Martin Heidegger
IDENTITÀ E DIFFERENZA
(Identität und Differenz, 1957: Der Satz der Identität; Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik)
Trad. di Giovanni Gurisatti
Adelphi, 2009
Pagine 101
L’identità non è uguaglianza. Per la seconda sono necessari due termini, per la prima ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare» (p. 58). Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si coappartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale coappartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda.
È certo «singolare», come riconosce Heidegger, che l’ente e l’essere vengano trovati a partire dalla loro differenza e nella differenza. Ed è proprio tale condizione a rendere del tutto inadeguata la struttura linguistica soggetto/oggetto che domina il Moderno, avendo la sua radice nella concezione dell’umano quale animal rationale. “Soggetto” e “oggetto”, infatti,
sono già il prodotto di una specifica caratterizzazione dell’essere. Chiaro è soltanto il fatto che nel caso sia dell’essere dell’ente sia dell’ente dell’essere si tratta ogni volta di una differenza. Ne deriva che noi pensiamo l’essere in modo aderente alla cosa solo se lo pensiamo nella differenza dall’ente, e quest’ultimo nella differenza dall’essere. Soltanto così la differenza balza propriamente agli occhi. Se però tentiamo di rappresentarla ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto. (80)
Numerosi sono i modi nei quali il pensiero ha dispiegato l’oblio della differenza tra essere ed enti. È tale dimenticanza della differenza (Vergessenheit) -e non soltanto la differenza- che Heidegger intende pensare.
Un oblio che si è di volta in volta manifestato come «Fu@siv Lo@gov, çEn, Ide@a, Ene@rgeia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di potenza, volontà di volontà» (87). In tutte queste determinazioni la metafisica mostra se stessa non soltanto come oblio della differenza ma anche come onto-teo-logia, che guarda o al fondamento comune degli enti (onto-logica) oppure alla totalità dell’ente supremo che fonda ogni cosa (teo-logica).
La concezione rappresentazionale dell’essere e l’oblio della differenza -in una parola la metafisica- arrivano per Heidegger al culmine nella tecnica, intesa come legittimazione del dominio di uno degli enti, l’umano, sull’intero.
Ma dov’è deciso che la natura come tale debba rimanere per ogni futuro la natura della fisica moderna, e che la storia debba presentarsi solo come oggetto della storiografia? È vero che non possiamo rigettare il mondo tecnico attuale come opera del demonio e che non ci è lecito distruggerlo, ammesso che non lo faccia da sé. Ancora meno, però, dobbiamo abbandonarci all’opinione che il mondo tecnico sia tale da impedire in assoluto un saltare via da esso. Questa opinione considera l’attualità, da cui è ossessionata, anche come l’unica realtà (50).
Tecnica, umanità, storia, natura, sono tutte strutture con le quali la metafisica tenta di rendere stabile il divenire. «Pensata in base alla cosa indicata, la parola Ereignis, “evento”, deve parlare come parola-guida al servizio del pensiero. In quanto parola-guida così pensata essa è intraducibile al pari della parola-guida greca lo@gov o della parola cinese tao» (44). Nell’Ereignis identità e differenza accadono e si coappartengono. Ed è esattamente questo ciò che Heidegger cerca di pensare: «in che senso la differenza derivi dall’essenza dell’identità». Se questo avviene è perché il tempo è la differenza rispetto al nulla e all’eterno, il movimento è la differenza rispetto alla stasi.
Essere, identità, differenza, permanenza, mutamento, sono le parole esatte con le quali Platone ha indicato nel Sofista il progetto di pensiero della filosofia europea. Che quindi in Platone fosse già in atto l’oblio della differenza, come ritiene Heidegger, mi sembra discutibile. Assai più evidente è che tale oblio sia presente in Hegel, per il quale «la cosa del pensiero (Denken) è il pensiero (Gedanke) in quanto concetto assoluto. Per noi, invece, con una denominazione provvisoria, la cosa del pensiero è la differenza in quanto differenza» (60).
Lo sforzo di Heidegger consiste nel confrontarsi con la lunga vicenda di questo oblio della differenza, sapendo bene due cose. La prima è che «la difficoltà sta nel linguaggio. Le nostre lingue occidentali sono, ciascuna in modo diverso, lingue del pensiero metafisico» (97). La seconda è che la tradizione è ancora da pensare, poiché «soltanto quando, pensando, ci rivolgiamo al già pensato siamo sempre impiegati per ciò che è ancora da pensare» (51). Lasciandosi guidare da tali consapevolezze Heidegger cerca, nonostante tutto, di praticare una filosofia che «in quanto pensiero, sia il libero lasciarsi coinvolgere, che si compie spontaneamente da sé, nell’ente in quanto tale» (72), una filosofia che sia Gelassenheit: un abbandono della mente alle cose stesse che sappia cogliere la propria identità e differenza con le cose.