che io credevo una strega, friggeva krafen nella dizione meneghina, di bontà devastante in un antro nero d’unto, bellissimo; accanto, in via Speronari, una latteria tutta mattonelle bianche e profumata di segatura e candeggina in inverno, serviva il lattemiele, cioè la panna montata alla frusta e il melange, ovvero un bicchierone di cioccolata sottomessa a spatolate appunto di panna. Andarci a merenda era premio per qualche successo scolastico. Trascorro sulle prostitute anziane di via Pozzone che ti inseguivano roteando la borsetta se per caso rispondevi male ai loro segnali di seduzione. Nel mio odio per quella che è diventata una città prima da bere poi bevuta, dalle figlie di craxi, dai giovanotti mondani meccanici, dall’anoressia di tristi australiane, e dallo sfruttamento bulimico del territorio, di lottizzazioni selvagge miliardarie, di mendicanti e uccisione della memoria, del tempo dello spazio, la dico tutta, del bello, del bello modesto, a occhi bassi che era un segno distintivo della città, città di sciuri che non si ostentavano, di non sciuri che lavoravano tutti, vivevano persino, tra le locomotive, su è giù per via Tortona tra le case di ringhiera; tutti manzoniani, tutti un po’ luterani, tanto da farsi la loro chiesa subito i milanesi, prima di Lutero, con Sant’Ambrogio. La odio perché mi costringe al rimpianto, la odio perché come Bohème mi costringe a commuovermi dei miei ricordi, belli sì. Morte stagioni, la presente e viva non ha che il suono dei televisori in metropolitana. Chiudo con un accenno al fascistissimo, Stramilano, esse ti erre a emme i elle a enne o, vai lontano, a Parigi con l’autostrada a Berlino in metròòò. Bracchi D’Anzi.
    Un saluto dalle Alpi. P.

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