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Modelli cognitivi e comportamento animale

Modelli cognitivi e comportamento animale

Recensione a:
Roberto Marchesini
Modelli cognitivi e comportamento animale. Coordinate d’interpretazione e protocolli applicativi
Edizioni Eva, 2011
Pagine 180

in Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio
Volume 6, numero 2 (2012)
Vygotskij and language / Vygotskij e il linguaggio
(a c. di F. Cimatti, L. Mecacci, E. Velmezova)
Pagine 260-262
Liberamente leggibile in formato pdf

7 commenti

  • agbiuso

    Dicembre 15, 2012

    Le tue, caro Diego, non sono “categorie valoriali un po’ romantiche” ma piuttosto la giusta preoccupazione per un fenomeno che Konrad Lorenz ha analizzato molto bene, vale a dire lo iato tra la capacità di (auto)distruzione tecnologica, che è un risultato culturale avanzatissimo, e il persistere di tendenze innate e quasi automatiche nell’uso della forza/violenza, che ci rende molto vicini ai nostri antenati nella scala evolutiva.
    La nostra specie avrebbe quindi sviluppato delle funzionalità tecnologiche alle quali non è corrisposta un’altrettanto profonda evoluzione etico-politica.
    E tuttavia lo stesso Lorenz, a conclusione del suo Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), scrive che “il riarmo atomico comporta per l’umanità dei pericoli che sono più facilmente evitabili di quelli rappresentati dai sette minacciosi processi sopra elencati” (Adelphi 1992, p. 141).
    In ogni caso, come ho già accennato, il mio pensiero è che se la specie arriverà ad autodistruggersi vorrà dire che se lo sarà meritato. Mi dispiace per gli altri animali e per l’intera natura, che non c’entrano nulla con i nostri deliri.
    Il lavoro filosofico è un lavoro di lucida comprensione degli eventi e delle loro cause; in questo senso, come afferma Laura, è la condizione per non subire passivamente l’accadere.

  • Laura Caponetto

    Dicembre 15, 2012

    Esistono robot da guerra, ma esistono anche robot che rimpiazzano gli “animali da laboratorio”, tanto per fare un esempio. Per difenderci dagli effetti potenzialmente letali della tecnologia occorre non solo Platone, ma proprio Platone. Tra gli apocalittici e gli integrati (come direbbe Eco e come disse una volta a lezione Biuso) ci stanno (o quanto meno dovrebbero starci, nel giusto ordine delle cose) i filosofi, le menti pensanti nel vero senso della parola, quelle che si pongono problemi anziché darsi acriticamente risposte, quelle che si interrogano sui mutamenti sociali operati dalle nuove tecnologie anziché subirli passivamente. Ogni progresso può trasformarsi in regresso se non è incanalato nella direzione corretta da chi ha la lucidità intellettuale, l’onestà e le competenze per farlo.

    P.s. Non ti avrei perdonato per l’utilizzo del “lei”, Diego 🙂 Grazie a te e al prof. Biuso per le belle parole nei miei confronti.

  • diego b

    Dicembre 15, 2012

    La sig.rina Laura mi perdonerà l’uso del «tu», ma io non sono un professore quindi non sono tenuto a quel giusto rispetto che impone il «lei» verso i propri discenti.

    Veramente bello quel breve saggio, e preziosa quella piccola casa editrice pistoiese, così poco nota al grande pubblico.

    Mi permetto, caro Alberto, di sottoporre un dubbio. Ho letto con attenzione i tuoi capitoli su Gehlen, anche i riferimenti qui sul sito. Gehlen si riferisce molto anche alle istituzioni, oltre che alla tecnologia.

    È sulla tecnologia che nutro un dubbio. Per me la tecnologia umana, il potere telematico che fascia il pianeta, la potenza delle tecniche industriali e militari attuali, si sono spinte oltre un limite per così dire «disumano». Pensa ad esempio all’uso sempre più frequente dei robot in guerra, dove la scelta di uccidere sempre di più sarà delegata alle macchine.
    È vero che forse io sono semplicemente imbevuto di categorie valoriali un po’ romantiche, chiedo scusa delle mie fesserie, ma ce la faremo davvero, Alberto, a difenderci con Platone dal mostro del potere tecnologico?

  • agbiuso

    Dicembre 14, 2012

    Caro Diego,
    cercherò di risponderti con il riferirmi al fondatore dell’antropologia filosofica contemporanea –Arnold Gehlen-, nonostante si tratti di un filosofo duramente criticato da Marchesini.
    Quest’ultimo, infatti, rifiuta l’interpretazione gehleniana della cultura come sostitutiva di una dotazione naturale “carente”. Senza la cultura/tecnica, in pratica, l’umano non avrebbe avuto secondo Gehlen alcuna possibilità di sopravvivenza, vista la sua mancata specializzazione e la sua carenza di risorse innate rispetto ad altre specie. Tutto questo tu lo sai già da Antropologia e Filosofia.
    Marchesini ritiene invece che ciò che chiamiamo cultura sia proprio “la caratterizzazione etografica” di cui siamo dotati per natura.

    Comunque stiano le cose su questo punto, io credo che l’innato e l’appreso siano due declinazioni della stessa identità umana e che -per arrivare al punto- l’ibridazione con l’alterità artificiale sia costitutiva della nostra specie. Non si può, quindi, parlare di un “oltrepassamento della soglia”, visto che su questa soglia stiamo da sempre o, meglio, che noi stessi siamo tale soglia. Qualunque raggiungimento, invenzione, tecnologia è -per dir così- inscritta non soltanto nella nostra storia ma anche nei nostri geni. In fondo è anche questo che vuol dire Heidegger quando parla della tecnica come “destino della metafisica”.

    Forse la domanda implicita nella questione che hai posto è questa: E se lo sviluppo di tali potenzialità conducesse la specie all’autodistruzione? Io credo che questo significherebbe che l’autodistruzione è anch’essa inscritta nella nostra natura.
    Sorgono così delle questioni che vanno al di là dell’antropologia e toccano ambiti molto più radicali. Ho provato a parlarne in un saggio di alcuni anni fa dal titolo Esistenza e colpa. Sul fondamento metafisico del mondo morale, oggi messo liberamente a disposizione come ebook dall’editore.
    In ogni caso, l’osservazione di Laura Caponetto è pertinente: la hybris non riguarda noi (se la nostra hybris, come tu scrivi, è “inevitabile”, vuol dire che essa coincide con noi stessi) ma semmai le nostre relazioni con le altre specie.

    Sì, Diego, Laura è una delle mie migliori laureande e i suoi interventi sono assai lucidi. Grazie a te e a lei per questa discussione.

  • diegob

    Dicembre 14, 2012

    grazie delle precise e significative spiegazioni, gentile Laura C. (sempre i tuoi interventi sono davvero preziosi e belli anche come scrittura)

    in effetti però, specialmente nella 4a parte de «La mente temporale» l’ibridazione fra uomo «biologico» è congegni artificiali sofisticati non mi pare sia limitata ad un «potenziamento» dei sensi o di una qualità fisiologica, ma proprio uno spostarsi, un allargarsi, un tracimare della mente, che è un processo, anche nel territorio non biologico ma tecnologico, quindi uno spostarsi del «confine» di cosa è l’uomo

    ovviamente puo’ essere che io, lettore vorace ma un po’ artigianale diciamo, abbia frainteso

  • Laura Caponetto

    Dicembre 14, 2012

    Connotare in senso evolutivo l’intelligenza significa innanzitutto concepirla come una “caratteristica fra le caratteristiche”, che si è formata modellandosi in relazione al sostrato biologico della specie. Questo è uno dei motivi per cui l’IA (intesa come riproduzione perfetta – e intercambiabile – dell’umano), e con essa la realizzabilità multipla, è una chimera. Il sistema nervoso degli animali si è evoluto come dispositivo di controllo di organismi già dotati di svariati altri sistemi di controllo altamente distribuiti. I nuovi sistemi di controllo neurale si forgiarono dunque in modo da essere compatibili con i precedenti. Ciò, come sostiene Daniel Dennett, comportò un numero di trasduttori incredibilmente elevato, che rendono il sistema nervoso non neutrale. Pertanto «quando costruisci una mente, il materiale conta» (D. Dennett, La mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza, Rizzoli, Milano 1997, p. 88).
    Concordo con Marchesini e con Biuso nel ritenere che la cognitività (e con essa il linguaggio articolato) – lungi dall’essere un “lusso” – sia una caratteristica adattativa funzionale alla sopravvivenza e all’azione dell’uomo nel mondo. Del resto proprio lo stesso Darwin, se si fornisce del suo lavoro un’interpretazione non strumentale, scardinava l’idea della superiorità dell’uomo. Specializzazione non equivale a emancipazione: l’uomo non si emancipa dagli animali (liberandosi così da un presunto stato di minorità intellettiva), ma costituisce una specie assolutamente particolare tra le specie che compongono l’universo plurale dell’animalità.

    In merito alla questione posta da Diego (mi permetto di dire la mia anche se la domanda era rivolta al prof. Biuso!) … Gli animali possiedono notoriamente sensi più sviluppati dei nostri. Pertanto, in diversi ambiti riescono a discriminare molti più dettagli dell’uomo – o meglio dell’uomo “nudo”. L’uomo, infatti, ha la capacità di servirsi di estensioni prostetiche che gli consentono di sopperire ai suoi limiti (ma non a tutti) e di soddisfare quella fame di sapere che è – tanto quanto i limiti che vuole oltrepassare – intrinseca alla sua natura. Ritengo che il peccato di hybris non risieda nell’ansia di costruire dispositivi tecnologici che sopperiscano alle mancanze del corpo, quanto nell’idea che tale potenziamento legittimi la presunzione umana di superiorità e consegni all’homo sapiens lo scettro della natura, ovvero la possibilità di decidere – nel bene e nel male – della sorte delle altre specie.

  • diegob

    Dicembre 14, 2012

    La tua recensione, caro Alberto, è ovviamente ben scritta e riecheggia temi che i tuoi lettori ritrovano frequentemente.

    L’idea che non esistono «gli animali» come concetto che demarca una differenza radicale rispetto all’umano è ormai ababstanza diffusa, per lo meno fra gli studiosi e gli appassionati di queste materie.

    L’idea chiave è la mente come il processo che assorbe gli stimoli sensoriali e poi rielabora la risposta di un organismo agli accadimenti, per cui la differenza fra il processo mentale di un paramecio e quello di un professore di filosofia è solo una differenza quantitativa, di dilatazione temporale e ampiezza dell’elaborazione, ma è sempre lo stesso modello a entrare in funzione.

    Però, e questo ricorre nell’ultima parte de «La mente temporale» e in «Cyborgsofia», la mente umana è già parzialmente tracimata nei supporti informatici, negli ausili frutto di uno sviluppo tecnologico in effetti «esplosivo» rispetto a quel che accade agli altri animali.
    Insomma, Alberto carissimo, ho un dubbio: d’accordo, siamo «tutti» animali, sia l’homo sapiens come anche la lumachina che studiava Kandel, ma non è che, in qualche modo, abbiamo comunque varcato una qualche soglia, una qualche hybris, peraltro inevitabile?

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