Meditazione, speculazione, figliolanza
Mente & cervello 97 – Gennaio 2013
Gran parte della sofferenza interiore che proviamo è costituita da ciò che nel gergo psicologico si chiama ruminazione, condizione nella quale «la mente è assorbita da pensieri ripetitivi e focalizzati su precise preoccupazioni» (C. André, p. 44). Uno dei significati delle pratiche meditative consiste nel liberarsi da tale condizione. Per il buddhismo, ad esempio, «la meditazione ha per obiettivo l’eliminazione della sofferenza mentale, come pensieri ossessivi o emozioni negative» in modo da raggiungere l’equanimità, «ossia la facoltà di conservare uno stato emotivo stabile» (A. Lutz, 34-35). Se, come recita un proverbio cinese, non possiamo impedire agli uccelli di volare sopra le nostre teste, possiamo però evitare che facciano il nido tra i nostri capelli. Proprio perché siamo una profonda unità psicosomatica
la riduzione dello stress attraverso la meditazione è di grande interesse per i ricercatori, perché può essere studiata anche a livello biologico dettagliato, in particolare nell’ambito della psiconeuroimmunologia, che studia le connessioni strette e reciproche tra lo stato psicologico e l’attività del sistema nervoso e di quello immunitario, definita «medicina psicosomatica» (C. André, 45).
Non a caso Francisco Varela -più volte citato in questo numero di Mente & cervello– ha coniugato in modo argomentato ed efficace il buddhismo e le neuroscienze. Il buddhismo, infatti, «non invoca l’esistenza di un essere supremo o di una trascendenza. Si propone piuttosto di rimediare alla sofferenza umana attraverso una conoscenza migliore dell’Io e praticando regole semplici e universali» (F. Rosenfeld, 28), le quali sembra abbiano un effetto positivo anche sui telomeri, probabilmente perché queste strutture vengono danneggiate dallo stress, che la meditazione contribuisce invece a tenere sotto controllo. In ogni caso, come la filosofia, «in realtà la meditazione non deve servire a niente» (Id., 31) se non a vivere con misura e a pensare con radicalità.
Esattamente il contrario di ciò che succede nel trafelato, ossessivo e idiota stile di vita di molti contemporanei, tra i quali spiccano i brokers, gli umani che investono e speculano nelle Borse di tutto il mondo. Uno studio neuropsicologico dei loro comportamenti mostra sino a che punto siano dettati da irrazionalità, tanto da confermare l’ipotesi «che gli alti e bassi della borsa sono correlati alla logica della nostra mente più che ai dati economici» (M. Reiter, 81). Hanna e Antonio Damasio hanno scoperto che pazienti con danni permanenti nella corteccia orbitofrontale -e quindi assai meno soggetti alle emozioni- sono capaci di prendere decisioni finanziarie più vantaggiose rispetto agli individui sani. Le crisi che investono le borse sono quindi anche crisi di panico e non soltanto tecnico-economiche. E il panico, si sa, è contagioso. Un celebre esperimento di Salomon Asch dimostrò quanto sia forte il condizionamento del gruppo -anche temporaneo- del quale si fa parte. Se vi chiedono a quale delle tre linee di destra corrisponda la lunghezza di quella di sinistra nella figura qui accanto, nessuno dubiterà che si tratti della n. 2. E tuttavia se alcuni nostri compagni di esperimento -segretamente d’accordo con lo sperimentatore- dichiarano più volte e senza esitazioni che la risposta corretta è la 1 o la 3, molti di noi alla fine concorderanno con questa risposta, per quanto contrasti in modo clamoroso con l’evidenza: «È grave che un singolo operatore prenda decisioni sbagliate […]. Ma in più, seguendo l’istinto del branco, gli investitori miopi, che vendono in preda al panico, si contagiano a vicenda. Un esperimento classico dello psicologo sociale Salomon Asch aveva indicato già nel 1951 che è difficile resistere a una forte pressione dei pari» (Id., 85).
Pressione che costituisce parte del senso di fallimento che molte persone provano per non aver avuto dei figli, tanto da affidarsi in modo totale alle diverse tecniche di fecondazione artificiale e a cadere «in una sindrome ossessivo-compulsiva che induce chi ne è affetto a organizzare tutta la propria vita intorno al tentativo di procreare» (D. Ovadia, 74). Uno dei più gravi nodi psicologici ed esistenziali legato a questa condizione è la vera e propria «perdita di senso della vita. L’idea di invecchiare senza un figlio rende il trascorrere del tempo acutamente doloroso. Solo chi riesce a riconoscere l’importanza del proprio contributo sociale indipendentemente dalla presenza di un bambino può superare questo che sembra essere lo scoglio più duro» (Id., 76). Si tratta dell’ennesima dimostrazione che l’evento del procreare ha ben poco a che fare con l’amore verso l’altro, il nascituro, ed è radicato piuttosto in una forma biologica di amore di sé, di proiezione psichica del proprio narcisismo in un figlio, di esistenziale paura di dover morire per sempre senza lasciare i propri geni in giro per il mondo.
Come avevo già accennato su questo sito, tra le espressioni del conformismo la società dello spettacolo ne amplifica alcune in modo radicale e patologico. Varie serie televisive non soltanto durano anni e decenni ma entrano nella vita di milioni di persone come parte reale e decisiva della loro identità. «Legioni di adolescenti, professionisti, casalinghe, impiegati, persone di ogni età e senza caratteristiche particolari» incontrano «parte dei loro amici -della loro famiglia allargata, si potrebbe dire- all’interno della tv o del computer», tanto che «la fine della propria serie tv preferita può scatenare sintomi depressivi e un senso di angoscia e smarrimento simile a quella generata dalla fine di un amore» (P.E. Cicerone, 88 e 93). L’articolo che ne parla indulge un po’ troppo in un paragone tra serie televisive come le soap opera o fiction quali Lost, Sex and the City, Dr. House e la grande letteratura epica e romanzesca. Un’analogia insensata poiché per la nostra specie l’attenzione visuale, lo scorrere passivo delle immagini che attraversano il nostro orizzonte, è pura natura; il leggere è attività costruttiva della mente, è cultura diventata natura. Anche per questo la lettura costituisce un livello evolutivo assai superiore rispetto alla dipendenza televisiva, la cui essenza è quindi pre-umana e subumana.
5 commenti
Alberto G. Biuso » Memorie e Differenza
[…] elemento che accomuna l’umano alle altre specie sociali è il branco, il conformarsi al branco. I celebri esperimenti di Salomon Asch, ricordati da D. Ovadia (pp. 66-69), hanno mostrato che quando in un gruppo anche ristretto la […]
aurora
la meditazione è una espressione del vivere bella e utile per chi considera il dolore come una componente inevitabile del vivere, come dicevano i nostri vecchi “Non tutto il male viene per nuocere”a scuola dovrebbero insegnare le tecniche della meditazione,parlo della scuola dell’obbligo,per i cattolici è impensabile perchè con il concordato alla scuola statale si parla molto il linguaggio cattolico apostolico romano
Laura Caponetto
“Le crisi che investono le borse sono quindi anche crisi di panico e non soltanto tecnico-economiche. E il panico, si sa, è contagioso”.
Il riferimento al “contagio da panico” mi fa venire in mente il concetto di “profezia che si autodetermina” (Paul Watzlawick et al., 1971): una profezia, cioè, che si fa atto nel momento stesso in cui viene enunciata. Se un grosso analista azionario preannuncia l’imminente crollo di un determinato titolo, è molto probabile che buona parte degli investitori decida di vendere le proprie azioni, causando così quel crollo. Ci troviamo di fronte a una situazione in cui si ritiene di essere vittime degli eventi, non sapendo di averli provocati. Manca l’hegeliana consapevolezza della coincidenza tra soggetto e oggetto, insomma. Una simile profezia non è nulla di profetico in senso stretto: non c’è alcun Dio che parla per bocca di. A parlare – e a diffondersi a macchia d’olio – è semmai il panico.
agbiuso
Non è affatto banale, caro Diego, e anzi ti ringrazio molto per aver evidenziato la differenza tra cinema e televisione.
Le immagini cinematografiche (viste in una sala, come giustamente sottolinei) non sono paragonabili a quelle televisive e sono assai più vicine alla letteratura. Esse consistono infatti in un nucleo narrativo che si dipana in modo unitario (non a puntate), esclusivo (senza possibilità di zapping), coerente e non interrotto (in un tempo dentro il quale deve accadere tutto, come all’interno delle pagine di un libro). E questo al di là della qualità della realizzazione, della trama, degli scopi (commerciali o artistici).
È poi molto importante, come ancora una volta accenni, il fatto che un film al cinema venga scelto e non subìto, che comporti una differenza rispetto allo spazio casalingo, che nella sua fruizione si debba rimanere concentrati. Uno degli effetti negativi del consumo televisivo sta nel fatto che -abituati e esso- alcuni spettatori tendono a non rispettare il silenzio che la sala buia impone, tanto che a volte mi trovo a rimproverare non dei ragazzini ma degli austeri signori ed eleganti signore chiedendo loro di tacere.
Il grande schermo è l’unico che permetta di immergersi nei colori e nella potenza delle immagini, in quella grande placenta che è la sala buia, memoria proustiana della placenta nella quale sentivamo la madre narrare se stessa.
Chi vede un film soltanto sullo schermo televisivo o sul monitor di un computer gusta in realtà un liofilizzato dell’opera. A casa i film si possono al massimo rivedere ma il cinema è soltanto fuori.
diegob
Caro alberto, nella parte finale di questa interessante recensione (anch’io leggo la rivista, con buona soddisfazione), accenni ad un concetto tanto semplice quanto utile a far capire l’importanza della lettura.
Il «leggere» è attività che comporta comunque un uso più vigile ed cosciente della nostra mente.
Siccome tu accenni anche, giustamente, alla televisione come elemento chiave di quella sorta di «invasione» delle coscienze, delle menti, mi viene da fare un paragone con il cinema (il cimema visto in sala, intendo). In fondo anche il cinema è immagine e non è lettura ma, a pensarci bene, è molto meno dannoso della televisione per il semplice fatto che al cinema «ci vai», alzi le natiche dal divano e ci vai. È un atto che già di per se stesso muta il rapporto di fruizione. Forse è una cosa banale, ma secondo me va rilevata.