“L’Europa non può materializzarsi solo attraverso le insensate politiche economiche dell’austerità, ma bisogna sempre ricordare che le fondamenta del progetto europeo sono nella cultura comune e nella solidarietà tra i diversi paesi: solo ripartendo da qui si potrà evitare la catastrofe che sembra sempre più imminente”.
Così Francesco Sylos Labini conclude una sua breve riflessione su quanto sta accadendo anche in Francia e Portogallo, dopo aver toccato altri Paesi europei.
Un impulso suicida sembra essersi impossessato dei decisori politici, condizionati totalmente dai padroni della finanza.
Caro Diego, mi regolerei secondo questi criteri:
– l’interesse anzitutto, nel senso che consiglieri a mio figlio di tenere conto in primo luogo delle sue passioni intellettuali, culturali, professionali;
– la situazione logistica, certamente. Studiare è impegnativo e bisogna cercare di farlo nelle condizioni migliori, sia dal punto di vista della sistemazione (città che piacciano, alloggi funzionali, eventuali compagnie) sia dei sentimenti (lontananza dall’ambiente di partenza e altro);
– cercherei di ottenere notizie dirette da persone che frequentano i vari atenei e dipartimenti, il passaparola è sempre un dato importante;
– gli consiglierei infine -ma è decisivo- di visitare con molta accuratezza i siti dei vari Atenei in ballo e soprattutto dei Dipartimenti, scaricando e leggendo con molta attenzione i documenti con i piani di studio, gli obiettivi didattici e professionali, i programmi svolti negli anni precedenti, i CV dei singoli docenti, le loro pagine personali. Tutto ciò, insomma, che si può trovare in rete sia di ufficiale che di ufficioso;
-nell’anno accademico precedente farei delle visite ai diversi Atenei, osservando le strutture, sentendo il clima che vi si respira, seguendo alcune lezioni.
Farei questo e altro di analogo.
Avrei una domanda, caro Alberto, tu che sei un docente molto apprezzato (dagli studenti ma anche dai colleghi e dai lettori dei tuoi libri) cosa consigli, come puo’ un cittadino non addentro alle questioni universitarie scegliere o valutare una facoltà? Per fare un esempio, se mio figlio a Spezia vuole studiare la matematica oppure la filosofia o qualunque altra disciplina, come fa a sapere se è meglio Pisa, Genova o Parma? In genere i figli nostri scelgono in base a questioni logistiche (disponibilità di treni, clima, costo degli alloggi) e in verità nessuno ha idee chiare sulla qualità «intrinseca» dell’ateneo. Se tu avessi figli come ti regoleresti, in concreto?
Caro Dario,
ti ringrazio per l’apprezzamento e soprattutto per la giusta e doverosa durezza verso l’arroganza dell’Anvur e la cialtroneria di Renzi, ennesima ripetizione di un destino dal quale sembra che l’Italia non possa liberarsi.
Mi spiace per i figli, per i nipoti, ai quali i padri -sostenendo le scelte politiche e culturali di simili personaggi, partiti, governi- rubano il futuro.
ottimo il libro di Valeria Pinto, che è largamente condivisibile, e ottima la tua recensione, che ne illustra perfettamente analisi e tesi.
Il processo di valutazione della ricerca dell’Anvur è semplicemente aberrante, sia per le logiche che segue, sia per le mistificazioni che compie nell’accreditare come sedi di alto valore scientifico riviste divulgative e persino confessionali, di livelli non diversi da un bollettino parrocchiale. Non credo che valga la pena spendere molte parole su quanto è di per se stesso evidente a chiunque abbia un minimo di ragionevolezza e di onestà intellettuale.
Pure del tutto condivisibile appare l’articolo di Anna Angelucci sul “Manifesto”, che denuncia l’assoluta idiozia delle proposte di riforma della scuola di Renzi e del suo governo di pretoriani incompetenti e arroganti.
Velleitarismi, assurdità e deliberate destrutturazioni della scuola pubblica delle ormai numerose riforme che si sono susseguite negli ultimi vent’anni, da Berlinguer a Gelmini, qui assumono ormai il ridicolo di forme linguistiche e contenuti adatti allo spettacolo di un comico che si pone il fine di ottenere l’ilarità del pubblico attraverso l’esibizione di una sua radicale stupidità e decontestualizzazione.
Vedere un simile cialtrone al governo del paese dà il segno – come l’ha dato nei decenni passati la presenza in analoga posizione di un altrettanto buffone – dell’incredibile degrado del paese e della maggioranza della sua popolazione, che continua ad accordare il proprio consenso a simili personaggi.
Un caro saluto.
Dario
La politica scolastica del governo Partito Democratico / Nuovo Centro Destra è davvero la sintesi dell’ideologia ultraliberistica e americanista che sta distruggendo l’Europa.
Io non ho figli (a questo punto direi “per fortuna”) ma invito chi li ha o li avrà a riflettere sugli abissi di ignoranza e di servitù ai quali il futuro li destina, se non si farà qualcosa per fermare questo piano inclinato.
Rem tene, verba sequentur, si diceva tanto tempo fa. E allora analizziamo le parole e ricostruiamo induttivamente il paradigma culturale sotteso alla recente proposta del Governo sulla scuola.
Il documento, da sottoporre nei prossimi due mesi a consultazione online e offline, è tutto un florilegio di anglismi: la scuola deve uscire dalla comfort zone e diventare l’avamposto del rilancio del made in Italy. Dotarsi di insegnanti mentor capaci di proporre formazione online ma anche blended. Produrre piattaforme sperimentali con un design challenge lanciato prestodaun hackaton mirante alla creazione di una app. Attrezzarsi per sfide di governance e policy a colpi di data school nazionali, design di servizi e opening up education, ovviamente riferita alle best practices.
Ma non basta: finalmente arriva la good law e il nudging sbarca al Miur perché «assicurare piena comprensione e chiarezza su quanto il Miur pubblica è un’azione di apertura e trasparenza di pari dignità rispetto all’apertura dei dati».
La buona scuola promuove il CLIL, cioè il Content and Language Integrated Learning, e alle elementari insegna il coding attraverso la gamification. Valorizza il problem solving, il decision making e, ove necessario, potenzia l’agri-business. Gli studenti diventeranno digital makers, si supererà il digital divide e riusciremo a intrattenere gli early leavers, ovvero quei «giovani disaffezionati» (sic) che la scuola oggi non riesce a tenere con sé. Per fare questo adotta il BYOD, bring your own device, ovvero «portati il tuo pc da casa». Ma, non paga, la buona scuola del governo proporrà school bonus, school guarantee, crowdfunding, emettendo all’occorrenza social impact bonds a beneficio dei privati che vorranno approfittare del succulento banchetto dell’istruzione imbandito da Renzi. Good appetite.
Ma l’anglofilia del documento non si esaurisce nella patina lessicale e nel registro linguistico. La buona scuola di Renzi è quella americana, autonoma nell’organizzazione, nella didattica e nei finanziamenti. È la scuola intesa non come istituzione della Repubblica, costituzionalmente garantita a tutti e che offre pari opportunità di accesso critico alla conoscenza e al sapere, bensì come espressione differenziata, culturalmente marcata e competitiva, delle realtà e delle comunità locali: la scuola che si fa il suo progetto formativo e si cerca sul mercato qualcuno che abbia interesse a pagarlo.
La scuola, in America, è nata prima degli Stati Uniti, quando i coloni strappavano le terre ai Nativi e costruivano prigioni e saloon. Comitati locali le organizzavano, spesso in case private, si procuravano gli insegnanti, mettevano a disposizione i libri e la Bibbia non mancava mai. Oggi i comitati si chiamano Consigli Direttivi, sono composti da cittadini eletti e mantengono gli stessi compiti: adottano programmi didattici e gestiscono il bilancio. L’autonomia scolastica consente alle famiglie americane il controllo sui contenuti dell’insegnamento — in Lousiana e nel Tennessee, la lobby creazionista ostacola tenacemente l’insegnamento dell’evoluzionismo — e permette ai funzionari eletti di imporre contenuti e metodi di insegnamento nei loro distretti scolastici.
La frammentazione della scuola pubblica americana ha prodotto e produce risultati scolastici così scadenti da indurre oggi il Congresso a forme di controllo centralizzato ex post. Standard e obiettivi di apprendimento nazionali da misurare con batterie di test dai cui risultati dipende la sopravvivenza o la chiusura delle scuole. Un rimedio peggiore del male, perché trasforma l’insegnamento in addestramento e, soprattutto, non solleva gli studenti americani dalle ultime posizioni nelle classifiche internazionali. La buona scuola di Renzi è quella di un paese, l’America, in cui le scuole migliori sono private e costosissime; un paese in cui anche le scuole pubbliche, finanziate con la fiscalità municipale, possono avere rette molto elevate e dove le più accessibili si trovano nei quartieri deprivati e accolgono i poveri, gli svantaggiati, i discriminati. Un paese in cui la disparità economica è direttamente proporzionale alla disparità educativa.
C’è un passaggio, nel documento, in cui si dice che «ogni scuola dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione», ossia la libertà di scegliere i docenti che riterrà «più adatti» per realizzare la propria offerta formativa. La metafora calcistica di berlusconiana memoria, rivela esattamente qual è la direzione del governo: portare a compimento il processo di privatizzazione della gestione della scuola intrapreso da Berlinguer con la legge sull’autonomia e, contemporaneamente, completare il percorso di arretramento dello stato inaugurato da Tremonti, fino alla completa dismissione della scuola pubblica. Il preside-manager, costantemente in cerca di sponsor per finanziare la sua scuola, sceglierà e licenzierà discrezionalmente i suoi docenti, affiancato in questo da un nucleo di valutazione in cui la presenza di esterni garantirà forme di controllo politico-culturale ma soprattutto il ritorno economico degli investimenti privati. L’esperienza di Channel One, che in America ha un contratto con 12.000 scuole, imponendo a milioni di studenti in classe dosi quotidiane della sua programmazione televisiva e pubblicitaria, dovrebbe indurre i cittadini italiani a una riflessione seria.
Il resto del documento è pura demagogia. La proposta del servizio civile a scuola, la collaborazione con il terzo settore, l’ingresso del volontariato: un omaggio dell’esecutivo a certa cultura scoutista e democristiana; il riferimento alla sussidiarietà, una strizzata d’occhio a Compagnia delle Opere e a Comunione e Liberazione.
E infine, l’impegno di assunzione di 150.000 precari nel 2015, accompagnato dall’ignobile ricatto a milioni di insegnanti di ruolo che impone di rinunciare al loro attuale status giuridico e di restare inchiodati fino alla pensione al loro miserevole stipendio iniziale. Un impegno spacciato come scelta e come testimonianza della volontà del governo di investire nella scuola, in realtà ineludibilmente imposto dalla procedura d’infrazione avviata a Bruxelles contro l’Italia per la violazione della normativa comunitaria sulla reiterazione dei contratti a termine.
Una promessa da far tremare i polsi in tempi di tagli draconiani e di riforme feudali imposte dalla Troika: ma forse, l’ennesima velleità di chi, assai pericolosamente, «vuo’ fa’ l’americano».
* Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica
Roars ha pubblicato la versione integrale dell’intervista a Valeria Pinto.
Mi sembrano particolarmente rilevanti:
– il riferimento alla efficace (e terribile) metafora di Chomsky della “rana bollita”;
– il significativo ricorso nella scuola -ormai da molti anni- al linguaggio bancario dei “debiti e crediti formativi“, le parole sono sempre cose;
– la piena adesione del governo del Partito Democratico / Nuovo Centro Destra a una visione ultraliberista della scuola (credo che questo sia uno dei più gravi tradimenti che questo partito ha perpetrato rispetto alla propria storia);
– il vero obiettivo di tutto il processo: “Tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale”.
Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi? Quali le analogie con l’università? Perché nel mondo della scuola la parola “merito” produce di regola risposte difensive? Come viene ridisegnato il ruolo dei Presidi-Manager? Come mai dagli anni ’80 ad oggi l’istruzione è oggetto di un vero e proprio bombardamento a suon di riforme? La sollecitazione di un coinvolgimento dal basso segna un cambiamento di tendenza? Si va delineando una linea strategica e, se sì, quale? Su questi temi Roberto Ciccarelli intervista Valeria Pinto, l’autrice di “Valutare e Punire”. Una sintesi dell’intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 3.9.2014.
Roberto Ciccarelli: «Il “patto educativo” di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca “Valutare e punire” (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».
Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi?
Valeria Pinto: È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi «preposti». Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i quelli dei cosiddetti «portatori di interessi», interessi che, alla fine, sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende. Anche nell’università la valutazione costituisce ormai l’architrave istituzionale e il nuovo luogo di potere: una concentrazione mai vista prima. Essa è infatti una forma di governo, la forma di governo dello «evaluative State», lo Stato della valutazione. Si chiama «governing by number», governo con i numeri o governo a distanza. A dispetto della parvenza democratica – siamo consultati su tutto ormai, specie online, ma a contare sono solo le opinioni che danno copertura a scelte già fatte – è un governo di controllo capillare teso a «cambiare le menti», come disse Monti premier, di fatto citando la Thatcher.
Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?
Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto anche nell’università, dove forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.
Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?
Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. Si deve a lui, che già parlava di «equità», l’ideazione dell’Anvur. In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale esistente. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo questo ordine. Essa non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.
Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?
Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999, definito oggi da Žižek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una «industria socialista», secondo la celebre espressione di Milton Friedman.
Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?
La forza di questo discorso intimidisce e rincoglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la «cultura della valutazione» – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. È come la rana bollita di Chomsky, quella che all’inizio sguazza felice nell’acqua tiepida. Poi, mentre la temperatura sale, si sente un po’ fiacca ma non se ne dà pensiero, sdrammatizza. Quando l’acqua diventa calda davvero magari sì, si mette sulla difensiva, ma non serve niente, in un attimo è cotta. Ecco che cose che ci avrebbero fatto orrore solo qualche decennio fa sono oggi proposte e accettate come soluzioni «semplici e concrete», secondo una «pragmatica generale» che è la nuova cifra del tempo.
Il governo rilancia il ruolo dei privati nella scuola. Si prospetta una privatizzazione oppure si vuole gestire la scuola – e in generale il pubblico – come se fossero delle aziende?
Le due cose non sono mai state in alternativa: si tratta di formare nuove soggettività flessibili conformi alle regole del mercato. Quello determinato dalla valutazione è un «quasi-mercato», l’analogo del sistema informativo dei prezzi. Sorprendentemente ancora qualcuno si ostina a non vedere il nesso, peraltro dichiarato (basta sfogliare, ad esempio, il recente libro della Fondazione Agnelli La valutazione della scuola).
Qual è l’idea di fondo di questa strategia?
La cosiddetta «school choice». L’intento è fornire alle famiglie le informazioni per scegliere come investire il proprio capitale (in primis capitale umano) e per rendersi quindi responsabili delle proprie scelte ovvero del proprio destino. La conseguenza logica è il modello «voucher» per rendere le famiglie «libere» di scegliere la migliore scuola per i loro figli, nella sostanziale liquidazione della scuola pubblica. Si parte dall’assunto che «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti», presentato come un’evidenza naturale, nella neutralizzazione di qualunque interrogativo sul perché, e si rende semplice buon senso l’ingresso dei privati. Ecco che la finanziarizzazione del sapere diventa qualcosa di molto tangibile.
Tutto questo è presente nella «buona scuola» di Renzi?
Nel «patto educativo» si parla di «finanza buona», di «obbligazioni ad impatto sociale», i «social impact bond» già utilizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La scuola è sempre più risucchiata in un universo di concetti, valori, criteri che ha nel mercato il suo unico riferimento. Questo movimento è cominciato con la trasformazione di sufficienze e insufficienze scolastiche in crediti e debiti. La logica privatistica è funzionale all’ingresso dei privati, ad affari in carne ed ossa, fino al grande business della formazione.
Quali possono essere gli ostacoli che questa ipotetica riforma potrà incontrare sul suo cammino?
Come si farà, ad esempio, nella scuola dell’obbligo ad affidare degli alunni a insegnanti riconosciutamente di serie B o a istituti trasparentemente di serie C? Di fronte a risultati negativi degli allievi, le famiglie dovranno prepararsi a una class action? In un sistema dove l’istruzione è un diritto sancito dalla costituzione, è legittimo che qualcuno abbia insegnanti «eccellenti» e altri abbiano invece insegnanti «screditati»? Ma anche questi scogli saranno superati, perché a questo punto gli insegnanti mal valutati – per qualunque motivo – non potranno che essere allontanati… al momento si parla di mobilità, ma così come si parla di «superare il grigiore dei trattamenti indifferenziati» avendo di mira il contratto collettivo, si potrà ben chiamare «resi finalmente mobili» gli insegnanti accompagnati alla porta.
Una riforma che premia il «merito» ed è basata sulla valutazione è stata già introdotta nell’università dal 2011. Qual è il bilancio?
Quello atteso da chi avesse avuto la pazienza di guardare dove queste pratiche avevano già mostrato le proprie vere finalità: tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale. Poi un po’ di ridefinizione dei rapporti di potere: sostanzialmente una rilegittimazione dei vecchi poteri sotto forma di nuove «tecno-baronie». E soprattutto: nessuna evidenza – nessuna evidenza indipendente – che la valutazione abbia migliorato la ricerca e l’istruzione. D’altra parte non è concepita per questo.
A differenza della riforma Gelmini, Renzi oggi dice di sollecitare il coinvolgimento della scuola. La sua è un’apertura effettiva al dialogo?
Stiamo parlando di processi che sollecitano sempre una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Quello di Renzi non fa eccezione perché fa appello alla convinta partecipazione di coloro che vi sono sottoposti. È sulla base di una consapevolezza indebolita, fiaccata (la rana bollita), che si rende possibile quello che viene definito «patto sulla scuola», espressione che ricorda il patto che Berlusconi diceva di avere siglato con gli italiani. Lo Stato valutativo funziona sempre solo con la sostanziale complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Alla fine, siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione. Bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.
La ricerca scientifica e il sistema universitario si trovano in una situazione drammatica. I frutti avvelenati della Legge Gelmini, coadiuvati dagli interventi dei successivi governi, stanno raggiungendo il loro scopo: sottodimensionare il sistema universitario e introdurre un controllo politico, mai tentato prima, sulla ricerca fondamentale. Obiettivi realizzati, il primo attraverso la riduzione del 20% del finanziamento che è diventato un taglio del 90% del reclutamento e del 100% dei progetti di ricerca di base, e il secondo attraverso la creazione dell’agenzia di valutazione Anvur al di fuori di ogni standard tecnico accettabile e affidato a una casta di professori, adusi a ruoli dirigenziali, scelti dalla stessa Gelmini in base criteri sconosciuti.
Questa situazione, aggravata dagli effetti della crisi economica, è sul punto di compromettere il futuro dellenuove generazioni di ricercatori e dunque la tenuta stessa del sistema. Situazioni simili ma più direttamente connesse alla politica economica imposta dall’Europa, si trovano in Grecia, Spagna, Portogallo e Francia dove ampie coorti di giovani talenti sono costrette ad abbandonare i propri studi e i finanziamenti sono stati drasticamente ridotti. Al contrario del pareggio di bilancio, entrato in Costituzione, il trattato di Lisbona, che si proponeva di portare al 3% la spesa per ricerca e sviluppo, rimane inattuato accentuando lo sviluppo scientifico molto squilibrato degli Stati membri dell’UE che sta alla base della forbice economica tra il nord e il sud dell’Europa.
Nonostante sia assodato che l’investimento statale in ricerca è uno dei motori principali dello sviluppo economico, non c’è nessuno sforzo per dirigere la spesa pubblica verso quei settori di qualità che potrebbero dare, nel medio e lungo termine, una struttura solida al tessuto produttivo. Al contrario, nel campo della ricerca è in atto un trasferimento di risorse finanziarie e umane dai paesi dell’Europa meridionale a quelli dell’Europa settentrionale che ne amplifica le differenze inibendo ogni speranza di ripresa.
Per rimettere al centro dell’azione dei governi la ricerca e l’innovazione, un vasto movimento di ricercatori in tutta Europa sta organizzando una serie d’iniziative il prossimo autunno: gli scienziati devono contribuire efficacemente a superare la crisi economica e morale che stiamo vivendo. In Italia vi sarà una grande mobilitazione “Per La Scienza e La Cultura” per ottenere il rifinanziamento della ricerca di base e del diritto allo studio, per una nuova politica di reclutamento e per la de-burocratizzazione dell’università che deve cominciare proprio dalle dimissioni del Consiglio Direttivo dell’Anvur e dal suo radicale e complessivo ripensamento giacché si è dimostrata nociva e ha dato luogo a un insensato spreco di risorse umane e finanziarie.
si, è in gioco la qualità stessa della compagine sociale, e ci si perde sulle singole questioni perdendo il senso del tutto, caro Alberto, grazie della risposta
«Perchè un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo? Chi vorrebbe allevare certe serpi in seno?»
Forse perché è (dice di essere) un potere democratico?
Forse perché tra i docenti e ricercatori non ci sono soltanto filosofi, economisti, scienziati della politica ma anche biologi, fisici, medici, astronomi, ingegneri, agronomi (e così via), vale a dire competenze che non sono ‘serpi in seno’?
Forse perché -come tu stesso accenni- una società senza conoscenza è ineluttabilmente destinata alla decadenza?
Forse perché gli apparati di potere più solidi e raffinati -l’antico Egitto e la chiesa papista, ad esempio- si sono sempre fondati sul potere degli intellettuali?
Forse perché una notevole percentuale di deputati e senatori italiani viene dalle fila dell’Università?
Forse perché i maggiori politici di ogni tempo -che non fossero soltanto dei criminali- hanno sempre finanziato cultura, insegnamento, arti e scienze (i despoti illuminati di tutta Europa furono i maggiori sostenitori degli illuministi francesi)?
Forse perché in una società complessa -come le nostre- la ricerca è una condizione assolutamente indispensabile anche per lo sviluppo economico?
È per tutte queste -e per altre- ragioni che «un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo». Perché senza queste persone il potere non dura. Dovrebbe dunque farlo -come sempre ha fatto- anche per interesse e non per generosità.
Ma per capire tutto ciò bisogna essere un po’ più preparati e pensanti dell’attuale (come anche dei precedenti) primo ministro italiano e dei suoi collaboratori. Un po’ di cultura serve sempre per le proprie ambizioni, soprattutto quando sono smodate.
Credo, nella potenza della mia ignoranza sul tema, che alla fine il nodo gordiano sia il rapporto fra sapere (in specie universitario) e potere. Perchè un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo? Chi vorrebbe allevare certe serpi in seno? Guarda Marx, non ebbe la possibilità di entrare nel mondo accademico, guarda Spinoza che per essere libero faceva un altro mestiere. D’altro canto (e questo è il mio pensiero) un buon apparato d’istruzione pubblica occorre proprio per formare le menti critiche, libere, le uniche capaci di dare linfa al futuro, alla progettualità sociale, portare aria fresca nelle stanze chiuse delle burocratiche caste. Ma il rapporto è comunque complesso, contraddittorio, irrisolto. Non mi piace uno stato che si occupa troppo dei pensieri, ma so bene che solo lo stato puo’ far studiare chi non è benestante. Dilemmi lontani dalle mie scarse conoscenze e attitudini.
Intervista a Valeria Pinto. L’autrice di «Valutare e punire» boccia “il patto” di Renzi: “C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività”
«Il piano di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca «Valutare e punire» (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».
Qual è il ruolo della valutazione nel «patto» sulla scuola?
È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi “preposti”. Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i «portatori di interessi», che alla fine sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende.
Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?
Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto nell’università dal 2011 in poi. Qui forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.
Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?
Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. A lui si deve l’ideazione dell’Anvur e già parlava di «equità». In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandole, dalla giustizia e dall’evidenza dell’ordine che riconosce. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo l’ordine sociale esistente. Non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.
Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?
Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999 e definito oggi da Zizek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera oggi nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una “industria socialista”, secondo la celebre espressione di Milton Friedman.
Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?
La forza di questo discorso intimidisce e riconglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la “cultura della valutazione” – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. Parliamo di un processo che in più sollecita, come fa Renzi sulla scuola, una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Del resto lo stato valutativo funziona così: solo con la complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione, progetti grandiosi. E bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.
Caro D’Ascola, la ringrazio per il suo commento altrettanto icastico.
Sì, è un progetto in gran parte consapevole di restituzione alla condizione servile, imbellettata di formule vuote. “Incomparabile a quello nazista”, perché assai più mimetizzato e inavvertito.
Non dobbiamo mai rinunciare a vedere e a dire ciò che abbiamo visto. La forza di questa visione è indistruttibile.
Recensione icastica, quasi una sinossi direi, preziosa, di cui mi sono giovato in un attimo. Conferma, il saggio, di quanto vado vedendo da un pezzo da solo a solo, senza confronti, un po’ come Cassandra: un progetto intelligente di devastazione di gran lunga incomparabile a quello nazista. Occorre essere in molti a vedere il peggio, non salva forse ma aiuta a reggere il colpo.
Pasquale D’Ascola
Sono contento che la recensione ti spinga a leggere questo libro.
Uno degli obiettivi di chi recensisce consiste infatti nello stimolare a leggere (o a evitare di farlo) i testi dei quali parla.
Nel caso di Valutare e punire confermo che per chi opera nel mondo della scuola e dell’università si tratta di un’analisi critica davvero preziosa.
…testo molto interessante. Specie per chi, come me, è nel mondo della scuola e di valutazione sente parlare e sparlare di continuo.
Decisamente un libro che va letto. Provvederò sicuramente.
19 commenti
agbiuso
Il 14 maggio 2015 Valeria Pinto terrà a Catania un incontro dal titolo La bêtise: valutazione e governo della conoscenza.
agbiuso
“L’Europa non può materializzarsi solo attraverso le insensate politiche economiche dell’austerità, ma bisogna sempre ricordare che le fondamenta del progetto europeo sono nella cultura comune e nella solidarietà tra i diversi paesi: solo ripartendo da qui si potrà evitare la catastrofe che sembra sempre più imminente”.
Così Francesco Sylos Labini conclude una sua breve riflessione su quanto sta accadendo anche in Francia e Portogallo, dopo aver toccato altri Paesi europei.
Un impulso suicida sembra essersi impossessato dei decisori politici, condizionati totalmente dai padroni della finanza.
Biuso
Caro Diego, mi regolerei secondo questi criteri:
– l’interesse anzitutto, nel senso che consiglieri a mio figlio di tenere conto in primo luogo delle sue passioni intellettuali, culturali, professionali;
– la situazione logistica, certamente. Studiare è impegnativo e bisogna cercare di farlo nelle condizioni migliori, sia dal punto di vista della sistemazione (città che piacciano, alloggi funzionali, eventuali compagnie) sia dei sentimenti (lontananza dall’ambiente di partenza e altro);
– cercherei di ottenere notizie dirette da persone che frequentano i vari atenei e dipartimenti, il passaparola è sempre un dato importante;
– gli consiglierei infine -ma è decisivo- di visitare con molta accuratezza i siti dei vari Atenei in ballo e soprattutto dei Dipartimenti, scaricando e leggendo con molta attenzione i documenti con i piani di studio, gli obiettivi didattici e professionali, i programmi svolti negli anni precedenti, i CV dei singoli docenti, le loro pagine personali. Tutto ciò, insomma, che si può trovare in rete sia di ufficiale che di ufficioso;
-nell’anno accademico precedente farei delle visite ai diversi Atenei, osservando le strutture, sentendo il clima che vi si respira, seguendo alcune lezioni.
Farei questo e altro di analogo.
diego
Avrei una domanda, caro Alberto, tu che sei un docente molto apprezzato (dagli studenti ma anche dai colleghi e dai lettori dei tuoi libri) cosa consigli, come puo’ un cittadino non addentro alle questioni universitarie scegliere o valutare una facoltà? Per fare un esempio, se mio figlio a Spezia vuole studiare la matematica oppure la filosofia o qualunque altra disciplina, come fa a sapere se è meglio Pisa, Genova o Parma? In genere i figli nostri scelgono in base a questioni logistiche (disponibilità di treni, clima, costo degli alloggi) e in verità nessuno ha idee chiare sulla qualità «intrinseca» dell’ateneo. Se tu avessi figli come ti regoleresti, in concreto?
agbiuso
Consiglio la lettura di un breve e gustosissimo articolo che pone a confronto i numeri delle classifiche universitarie e i numeri del Lotto:
Nonno Gustavo e le classifiche di università e il “prezzo dei numeri”
di Marco Bella, Roars, 24 settembre 2014
agbiuso
Caro Dario,
ti ringrazio per l’apprezzamento e soprattutto per la giusta e doverosa durezza verso l’arroganza dell’Anvur e la cialtroneria di Renzi, ennesima ripetizione di un destino dal quale sembra che l’Italia non possa liberarsi.
Mi spiace per i figli, per i nipoti, ai quali i padri -sostenendo le scelte politiche e culturali di simili personaggi, partiti, governi- rubano il futuro.
Dario Generali
Caro Alberto,
ottimo il libro di Valeria Pinto, che è largamente condivisibile, e ottima la tua recensione, che ne illustra perfettamente analisi e tesi.
Il processo di valutazione della ricerca dell’Anvur è semplicemente aberrante, sia per le logiche che segue, sia per le mistificazioni che compie nell’accreditare come sedi di alto valore scientifico riviste divulgative e persino confessionali, di livelli non diversi da un bollettino parrocchiale. Non credo che valga la pena spendere molte parole su quanto è di per se stesso evidente a chiunque abbia un minimo di ragionevolezza e di onestà intellettuale.
Pure del tutto condivisibile appare l’articolo di Anna Angelucci sul “Manifesto”, che denuncia l’assoluta idiozia delle proposte di riforma della scuola di Renzi e del suo governo di pretoriani incompetenti e arroganti.
Velleitarismi, assurdità e deliberate destrutturazioni della scuola pubblica delle ormai numerose riforme che si sono susseguite negli ultimi vent’anni, da Berlinguer a Gelmini, qui assumono ormai il ridicolo di forme linguistiche e contenuti adatti allo spettacolo di un comico che si pone il fine di ottenere l’ilarità del pubblico attraverso l’esibizione di una sua radicale stupidità e decontestualizzazione.
Vedere un simile cialtrone al governo del paese dà il segno – come l’ha dato nei decenni passati la presenza in analoga posizione di un altrettanto buffone – dell’incredibile degrado del paese e della maggioranza della sua popolazione, che continua ad accordare il proprio consenso a simili personaggi.
Un caro saluto.
Dario
agbiuso
La politica scolastica del governo Partito Democratico / Nuovo Centro Destra è davvero la sintesi dell’ideologia ultraliberistica e americanista che sta distruggendo l’Europa.
Io non ho figli (a questo punto direi “per fortuna”) ma invito chi li ha o li avrà a riflettere sugli abissi di ignoranza e di servitù ai quali il futuro li destina, se non si farà qualcosa per fermare questo piano inclinato.
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Back to school con Renzi l’americano
Anna Angelucci, il manifesto 16.9.2014
Rem tene, verba sequentur, si diceva tanto tempo fa. E allora analizziamo le parole e ricostruiamo induttivamente il paradigma culturale sotteso alla recente proposta del Governo sulla scuola.
Il documento, da sottoporre nei prossimi due mesi a consultazione online e offline, è tutto un florilegio di anglismi: la scuola deve uscire dalla comfort zone e diventare l’avamposto del rilancio del made in Italy. Dotarsi di insegnanti mentor capaci di proporre formazione online ma anche blended. Produrre piattaforme sperimentali con un design challenge lanciato prestodaun hackaton mirante alla creazione di una app. Attrezzarsi per sfide di governance e policy a colpi di data school nazionali, design di servizi e opening up education, ovviamente riferita alle best practices.
Ma non basta: finalmente arriva la good law e il nudging sbarca al Miur perché «assicurare piena comprensione e chiarezza su quanto il Miur pubblica è un’azione di apertura e trasparenza di pari dignità rispetto all’apertura dei dati».
La buona scuola promuove il CLIL, cioè il Content and Language Integrated Learning, e alle elementari insegna il coding attraverso la gamification. Valorizza il problem solving, il decision making e, ove necessario, potenzia l’agri-business. Gli studenti diventeranno digital makers, si supererà il digital divide e riusciremo a intrattenere gli early leavers, ovvero quei «giovani disaffezionati» (sic) che la scuola oggi non riesce a tenere con sé. Per fare questo adotta il BYOD, bring your own device, ovvero «portati il tuo pc da casa». Ma, non paga, la buona scuola del governo proporrà school bonus, school guarantee, crowdfunding, emettendo all’occorrenza social impact bonds a beneficio dei privati che vorranno approfittare del succulento banchetto dell’istruzione imbandito da Renzi. Good appetite.
Ma l’anglofilia del documento non si esaurisce nella patina lessicale e nel registro linguistico. La buona scuola di Renzi è quella americana, autonoma nell’organizzazione, nella didattica e nei finanziamenti. È la scuola intesa non come istituzione della Repubblica, costituzionalmente garantita a tutti e che offre pari opportunità di accesso critico alla conoscenza e al sapere, bensì come espressione differenziata, culturalmente marcata e competitiva, delle realtà e delle comunità locali: la scuola che si fa il suo progetto formativo e si cerca sul mercato qualcuno che abbia interesse a pagarlo.
La scuola, in America, è nata prima degli Stati Uniti, quando i coloni strappavano le terre ai Nativi e costruivano prigioni e saloon. Comitati locali le organizzavano, spesso in case private, si procuravano gli insegnanti, mettevano a disposizione i libri e la Bibbia non mancava mai. Oggi i comitati si chiamano Consigli Direttivi, sono composti da cittadini eletti e mantengono gli stessi compiti: adottano programmi didattici e gestiscono il bilancio. L’autonomia scolastica consente alle famiglie americane il controllo sui contenuti dell’insegnamento — in Lousiana e nel Tennessee, la lobby creazionista ostacola tenacemente l’insegnamento dell’evoluzionismo — e permette ai funzionari eletti di imporre contenuti e metodi di insegnamento nei loro distretti scolastici.
La frammentazione della scuola pubblica americana ha prodotto e produce risultati scolastici così scadenti da indurre oggi il Congresso a forme di controllo centralizzato ex post. Standard e obiettivi di apprendimento nazionali da misurare con batterie di test dai cui risultati dipende la sopravvivenza o la chiusura delle scuole. Un rimedio peggiore del male, perché trasforma l’insegnamento in addestramento e, soprattutto, non solleva gli studenti americani dalle ultime posizioni nelle classifiche internazionali. La buona scuola di Renzi è quella di un paese, l’America, in cui le scuole migliori sono private e costosissime; un paese in cui anche le scuole pubbliche, finanziate con la fiscalità municipale, possono avere rette molto elevate e dove le più accessibili si trovano nei quartieri deprivati e accolgono i poveri, gli svantaggiati, i discriminati. Un paese in cui la disparità economica è direttamente proporzionale alla disparità educativa.
C’è un passaggio, nel documento, in cui si dice che «ogni scuola dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione», ossia la libertà di scegliere i docenti che riterrà «più adatti» per realizzare la propria offerta formativa. La metafora calcistica di berlusconiana memoria, rivela esattamente qual è la direzione del governo: portare a compimento il processo di privatizzazione della gestione della scuola intrapreso da Berlinguer con la legge sull’autonomia e, contemporaneamente, completare il percorso di arretramento dello stato inaugurato da Tremonti, fino alla completa dismissione della scuola pubblica. Il preside-manager, costantemente in cerca di sponsor per finanziare la sua scuola, sceglierà e licenzierà discrezionalmente i suoi docenti, affiancato in questo da un nucleo di valutazione in cui la presenza di esterni garantirà forme di controllo politico-culturale ma soprattutto il ritorno economico degli investimenti privati. L’esperienza di Channel One, che in America ha un contratto con 12.000 scuole, imponendo a milioni di studenti in classe dosi quotidiane della sua programmazione televisiva e pubblicitaria, dovrebbe indurre i cittadini italiani a una riflessione seria.
Il resto del documento è pura demagogia. La proposta del servizio civile a scuola, la collaborazione con il terzo settore, l’ingresso del volontariato: un omaggio dell’esecutivo a certa cultura scoutista e democristiana; il riferimento alla sussidiarietà, una strizzata d’occhio a Compagnia delle Opere e a Comunione e Liberazione.
E infine, l’impegno di assunzione di 150.000 precari nel 2015, accompagnato dall’ignobile ricatto a milioni di insegnanti di ruolo che impone di rinunciare al loro attuale status giuridico e di restare inchiodati fino alla pensione al loro miserevole stipendio iniziale. Un impegno spacciato come scelta e come testimonianza della volontà del governo di investire nella scuola, in realtà ineludibilmente imposto dalla procedura d’infrazione avviata a Bruxelles contro l’Italia per la violazione della normativa comunitaria sulla reiterazione dei contratti a termine.
Una promessa da far tremare i polsi in tempi di tagli draconiani e di riforme feudali imposte dalla Troika: ma forse, l’ennesima velleità di chi, assai pericolosamente, «vuo’ fa’ l’americano».
* Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica
agbiuso
Roars ha pubblicato la versione integrale dell’intervista a Valeria Pinto.
Mi sembrano particolarmente rilevanti:
– il riferimento alla efficace (e terribile) metafora di Chomsky della “rana bollita”;
– il significativo ricorso nella scuola -ormai da molti anni- al linguaggio bancario dei “debiti e crediti formativi“, le parole sono sempre cose;
– la piena adesione del governo del Partito Democratico / Nuovo Centro Destra a una visione ultraliberista della scuola (credo che questo sia uno dei più gravi tradimenti che questo partito ha perpetrato rispetto alla propria storia);
– il vero obiettivo di tutto il processo: “Tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale”.
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Valutare e punire nella scuola di Matteo Renzi
di Roberto Ciccarelli e Valeria Pinto, Roars, 14 settembre 2014
Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi? Quali le analogie con l’università? Perché nel mondo della scuola la parola “merito” produce di regola risposte difensive? Come viene ridisegnato il ruolo dei Presidi-Manager? Come mai dagli anni ’80 ad oggi l’istruzione è oggetto di un vero e proprio bombardamento a suon di riforme? La sollecitazione di un coinvolgimento dal basso segna un cambiamento di tendenza? Si va delineando una linea strategica e, se sì, quale? Su questi temi Roberto Ciccarelli intervista Valeria Pinto, l’autrice di “Valutare e Punire”. Una sintesi dell’intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 3.9.2014.
Roberto Ciccarelli: «Il “patto educativo” di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca “Valutare e punire” (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».
Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi?
Valeria Pinto: È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi «preposti». Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i quelli dei cosiddetti «portatori di interessi», interessi che, alla fine, sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende. Anche nell’università la valutazione costituisce ormai l’architrave istituzionale e il nuovo luogo di potere: una concentrazione mai vista prima. Essa è infatti una forma di governo, la forma di governo dello «evaluative State», lo Stato della valutazione. Si chiama «governing by number», governo con i numeri o governo a distanza. A dispetto della parvenza democratica – siamo consultati su tutto ormai, specie online, ma a contare sono solo le opinioni che danno copertura a scelte già fatte – è un governo di controllo capillare teso a «cambiare le menti», come disse Monti premier, di fatto citando la Thatcher.
Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?
Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto anche nell’università, dove forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.
Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?
Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. Si deve a lui, che già parlava di «equità», l’ideazione dell’Anvur. In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale esistente. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo questo ordine. Essa non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.
Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?
Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999, definito oggi da Žižek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una «industria socialista», secondo la celebre espressione di Milton Friedman.
Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?
La forza di questo discorso intimidisce e rincoglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la «cultura della valutazione» – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. È come la rana bollita di Chomsky, quella che all’inizio sguazza felice nell’acqua tiepida. Poi, mentre la temperatura sale, si sente un po’ fiacca ma non se ne dà pensiero, sdrammatizza. Quando l’acqua diventa calda davvero magari sì, si mette sulla difensiva, ma non serve niente, in un attimo è cotta. Ecco che cose che ci avrebbero fatto orrore solo qualche decennio fa sono oggi proposte e accettate come soluzioni «semplici e concrete», secondo una «pragmatica generale» che è la nuova cifra del tempo.
Il governo rilancia il ruolo dei privati nella scuola. Si prospetta una privatizzazione oppure si vuole gestire la scuola – e in generale il pubblico – come se fossero delle aziende?
Le due cose non sono mai state in alternativa: si tratta di formare nuove soggettività flessibili conformi alle regole del mercato. Quello determinato dalla valutazione è un «quasi-mercato», l’analogo del sistema informativo dei prezzi. Sorprendentemente ancora qualcuno si ostina a non vedere il nesso, peraltro dichiarato (basta sfogliare, ad esempio, il recente libro della Fondazione Agnelli La valutazione della scuola).
Qual è l’idea di fondo di questa strategia?
La cosiddetta «school choice». L’intento è fornire alle famiglie le informazioni per scegliere come investire il proprio capitale (in primis capitale umano) e per rendersi quindi responsabili delle proprie scelte ovvero del proprio destino. La conseguenza logica è il modello «voucher» per rendere le famiglie «libere» di scegliere la migliore scuola per i loro figli, nella sostanziale liquidazione della scuola pubblica. Si parte dall’assunto che «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti», presentato come un’evidenza naturale, nella neutralizzazione di qualunque interrogativo sul perché, e si rende semplice buon senso l’ingresso dei privati. Ecco che la finanziarizzazione del sapere diventa qualcosa di molto tangibile.
Tutto questo è presente nella «buona scuola» di Renzi?
Nel «patto educativo» si parla di «finanza buona», di «obbligazioni ad impatto sociale», i «social impact bond» già utilizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La scuola è sempre più risucchiata in un universo di concetti, valori, criteri che ha nel mercato il suo unico riferimento. Questo movimento è cominciato con la trasformazione di sufficienze e insufficienze scolastiche in crediti e debiti. La logica privatistica è funzionale all’ingresso dei privati, ad affari in carne ed ossa, fino al grande business della formazione.
Quali possono essere gli ostacoli che questa ipotetica riforma potrà incontrare sul suo cammino?
Come si farà, ad esempio, nella scuola dell’obbligo ad affidare degli alunni a insegnanti riconosciutamente di serie B o a istituti trasparentemente di serie C? Di fronte a risultati negativi degli allievi, le famiglie dovranno prepararsi a una class action? In un sistema dove l’istruzione è un diritto sancito dalla costituzione, è legittimo che qualcuno abbia insegnanti «eccellenti» e altri abbiano invece insegnanti «screditati»? Ma anche questi scogli saranno superati, perché a questo punto gli insegnanti mal valutati – per qualunque motivo – non potranno che essere allontanati… al momento si parla di mobilità, ma così come si parla di «superare il grigiore dei trattamenti indifferenziati» avendo di mira il contratto collettivo, si potrà ben chiamare «resi finalmente mobili» gli insegnanti accompagnati alla porta.
Una riforma che premia il «merito» ed è basata sulla valutazione è stata già introdotta nell’università dal 2011. Qual è il bilancio?
Quello atteso da chi avesse avuto la pazienza di guardare dove queste pratiche avevano già mostrato le proprie vere finalità: tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale. Poi un po’ di ridefinizione dei rapporti di potere: sostanzialmente una rilegittimazione dei vecchi poteri sotto forma di nuove «tecno-baronie». E soprattutto: nessuna evidenza – nessuna evidenza indipendente – che la valutazione abbia migliorato la ricerca e l’istruzione. D’altra parte non è concepita per questo.
A differenza della riforma Gelmini, Renzi oggi dice di sollecitare il coinvolgimento della scuola. La sua è un’apertura effettiva al dialogo?
Stiamo parlando di processi che sollecitano sempre una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Quello di Renzi non fa eccezione perché fa appello alla convinta partecipazione di coloro che vi sono sottoposti. È sulla base di una consapevolezza indebolita, fiaccata (la rana bollita), che si rende possibile quello che viene definito «patto sulla scuola», espressione che ricorda il patto che Berlusconi diceva di avere siglato con gli italiani. Lo Stato valutativo funziona sempre solo con la sostanziale complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Alla fine, siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione. Bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.
agbiuso
Per la scienza e la cultura
di Francesco Sylos Labini, Roars, 9 settembre 2014
La ricerca scientifica e il sistema universitario si trovano in una situazione drammatica. I frutti avvelenati della Legge Gelmini, coadiuvati dagli interventi dei successivi governi, stanno raggiungendo il loro scopo: sottodimensionare il sistema universitario e introdurre un controllo politico, mai tentato prima, sulla ricerca fondamentale. Obiettivi realizzati, il primo attraverso la riduzione del 20% del finanziamento che è diventato un taglio del 90% del reclutamento e del 100% dei progetti di ricerca di base, e il secondo attraverso la creazione dell’agenzia di valutazione Anvur al di fuori di ogni standard tecnico accettabile e affidato a una casta di professori, adusi a ruoli dirigenziali, scelti dalla stessa Gelmini in base criteri sconosciuti.
Questa situazione, aggravata dagli effetti della crisi economica, è sul punto di compromettere il futuro dellenuove generazioni di ricercatori e dunque la tenuta stessa del sistema. Situazioni simili ma più direttamente connesse alla politica economica imposta dall’Europa, si trovano in Grecia, Spagna, Portogallo e Francia dove ampie coorti di giovani talenti sono costrette ad abbandonare i propri studi e i finanziamenti sono stati drasticamente ridotti. Al contrario del pareggio di bilancio, entrato in Costituzione, il trattato di Lisbona, che si proponeva di portare al 3% la spesa per ricerca e sviluppo, rimane inattuato accentuando lo sviluppo scientifico molto squilibrato degli Stati membri dell’UE che sta alla base della forbice economica tra il nord e il sud dell’Europa.
Nonostante sia assodato che l’investimento statale in ricerca è uno dei motori principali dello sviluppo economico, non c’è nessuno sforzo per dirigere la spesa pubblica verso quei settori di qualità che potrebbero dare, nel medio e lungo termine, una struttura solida al tessuto produttivo. Al contrario, nel campo della ricerca è in atto un trasferimento di risorse finanziarie e umane dai paesi dell’Europa meridionale a quelli dell’Europa settentrionale che ne amplifica le differenze inibendo ogni speranza di ripresa.
Per rimettere al centro dell’azione dei governi la ricerca e l’innovazione, un vasto movimento di ricercatori in tutta Europa sta organizzando una serie d’iniziative il prossimo autunno: gli scienziati devono contribuire efficacemente a superare la crisi economica e morale che stiamo vivendo. In Italia vi sarà una grande mobilitazione “Per La Scienza e La Cultura” per ottenere il rifinanziamento della ricerca di base e del diritto allo studio, per una nuova politica di reclutamento e per la de-burocratizzazione dell’università che deve cominciare proprio dalle dimissioni del Consiglio Direttivo dell’Anvur e dal suo radicale e complessivo ripensamento giacché si è dimostrata nociva e ha dato luogo a un insensato spreco di risorse umane e finanziarie.
agbiuso
Davvero si tenta “la distruzione dell’Università italiana per via burocratica”:
AVA? Un sistema “ottusamente burocratico”
Redazione ROARS, 7 settembre 2014
diego
si, è in gioco la qualità stessa della compagine sociale, e ci si perde sulle singole questioni perdendo il senso del tutto, caro Alberto, grazie della risposta
agbiuso
«Perchè un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo? Chi vorrebbe allevare certe serpi in seno?»
Forse perché è (dice di essere) un potere democratico?
Forse perché tra i docenti e ricercatori non ci sono soltanto filosofi, economisti, scienziati della politica ma anche biologi, fisici, medici, astronomi, ingegneri, agronomi (e così via), vale a dire competenze che non sono ‘serpi in seno’?
Forse perché -come tu stesso accenni- una società senza conoscenza è ineluttabilmente destinata alla decadenza?
Forse perché gli apparati di potere più solidi e raffinati -l’antico Egitto e la chiesa papista, ad esempio- si sono sempre fondati sul potere degli intellettuali?
Forse perché una notevole percentuale di deputati e senatori italiani viene dalle fila dell’Università?
Forse perché i maggiori politici di ogni tempo -che non fossero soltanto dei criminali- hanno sempre finanziato cultura, insegnamento, arti e scienze (i despoti illuminati di tutta Europa furono i maggiori sostenitori degli illuministi francesi)?
Forse perché in una società complessa -come le nostre- la ricerca è una condizione assolutamente indispensabile anche per lo sviluppo economico?
È per tutte queste -e per altre- ragioni che «un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo». Perché senza queste persone il potere non dura. Dovrebbe dunque farlo -come sempre ha fatto- anche per interesse e non per generosità.
Ma per capire tutto ciò bisogna essere un po’ più preparati e pensanti dell’attuale (come anche dei precedenti) primo ministro italiano e dei suoi collaboratori. Un po’ di cultura serve sempre per le proprie ambizioni, soprattutto quando sono smodate.
diego
Credo, nella potenza della mia ignoranza sul tema, che alla fine il nodo gordiano sia il rapporto fra sapere (in specie universitario) e potere. Perchè un apparato statale e il potere che rappresenta dovrebbe retribuire persone che possono criticarlo, combatterlo, smascherarlo? Chi vorrebbe allevare certe serpi in seno? Guarda Marx, non ebbe la possibilità di entrare nel mondo accademico, guarda Spinoza che per essere libero faceva un altro mestiere. D’altro canto (e questo è il mio pensiero) un buon apparato d’istruzione pubblica occorre proprio per formare le menti critiche, libere, le uniche capaci di dare linfa al futuro, alla progettualità sociale, portare aria fresca nelle stanze chiuse delle burocratiche caste. Ma il rapporto è comunque complesso, contraddittorio, irrisolto. Non mi piace uno stato che si occupa troppo dei pensieri, ma so bene che solo lo stato puo’ far studiare chi non è benestante. Dilemmi lontani dalle mie scarse conoscenze e attitudini.
agbiuso
«Così la formazione finisce al servizio delle aziende»
di Roberto Ciccarelli, il manifesto 4.9.2014
Intervista a Valeria Pinto. L’autrice di «Valutare e punire» boccia “il patto” di Renzi: “C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività”
«Il piano di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca «Valutare e punire» (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».
Qual è il ruolo della valutazione nel «patto» sulla scuola?
È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi “preposti”. Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i «portatori di interessi», che alla fine sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende.
Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?
Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto nell’università dal 2011 in poi. Qui forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.
Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?
Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. A lui si deve l’ideazione dell’Anvur e già parlava di «equità». In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandole, dalla giustizia e dall’evidenza dell’ordine che riconosce. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo l’ordine sociale esistente. Non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.
Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?
Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999 e definito oggi da Zizek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera oggi nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una “industria socialista”, secondo la celebre espressione di Milton Friedman.
Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?
La forza di questo discorso intimidisce e riconglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la “cultura della valutazione” – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. Parliamo di un processo che in più sollecita, come fa Renzi sulla scuola, una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Del resto lo stato valutativo funziona così: solo con la complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione, progetti grandiosi. E bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.
agbiuso
Caro D’Ascola, la ringrazio per il suo commento altrettanto icastico.
Sì, è un progetto in gran parte consapevole di restituzione alla condizione servile, imbellettata di formule vuote. “Incomparabile a quello nazista”, perché assai più mimetizzato e inavvertito.
Non dobbiamo mai rinunciare a vedere e a dire ciò che abbiamo visto. La forza di questa visione è indistruttibile.
pasquale d'ascola
Recensione icastica, quasi una sinossi direi, preziosa, di cui mi sono giovato in un attimo. Conferma, il saggio, di quanto vado vedendo da un pezzo da solo a solo, senza confronti, un po’ come Cassandra: un progetto intelligente di devastazione di gran lunga incomparabile a quello nazista. Occorre essere in molti a vedere il peggio, non salva forse ma aiuta a reggere il colpo.
Pasquale D’Ascola
agbiuso
Sono contento che la recensione ti spinga a leggere questo libro.
Uno degli obiettivi di chi recensisce consiste infatti nello stimolare a leggere (o a evitare di farlo) i testi dei quali parla.
Nel caso di Valutare e punire confermo che per chi opera nel mondo della scuola e dell’università si tratta di un’analisi critica davvero preziosa.
poetella
…testo molto interessante. Specie per chi, come me, è nel mondo della scuola e di valutazione sente parlare e sparlare di continuo.
Decisamente un libro che va letto. Provvederò sicuramente.