Pollock e gli irascibili
La Scuola di New York
Palazzo Reale – Milano
A cura di Carter E. Foster e Luca Beatrice
Sino al 16 febbraio 2014
Che cos’è un dipinto? Che cosa un brano musicale? O una poesia? Impasti di materia su un qualche supporto, tela o altro. Movimenti di tasti battuti, corde pizzicate, tubi nei quali viene spinta dell’aria. Inchiostro o pixel distribuiti nello spazio. E basta? Robert Motherwell, uno dei pittori in mostra, afferma che «la pittura è la mente che realizza se stessa nel colore e nello spazio». Sì, è questo. E non soltanto la pittura ma tutte le arti. Della musica si potrebbe infatti dire che essa “è la mente che realizza se stessa nei suoni e nel tempo”. E quindi la grandezza della pittura cosiddetta astratta sta nel liberarsi da ogni ingenua illusione realistica, da ogni enfatica descrizione del mondo, da ogni pretesa fotografica, per invece cogliere e cercare di esprimere il modo in cui la realtà si struttura come costruzione della mente.
Le tecniche utilizzate da Jackson Pollock e dagli altri artisti che negli anni Cinquanta del Novecento intuirono che l’arte è altro rispetto a ogni figurazione, queste loro maniere di dipingere sono non il senso della loro opera ma dei semplici strumenti inventati allo scopo di trasmettere la vibrazione semantica che la pittura e le altre arti sono. È anche per questa loro natura così interiore e mentalistica che le riproduzioni di tali opere -per quanto di qualità- non possono restituirne il senso. L’occasione quindi di accostarsi fisicamente a esse non va perduta. Soltanto avendolo di fronte si comprende quanto Number 27 di Pollock sia un dipinto pensato e costruito sulla base della profondità e della prospettiva che avvolgono chi gli sta davanti in una vera avventura dello sguardo. Analogo lavoro la mente compie rispetto a Universal Field di Mark Tobey: una fitta scrittura iconica fatta di geroglifici dalla quale sembra deflagrare la pura energia della materia.
Esplosione che continua in Addition II di Louis Morris, le cui forme e intensissimi colori somigliano a quelli della sezione conclusiva di 2001. Odissea nello spazio, in particolare la colonna verde che scende dall’alto. Energia che sembra placarsi nella quasi monocromatica Promessa di Barnett Newman -un magnifico nero sul quale si stagliano due righe che sembrano somigliarsi ma che sono assai diverse tra di loro- e nei segni neri/bianchi di Franz Kline. Simili a tali segni è il Landscape Abstract di De Kooning, la cui dinamica è tuttavia assai più aerea, come se fosse il lieve inizio di ciò che in Kline diventa l’arduo spessore del colore.
Splendide nella loro semplice complessità mi sono sembrate le due opere di Sam Francis in mostra: Abstraction e Senza titolo (1956). Il bianco occupa quasi per intero la tela. Soltanto ai lati o in alto colano dei colori forti e infantili, come l’eco della pienezza che può sempre riempire le nostre vite. «Vi sono tante aurore che ancora devono splendere» (Rigveda).