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19 commenti

  • agbiuso

    Maggio 13, 2015

    Il 14 maggio 2015 Valeria Pinto terrà a Catania un incontro dal titolo La bêtise: valutazione e governo della conoscenza.

  • agbiuso

    Settembre 25, 2014

    “L’Europa non può materializzarsi solo attraverso le insensate politiche economiche dell’austerità, ma bisogna sempre ricordare che le fondamenta del progetto europeo sono nella cultura comune e nella solidarietà tra i diversi paesi: solo ripartendo da qui si potrà evitare la catastrofe che sembra sempre più imminente”.

    Così Francesco Sylos Labini conclude una sua breve riflessione su quanto sta accadendo anche in Francia e Portogallo, dopo aver toccato altri Paesi europei.
    Un impulso suicida sembra essersi impossessato dei decisori politici, condizionati totalmente dai padroni della finanza.

  • Biuso

    Settembre 24, 2014

    Caro Diego, mi regolerei secondo questi criteri:
    – l’interesse anzitutto, nel senso che consiglieri a mio figlio di tenere conto in primo luogo delle sue passioni intellettuali, culturali, professionali;
    – la situazione logistica, certamente. Studiare è impegnativo e bisogna cercare di farlo nelle condizioni migliori, sia dal punto di vista della sistemazione (città che piacciano, alloggi funzionali, eventuali compagnie) sia dei sentimenti (lontananza dall’ambiente di partenza e altro);
    – cercherei di ottenere notizie dirette da persone che frequentano i vari atenei e dipartimenti, il passaparola è sempre un dato importante;
    – gli consiglierei infine -ma è decisivo- di visitare con molta accuratezza i siti dei vari Atenei in ballo e soprattutto dei Dipartimenti, scaricando e leggendo con molta attenzione i documenti con i piani di studio, gli obiettivi didattici e professionali, i programmi svolti negli anni precedenti, i CV dei singoli docenti, le loro pagine personali. Tutto ciò, insomma, che si può trovare in rete sia di ufficiale che di ufficioso;
    -nell’anno accademico precedente farei delle visite ai diversi Atenei, osservando le strutture, sentendo il clima che vi si respira, seguendo alcune lezioni.
    Farei questo e altro di analogo.

  • diego

    Settembre 24, 2014

    Avrei una domanda, caro Alberto, tu che sei un docente molto apprezzato (dagli studenti ma anche dai colleghi e dai lettori dei tuoi libri) cosa consigli, come puo’ un cittadino non addentro alle questioni universitarie scegliere o valutare una facoltà? Per fare un esempio, se mio figlio a Spezia vuole studiare la matematica oppure la filosofia o qualunque altra disciplina, come fa a sapere se è meglio Pisa, Genova o Parma? In genere i figli nostri scelgono in base a questioni logistiche (disponibilità di treni, clima, costo degli alloggi) e in verità nessuno ha idee chiare sulla qualità «intrinseca» dell’ateneo. Se tu avessi figli come ti regoleresti, in concreto?

  • agbiuso

    Settembre 24, 2014

    Consiglio la lettura di un breve e gustosissimo articolo che pone a confronto i numeri delle classifiche universitarie e i numeri del Lotto:

    Nonno Gustavo e le classifiche di università e il “prezzo dei numeri”
    di Marco Bella, Roars, 24 settembre 2014

  • agbiuso

    Settembre 17, 2014

    Caro Dario,
    ti ringrazio per l’apprezzamento e soprattutto per la giusta e doverosa durezza verso l’arroganza dell’Anvur e la cialtroneria di Renzi, ennesima ripetizione di un destino dal quale sembra che l’Italia non possa liberarsi.
    Mi spiace per i figli, per i nipoti, ai quali i padri -sostenendo le scelte politiche e culturali di simili personaggi, partiti, governi- rubano il futuro.

  • Dario Generali

    Settembre 17, 2014

    Caro Alberto,

    ottimo il libro di Valeria Pinto, che è largamente condivisibile, e ottima la tua recensione, che ne illustra perfettamente analisi e tesi.
    Il processo di valutazione della ricerca dell’Anvur è semplicemente aberrante, sia per le logiche che segue, sia per le mistificazioni che compie nell’accreditare come sedi di alto valore scientifico riviste divulgative e persino confessionali, di livelli non diversi da un bollettino parrocchiale. Non credo che valga la pena spendere molte parole su quanto è di per se stesso evidente a chiunque abbia un minimo di ragionevolezza e di onestà intellettuale.
    Pure del tutto condivisibile appare l’articolo di Anna Angelucci sul “Manifesto”, che denuncia l’assoluta idiozia delle proposte di riforma della scuola di Renzi e del suo governo di pretoriani incompetenti e arroganti.
    Velleitarismi, assurdità e deliberate destrutturazioni della scuola pubblica delle ormai numerose riforme che si sono susseguite negli ultimi vent’anni, da Berlinguer a Gelmini, qui assumono ormai il ridicolo di forme linguistiche e contenuti adatti allo spettacolo di un comico che si pone il fine di ottenere l’ilarità del pubblico attraverso l’esibizione di una sua radicale stupidità e decontestualizzazione.
    Vedere un simile cialtrone al governo del paese dà il segno – come l’ha dato nei decenni passati la presenza in analoga posizione di un altrettanto buffone – dell’incredibile degrado del paese e della maggioranza della sua popolazione, che continua ad accordare il proprio consenso a simili personaggi.
    Un caro saluto.
    Dario

  • agbiuso

    Settembre 16, 2014

    La politica scolastica del governo Partito Democratico / Nuovo Centro Destra è davvero la sintesi dell’ideologia ultraliberistica e americanista che sta distruggendo l’Europa.
    Io non ho figli (a questo punto direi “per fortuna”) ma invito chi li ha o li avrà a riflettere sugli abissi di ignoranza e di servitù ai quali il futuro li destina, se non si farà qualcosa per fermare questo piano inclinato.

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    Back to school con Renzi l’americano
    Anna Angelucci, il manifesto 16.9.2014

    Rem tene, verba sequen­tur, si diceva tanto tempo fa. E allora ana­liz­ziamo le parole e rico­struiamo indut­ti­va­mente il para­digma cul­tu­rale sot­teso alla recente pro­po­sta del Governo sulla scuola.

    Il docu­mento, da sot­to­porre nei pros­simi due mesi a con­sul­ta­zione online e offline, è tutto un flo­ri­le­gio di angli­smi: la scuola deve uscire dalla com­fort zone e diven­tare l’avamposto del rilan­cio del made in Italy. Dotarsi di inse­gnanti men­tor capaci di pro­porre for­ma­zione online ma anche blen­ded. Pro­durre piat­ta­forme spe­ri­men­tali con un design chal­lenge lan­ciato pre­sto­daun hac­ka­ton mirante alla crea­zione di una app. Attrez­zarsi per sfide di gover­nance e policy a colpi di data school nazio­nali, design di ser­vizi e ope­ning up edu­ca­tion, ovvia­mente rife­rita alle best prac­ti­ces.

    Ma non basta: final­mente arriva la good law e il nud­ging sbarca al Miur per­ché «assi­cu­rare piena com­pren­sione e chia­rezza su quanto il Miur pub­blica è un’azione di aper­tura e tra­spa­renza di pari dignità rispetto all’apertura dei dati».

    La buona scuola pro­muove il CLIL, cioè il Con­tent and Lan­guage Inte­gra­ted Lear­ning, e alle ele­men­tari inse­gna il coding attra­verso la gami­fi­ca­tion. Valo­rizza il pro­blem sol­ving, il deci­sion making e, ove neces­sa­rio, poten­zia l’agri-business. Gli stu­denti diven­te­ranno digi­tal makers, si supe­rerà il digi­tal divide e riu­sci­remo a intrat­te­nere gli early lea­vers, ovvero quei «gio­vani disaf­fe­zio­nati» (sic) che la scuola oggi non rie­sce a tenere con sé. Per fare que­sto adotta il BYOD, bring your own device, ovvero «por­tati il tuo pc da casa». Ma, non paga, la buona scuola del governo pro­porrà school bonus, school gua­ran­tee, cro­w­d­fun­ding, emet­tendo all’occorrenza social impact bonds a bene­fi­cio dei pri­vati che vor­ranno appro­fit­tare del suc­cu­lento ban­chetto dell’istruzione imban­dito da Renzi. Good appe­tite.

    Ma l’anglofilia del docu­mento non si esau­ri­sce nella patina les­si­cale e nel regi­stro lin­gui­stico. La buona scuola di Renzi è quella ame­ri­cana, auto­noma nell’organizzazione, nella didat­tica e nei finan­zia­menti. È la scuola intesa non come isti­tu­zione della Repub­blica, costi­tu­zio­nal­mente garan­tita a tutti e che offre pari oppor­tu­nità di accesso cri­tico alla cono­scenza e al sapere, bensì come espres­sione dif­fe­ren­ziata, cul­tu­ral­mente mar­cata e com­pe­ti­tiva, delle realtà e delle comu­nità locali: la scuola che si fa il suo pro­getto for­ma­tivo e si cerca sul mer­cato qual­cuno che abbia inte­resse a pagarlo.

    La scuola, in Ame­rica, è nata prima degli Stati Uniti, quando i coloni strap­pa­vano le terre ai Nativi e costrui­vano pri­gioni e saloon. Comi­tati locali le orga­niz­za­vano, spesso in case pri­vate, si pro­cu­ra­vano gli inse­gnanti, met­te­vano a dispo­si­zione i libri e la Bib­bia non man­cava mai. Oggi i comi­tati si chia­mano Con­si­gli Diret­tivi, sono com­po­sti da cit­ta­dini eletti e man­ten­gono gli stessi com­piti: adot­tano pro­grammi didat­tici e gesti­scono il bilan­cio. L’autonomia sco­la­stica con­sente alle fami­glie ame­ri­cane il con­trollo sui con­te­nuti dell’insegnamento — in Lou­siana e nel Ten­nes­see, la lobby crea­zio­ni­sta osta­cola tena­ce­mente l’insegnamento dell’evoluzionismo — e per­mette ai fun­zio­nari eletti di imporre con­te­nuti e metodi di inse­gna­mento nei loro distretti scolastici.

    La fram­men­ta­zione della scuola pub­blica ame­ri­cana ha pro­dotto e pro­duce risul­tati sco­la­stici così sca­denti da indurre oggi il Con­gresso a forme di con­trollo cen­tra­liz­zato ex post. Stan­dard e obiet­tivi di appren­di­mento nazio­nali da misu­rare con bat­te­rie di test dai cui risul­tati dipende la soprav­vi­venza o la chiu­sura delle scuole. Un rime­dio peg­giore del male, per­ché tra­sforma l’insegnamento in adde­stra­mento e, soprat­tutto, non sol­leva gli stu­denti ame­ri­cani dalle ultime posi­zioni nelle clas­si­fi­che inter­na­zio­nali. La buona scuola di Renzi è quella di un paese, l’America, in cui le scuole migliori sono pri­vate e costo­sis­sime; un paese in cui anche le scuole pub­bli­che, finan­ziate con la fisca­lità muni­ci­pale, pos­sono avere rette molto ele­vate e dove le più acces­si­bili si tro­vano nei quar­tieri depri­vati e accol­gono i poveri, gli svan­tag­giati, i discri­mi­nati. Un paese in cui la dispa­rità eco­no­mica è diret­ta­mente pro­por­zio­nale alla dispa­rità educativa.

    C’è un pas­sag­gio, nel docu­mento, in cui si dice che «ogni scuola dovrà avere la pos­si­bi­lità di schie­rare la squa­dra con cui gio­care la par­tita dell’istruzione», ossia la libertà di sce­gliere i docenti che riterrà «più adatti» per rea­liz­zare la pro­pria offerta for­ma­tiva. La meta­fora cal­ci­stica di ber­lu­sco­niana memo­ria, rivela esat­ta­mente qual è la dire­zione del governo: por­tare a com­pi­mento il pro­cesso di pri­va­tiz­za­zione della gestione della scuola intra­preso da Ber­lin­guer con la legge sull’autonomia e, con­tem­po­ra­nea­mente, com­ple­tare il per­corso di arre­tra­mento dello stato inau­gu­rato da Tre­monti, fino alla com­pleta dismis­sione della scuola pub­blica. Il preside-manager, costan­te­mente in cerca di spon­sor per finan­ziare la sua scuola, sce­glierà e licen­zierà discre­zio­nal­mente i suoi docenti, affian­cato in que­sto da un nucleo di valu­ta­zione in cui la pre­senza di esterni garan­tirà forme di con­trollo politico-culturale ma soprat­tutto il ritorno eco­no­mico degli inve­sti­menti pri­vati. L’esperienza di Chan­nel One, che in Ame­rica ha un con­tratto con 12.000 scuole, impo­nendo a milioni di stu­denti in classe dosi quo­ti­diane della sua pro­gram­ma­zione tele­vi­siva e pub­bli­ci­ta­ria, dovrebbe indurre i cit­ta­dini ita­liani a una rifles­sione seria.

    Il resto del docu­mento è pura dema­go­gia. La pro­po­sta del ser­vi­zio civile a scuola, la col­la­bo­ra­zione con il terzo set­tore, l’ingresso del volon­ta­riato: un omag­gio dell’esecutivo a certa cul­tura scou­ti­sta e demo­cri­stiana; il rife­ri­mento alla sus­si­dia­rietà, una striz­zata d’occhio a Com­pa­gnia delle Opere e a Comu­nione e Liberazione.

    E infine, l’impegno di assun­zione di 150.000 pre­cari nel 2015, accom­pa­gnato dall’ignobile ricatto a milioni di inse­gnanti di ruolo che impone di rinun­ciare al loro attuale sta­tus giu­ri­dico e di restare inchio­dati fino alla pen­sione al loro mise­re­vole sti­pen­dio ini­ziale. Un impe­gno spac­ciato come scelta e come testi­mo­nianza della volontà del governo di inve­stire nella scuola, in realtà ine­lu­di­bil­mente impo­sto dalla pro­ce­dura d’infrazione avviata a Bru­xel­les con­tro l’Italia per la vio­la­zione della nor­ma­tiva comu­ni­ta­ria sulla rei­te­ra­zione dei con­tratti a termine.

    Una pro­messa da far tre­mare i polsi in tempi di tagli dra­co­niani e di riforme feu­dali impo­ste dalla Troika: ma forse, l’ennesima vel­leità di chi, assai peri­co­lo­sa­mente, «vuo’ fa’ l’americano».

    * Asso­cia­zione Nazio­nale Per la Scuola della Repubblica

  • agbiuso

    Settembre 14, 2014

    Roars ha pubblicato la versione integrale dell’intervista a Valeria Pinto.
    Mi sembrano particolarmente rilevanti:
    – il riferimento alla efficace (e terribile) metafora di Chomsky della “rana bollita”;
    – il significativo ricorso nella scuola -ormai da molti anni- al linguaggio bancario dei “debiti e crediti formativi“, le parole sono sempre cose;
    – la piena adesione del governo del Partito Democratico / Nuovo Centro Destra a una visione ultraliberista della scuola (credo che questo sia uno dei più gravi tradimenti che questo partito ha perpetrato rispetto alla propria storia);
    – il vero obiettivo di tutto il processo: “Tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale”.

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    Valutare e punire nella scuola di Matteo Renzi
    di Roberto Ciccarelli e Valeria Pinto, Roars, 14 settembre 2014

    Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi? Quali le analogie con l’università? Perché nel mondo della scuola la parola “merito” produce di regola risposte difensive? Come viene ridisegnato il ruolo dei Presidi-Manager? Come mai dagli anni ’80 ad oggi l’istruzione è oggetto di un vero e proprio bombardamento a suon di riforme? La sollecitazione di un coinvolgimento dal basso segna un cambiamento di tendenza? Si va delineando una linea strategica e, se sì, quale? Su questi temi Roberto Ciccarelli intervista Valeria Pinto, l’autrice di “Valutare e Punire”. Una sintesi dell’intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 3.9.2014.

    Roberto Ciccarelli: «Il “patto educativo” di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca “Valutare e punire” (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».

    Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi?

    Valeria Pinto: È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi «preposti». Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i quelli dei cosiddetti «portatori di interessi», interessi che, alla fine, sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende. Anche nell’università la valutazione costituisce ormai l’architrave istituzionale e il nuovo luogo di potere: una concentrazione mai vista prima. Essa è infatti una forma di governo, la forma di governo dello «evaluative State», lo Stato della valutazione. Si chiama «governing by number», governo con i numeri o governo a distanza. A dispetto della parvenza democratica – siamo consultati su tutto ormai, specie online, ma a contare sono solo le opinioni che danno copertura a scelte già fatte – è un governo di controllo capillare teso a «cambiare le menti», come disse Monti premier, di fatto citando la Thatcher.

    Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?

    Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto anche nell’università, dove forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.

    Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?

    Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. Si deve a lui, che già parlava di «equità», l’ideazione dell’Anvur. In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale esistente. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo questo ordine. Essa non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.

    Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?

    Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999, definito oggi da Žižek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una «industria socialista», secondo la celebre espressione di Milton Friedman.

    Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?

    La forza di questo discorso intimidisce e rincoglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la «cultura della valutazione» – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. È come la rana bollita di Chomsky, quella che all’inizio sguazza felice nell’acqua tiepida. Poi, mentre la temperatura sale, si sente un po’ fiacca ma non se ne dà pensiero, sdrammatizza. Quando l’acqua diventa calda davvero magari sì, si mette sulla difensiva, ma non serve niente, in un attimo è cotta. Ecco che cose che ci avrebbero fatto orrore solo qualche decennio fa sono oggi proposte e accettate come soluzioni «semplici e concrete», secondo una «pragmatica generale» che è la nuova cifra del tempo.

    Il governo rilancia il ruolo dei privati nella scuola. Si prospetta una privatizzazione oppure si vuole gestire la scuola – e in generale il pubblico – come se fossero delle aziende?

    Le due cose non sono mai state in alternativa: si tratta di formare nuove soggettività flessibili conformi alle regole del mercato. Quello determinato dalla valutazione è un «quasi-mercato», l’analogo del sistema informativo dei prezzi. Sorprendentemente ancora qualcuno si ostina a non vedere il nesso, peraltro dichiarato (basta sfogliare, ad esempio, il recente libro della Fondazione Agnelli La valutazione della scuola).

    Qual è l’idea di fondo di questa strategia?

    La cosiddetta «school choice». L’intento è fornire alle famiglie le informazioni per scegliere come investire il proprio capitale (in primis capitale umano) e per rendersi quindi responsabili delle proprie scelte ovvero del proprio destino. La conseguenza logica è il modello «voucher» per rendere le famiglie «libere» di scegliere la migliore scuola per i loro figli, nella sostanziale liquidazione della scuola pubblica. Si parte dall’assunto che «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti», presentato come un’evidenza naturale, nella neutralizzazione di qualunque interrogativo sul perché, e si rende semplice buon senso l’ingresso dei privati. Ecco che la finanziarizzazione del sapere diventa qualcosa di molto tangibile.

    Tutto questo è presente nella «buona scuola» di Renzi?

    Nel «patto educativo» si parla di «finanza buona», di «obbligazioni ad impatto sociale», i «social impact bond» già utilizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La scuola è sempre più risucchiata in un universo di concetti, valori, criteri che ha nel mercato il suo unico riferimento. Questo movimento è cominciato con la trasformazione di sufficienze e insufficienze scolastiche in crediti e debiti. La logica privatistica è funzionale all’ingresso dei privati, ad affari in carne ed ossa, fino al grande business della formazione.

    Quali possono essere gli ostacoli che questa ipotetica riforma potrà incontrare sul suo cammino?

    Come si farà, ad esempio, nella scuola dell’obbligo ad affidare degli alunni a insegnanti riconosciutamente di serie B o a istituti trasparentemente di serie C? Di fronte a risultati negativi degli allievi, le famiglie dovranno prepararsi a una class action? In un sistema dove l’istruzione è un diritto sancito dalla costituzione, è legittimo che qualcuno abbia insegnanti «eccellenti» e altri abbiano invece insegnanti «screditati»? Ma anche questi scogli saranno superati, perché a questo punto gli insegnanti mal valutati – per qualunque motivo – non potranno che essere allontanati… al momento si parla di mobilità, ma così come si parla di «superare il grigiore dei trattamenti indifferenziati» avendo di mira il contratto collettivo, si potrà ben chiamare «resi finalmente mobili» gli insegnanti accompagnati alla porta.

    Una riforma che premia il «merito» ed è basata sulla valutazione è stata già introdotta nell’università dal 2011. Qual è il bilancio?

    Quello atteso da chi avesse avuto la pazienza di guardare dove queste pratiche avevano già mostrato le proprie vere finalità: tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale. Poi un po’ di ridefinizione dei rapporti di potere: sostanzialmente una rilegittimazione dei vecchi poteri sotto forma di nuove «tecno-baronie». E soprattutto: nessuna evidenza – nessuna evidenza indipendente – che la valutazione abbia migliorato la ricerca e l’istruzione. D’altra parte non è concepita per questo.

    A differenza della riforma Gelmini, Renzi oggi dice di sollecitare il coinvolgimento della scuola. La sua è un’apertura effettiva al dialogo?

    Stiamo parlando di processi che sollecitano sempre una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Quello di Renzi non fa eccezione perché fa appello alla convinta partecipazione di coloro che vi sono sottoposti. È sulla base di una consapevolezza indebolita, fiaccata (la rana bollita), che si rende possibile quello che viene definito «patto sulla scuola», espressione che ricorda il patto che Berlusconi diceva di avere siglato con gli italiani. Lo Stato valutativo funziona sempre solo con la sostanziale complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Alla fine, siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione. Bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.

  • agbiuso

    Settembre 9, 2014

    Per la scienza e la cultura
    di Francesco Sylos Labini, Roars, 9 settembre 2014

    La ricerca scientifica e il sistema universitario si trovano in una situazione drammatica. I frutti avvelenati della Legge Gelmini, coadiuvati dagli interventi dei successivi governi, stanno raggiungendo il loro scopo: sottodimensionare il sistema universitario e introdurre un controllo politico, mai tentato prima, sulla ricerca fondamentale. Obiettivi realizzati, il primo attraverso la riduzione del 20% del finanziamento che è diventato un taglio del 90% del reclutamento e del 100% dei progetti di ricerca di base, e il secondo attraverso la creazione dell’agenzia di valutazione Anvur al di fuori di ogni standard tecnico accettabile e affidato a una casta di professori, adusi a ruoli dirigenziali, scelti dalla stessa Gelmini in base criteri sconosciuti.

    Questa situazione, aggravata dagli effetti della crisi economica, è sul punto di compromettere il futuro dellenuove generazioni di ricercatori e dunque la tenuta stessa del sistema. Situazioni simili ma più direttamente connesse alla politica economica imposta dall’Europa, si trovano in Grecia, Spagna, Portogallo e Francia dove ampie coorti di giovani talenti sono costrette ad abbandonare i propri studi e i finanziamenti sono stati drasticamente ridotti. Al contrario del pareggio di bilancio, entrato in Costituzione, il trattato di Lisbona, che si proponeva di portare al 3% la spesa per ricerca e sviluppo, rimane inattuato accentuando lo sviluppo scientifico molto squilibrato degli Stati membri dell’UE che sta alla base della forbice economica tra il nord e il sud dell’Europa.

    Nonostante sia assodato che l’investimento statale in ricerca è uno dei motori principali dello sviluppo economico, non c’è nessuno sforzo per dirigere la spesa pubblica verso quei settori di qualità che potrebbero dare, nel medio e lungo termine, una struttura solida al tessuto produttivo. Al contrario, nel campo della ricerca è in atto un trasferimento di risorse finanziarie e umane dai paesi dell’Europa meridionale a quelli dell’Europa settentrionale che ne amplifica le differenze inibendo ogni speranza di ripresa.

    Per rimettere al centro dell’azione dei governi la ricerca e l’innovazione, un vasto movimento di ricercatori in tutta Europa sta organizzando una serie d’iniziative il prossimo autunno: gli scienziati devono contribuire efficacemente a superare la crisi economica e morale che stiamo vivendo. In Italia vi sarà una grande mobilitazione “Per La Scienza e La Cultura” per ottenere il rifinanziamento della ricerca di base e del diritto allo studio, per una nuova politica di reclutamento e per la de-burocratizzazione dell’università che deve cominciare proprio dalle dimissioni del Consiglio Direttivo dell’Anvur e dal suo radicale e complessivo ripensamento giacché si è dimostrata nociva e ha dato luogo a un insensato spreco di risorse umane e finanziarie.

  • agbiuso

    Settembre 7, 2014

    Davvero si tenta “la distruzione dell’Università italiana per via burocratica”:

    AVA? Un sistema “ottusamente burocratico”
    Redazione ROARS, 7 settembre 2014

  • diego

    Settembre 5, 2014

    si, è in gioco la qualità stessa della compagine sociale, e ci si perde sulle singole questioni perdendo il senso del tutto, caro Alberto, grazie della risposta

  • agbiuso

    Settembre 5, 2014

    «Perchè un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo? Chi vorrebbe allevare certe serpi in seno?»


    Forse perché è (dice di essere) un potere democratico?
    
Forse perché tra i docenti e ricercatori non ci sono soltanto filosofi, economisti, scienziati della politica ma anche biologi, fisici, medici, astronomi, ingegneri, agronomi (e così via), vale a dire competenze che non sono ‘serpi in seno’?

    Forse perché -come tu stesso accenni- una società senza conoscenza è ineluttabilmente destinata alla decadenza?

    Forse perché gli apparati di potere più solidi e raffinati -l’antico Egitto e la chiesa papista, ad esempio- si sono sempre fondati sul potere degli intellettuali?

    Forse perché una notevole percentuale di deputati e senatori italiani viene dalle fila dell’Università?
    
Forse perché i maggiori politici di ogni tempo -che non fossero soltanto dei criminali- hanno sempre finanziato cultura, insegnamento, arti e scienze (i despoti illuminati di tutta Europa furono i maggiori sostenitori degli illuministi francesi)?

    Forse perché in una società complessa -come le nostre- la ricerca è una condizione assolutamente indispensabile anche per lo sviluppo economico?

    È per tutte queste -e per altre- ragioni che «un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo». Perché senza queste persone il potere non dura. Dovrebbe dunque farlo -come sempre ha fatto- anche per interesse e non per generosità.
    
Ma per capire tutto ciò bisogna essere un po’ più preparati e pensanti dell’attuale (come anche dei precedenti) primo ministro italiano e dei suoi collaboratori. Un po’ di cultura serve sempre per le proprie ambizioni, soprattutto quando sono smodate.

  • diego

    Settembre 5, 2014

    Credo, nella potenza della mia ignoranza sul tema, che alla fine il nodo gordiano sia il rapporto fra sapere (in specie universitario) e potere. Perchè un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo? Chi vorrebbe allevare certe serpi in seno? Guarda Marx, non ebbe la possibilità di entrare nel mondo accademico, guarda Spinoza che per essere libero faceva un altro mestiere. D’altro canto (e questo è il mio pensiero) un buon apparato d’istruzione pubblica occorre proprio per formare le menti critiche, libere, le uniche capaci di dare linfa al futuro, alla progettualità sociale, portare aria fresca nelle stanze chiuse delle burocratiche caste. Ma il rapporto è comunque complesso, contraddittorio, irrisolto. Non mi piace uno stato che si occupa troppo dei pensieri, ma so bene che solo lo stato puo’ far studiare chi non è benestante. Dilemmi lontani dalle mie scarse conoscenze e attitudini.

  • agbiuso

    Settembre 4, 2014

    «Così la formazione finisce al servizio delle aziende»
    di Roberto Ciccarelli, il manifesto 4.9.2014

    Intervista a Valeria Pinto. L’autrice di «Valutare e punire» boccia “il patto” di Renzi: “C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività”

    «Il piano di Renzi sulla scuola è ispi­rato ad una poli­tica dell’istruzione coe­rente con le poli­ti­che neo­li­be­rali da tutti con­si­de­rate un rife­ri­mento. Su que­sto non c’erano illu­sioni da farsi – afferma Vale­ria Pinto, docente di filo­so­fia teo­re­tica alla Fede­rico II di Napoli, autrice di un attua­lis­simo e for­tu­nato libro sulla valu­ta­zione nell’università e nella ricerca «Valu­tare e punire» (Cro­no­pio) – Il governo acce­lera un pro­cesso costruito in decenni. L’unica sor­presa è che un governo non eletto si sia impe­gnato in una tra­sfor­ma­zione così ampia».

    Qual è il ruolo della valu­ta­zione nel «patto» sulla scuola?

    È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglio­ra­mento», un con­cetto ingan­ne­vole della nuova reto­rica pub­blica, come la parola «qua­lità» cui spesso si accom­pa­gna. Si tratta di un tipico stru­mento di con­trollo del mana­ge­ment per obiet­tivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della for­ma­zione con­ti­nua si chia­ri­sce che i docenti devono rag­giun­gere gli obiet­tivi “pre­po­sti”. Pre­po­sti da chi? Chi decide? Sem­pre più que­sti obiet­tivi coin­ci­dono con i «por­ta­tori di inte­ressi», che alla fine sono solo inte­ressi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di inse­gna­mento, la riforma neo­li­be­rale lo con­verte in un ser­vi­zio di for­ma­zione per le aziende.

    Altro aspetto della riforma è quello del con­trollo. Anche que­sto rien­tra nella valutazione?

    Certo. Sono ricor­renti i con­cetti di ispe­zione e ren­di­con­ta­zione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del con­si­glio di ammi­ni­stra­zione, l’annullamento degli orga­ni­smi inter­medi di rap­pre­sen­tanza. Si pre­mia la dispo­ni­bi­lità allo sfrut­ta­mento, sotto l’etichetta «pro­dut­ti­vità», for­ma­liz­zando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a rad­dop­piare. C’è il «regi­stro nazio­nale dei docenti», dove que­sti saranno trac­ciati in tutte le loro atti­vità, costan­te­mente sotto con­trollo, per «indi­vi­duare coloro che meglio rispon­dono al piano di miglio­ra­mento pre­po­sto». In tutto que­sto forse una novità c’è: la vio­lenza, la net­tezza, con cui emerge il dise­gno di spos­ses­sa­mento. Que­sto è avve­nuto nell’università dal 2011 in poi. Qui forse solo ora qual­cuno ini­zia a capire cosa signi­fica valu­ta­zione: un poten­tis­simo stru­mento di cen­tra­liz­za­zione del potere e di spos­ses­sa­mento di chi è impe­gnato sul campo.

    Che cos’è la «meri­to­cra­zia» che Renzi vuole intro­durre nella scuola?

    Quando è stata isti­tuita, l’agenzia di valu­ta­zione Anvur è stata giu­sti­fi­cata con l’esigenza di «pre­miare merito e qua­lità». Chi potrebbe opporsi a que­sto? Il pro­blema è, credo, capire la cor­nice ideo­lo­gica che sostiene que­sta appa­rente evi­denza. Ciò «che pre­mia il merito faci­lita il pro­cesso di equità sociale. Il merito non è il pri­vi­le­gio dei ric­chi, ma la carta che hanno i poveri per riscat­tarsi» disse Fabio Mussi da mini­stro del cen­tro­si­ni­stra nel 2006. A lui si deve l’ideazione dell’Anvur e già par­lava di «equità». In realtà, il sistema del merito emana, raf­for­zan­dole, dalla giu­sti­zia e dall’evidenza dell’ordine che rico­no­sce. Ren­dendo le dise­gua­glianze accet­ta­bili su basi razio­nali e eti­ca­mente legit­time, la meri­to­cra­zia risponde all’esigenza di man­te­nere fermo l’ordine sociale esi­stente. Non com­batte le dise­gua­glianze, ma si pre­oc­cupa di legit­ti­marle. In que­sta cor­nice l’istruzione è l’arma per la per­fetta razio­na­liz­za­zione dell’esclusione. Il modello che si pro­spetta per la scuola è questo.

    Per­ché l’istruzione è stata bom­bar­data da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?

    Il momento cen­trale per le poli­ti­che dell’istruzione è il Pro­cesso di Bolo­gna nel 1999 e defi­nito oggi da Zizek «un attacco con­cer­tato a ciò che Kant chia­mava l’uso pub­blico della ragione». Il prin­ci­pio è lo stesso che vediamo all’opera oggi nel pro­getto ren­ziano: edu­care al problem-solving, subor­di­nare l’istruzione alla pro­du­zione di un sapere com­pe­tente e utile. L’attuale riforma della scuola è in asso­luta con­ti­nuità con i pro­getti svi­lup­pati fin dalla bozza Mar­ti­notti, alla base della riforma Ber­lin­guer dell’università. Evi­den­te­mente alla fine ha fatto brec­cia l’idea che l’istruzione garan­tita dallo Stato sia una “indu­stria socia­li­sta”, secondo la cele­bre espres­sione di Mil­ton Friedman.

    Per­ché, quando si parla di «merito», le rispo­ste della scuola sono sem­pre difensive?

    La forza di que­sto discorso inti­mi­di­sce e ricon­glio­ni­sce, come disse Tul­lio Gre­gory dell’Anvur a Il Mani­fe­sto. Si teme di appa­rire estremi, ideo­lo­gici, con­ser­va­tori. L’immagine di discre­dito del nostro sistema for­ma­tivo, oggetto di dif­fuse cam­pa­gne stampa, è stata inte­rio­riz­zata, men­tre la “cul­tura della valu­ta­zione” – nel migliore dei casi pura cul­tura neo­li­be­rale, per lo più sem­plice pac­cot­ti­glia – ha cuci­nato a fuoco lento la nostra coscienza cri­tica. Par­liamo di un pro­cesso che in più sol­le­cita, come fa Renzi sulla scuola, una «spon­ta­nea» ade­sione a quanto richie­sto dall’alto. Del resto lo stato valu­ta­tivo fun­ziona così: solo con la com­pli­cità di coloro che vi sono sot­to­po­sti. Non a caso c’è chi parla di «ser­vitù volon­ta­ria». A me pare più rispon­dente l’idea fou­caul­tiana di gover­na­men­ta­lità: pro­durre sog­get­ti­vità auto­no­ma­mente con­formi alle pro­ce­dure attese. Siamo davanti a una mac­china poten­tis­sima, a dispo­si­tivi glo­bali di tra­sfor­ma­zione, pro­getti gran­diosi. E biso­gne­rebbe attac­carli diret­ta­mente, attac­care da ogni lato.

  • agbiuso

    Aprile 22, 2013

    Caro D’Ascola, la ringrazio per il suo commento altrettanto icastico.
    Sì, è un progetto in gran parte consapevole di restituzione alla condizione servile, imbellettata di formule vuote. “Incomparabile a quello nazista”, perché assai più mimetizzato e inavvertito.
    Non dobbiamo mai rinunciare a vedere e a dire ciò che abbiamo visto. La forza di questa visione è indistruttibile.

  • pasquale d'ascola

    Aprile 22, 2013

    Recensione icastica, quasi una sinossi direi, preziosa, di cui mi sono giovato in un attimo. Conferma, il saggio, di quanto vado vedendo da un pezzo da solo a solo, senza confronti, un po’ come Cassandra: un progetto intelligente di devastazione di gran lunga incomparabile a quello nazista. Occorre essere in molti a vedere il peggio, non salva forse ma aiuta a reggere il colpo.
    Pasquale D’Ascola

  • agbiuso

    Aprile 22, 2013

    Sono contento che la recensione ti spinga a leggere questo libro.
    Uno degli obiettivi di chi recensisce consiste infatti nello stimolare a leggere (o a evitare di farlo) i testi dei quali parla.
    Nel caso di Valutare e punire confermo che per chi opera nel mondo della scuola e dell’università si tratta di un’analisi critica davvero preziosa.

  • poetella

    Aprile 22, 2013

    …testo molto interessante. Specie per chi, come me, è nel mondo della scuola e di valutazione sente parlare e sparlare di continuo.
    Decisamente un libro che va letto. Provvederò sicuramente.

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