Mente & cervello 91 – Luglio 2012
In molti modi gli umani cercano di essere felici. Un limite sta nel pensare di poterlo essere da soli. Una condizione di serenità e di equilibrio con se stessi dipende anche dalla Gemeinschaft, dalle comunità di cui siamo parte e la relazione con le quali ci offre sicurezza: «Diener e colleghi hanno scoperto che le persone religiose beneficiano psicologicamente della loro fede ma solo se vivono in società dove la religione è molto diffusa. Così, un estroverso in una nazione “introversa”, come in Giappone, o una persona religiosa che vive in una nazione “non religiosa”, come la Svezia, sono meno felici di altri la cui personalità è in linea con la società in cui vivono» (S. Pilleggi Pawelski, p. 32).
La felicità è anche una differenza ermeneutica. Non esiste, infatti, una strada unica e omogenea per raggiungerla ma ogni comunità e ogni individuo hanno la propria, in gran parte dipendente «da una valutazione più ragionata delle soddisfazioni che la vita ci regala» (p. 28). Un modo della felicità, o almeno della soddisfazione, sta anche nel «parlare di sé [che] è gratificante quasi quanto mangiare e fare sesso» (S. Romano, 24).
Le forme della tristezza sono ancora più numerose di quelle che esprimono serenità. Tra le loro manifestazioni particolarmente femminili ci sono «l’antica arte di esprimere l’aggressività in forma passiva, ostentando perpetuamente il [proprio] malessere» (S. Argentieri, 10) e quella «convinzione che la vita debba essere necessariamente una continua, dolorosa e frustrante ricerca di una perfezione impossibile», la quale conduce a disturbi alimentari quali l’anoressia e la bulimia (F. Cro, 60).
Universale è il rischio sempre incombente di smarrire anche quel poco di senno che abbiamo in dote. Per fortuna la follia è a volte «compatibile con le più alte espressioni della mente», come dimostra il caso del grande iconologo e studioso dell’arte Aby Warburg (V. Andreoli, 17).
Se nessuna macchina e nessun programma computazionale sono sinora riusciti a superare il Test di Turing (al fondatore dell’informatica è dedicato un ritratto in questo numero di Mente & cervello) è forse anche perché non essendo essi corporeità protoplasmatica sono incapaci di essere felici, tristi, folli.
4 commenti
aurora
La felicità è uno stato d’animo,a volte c’è,a volte non c’è
agbiuso
La risposta, caro Diego, è che non lo so.
Le condizioni che indichi, e altre simili, farebbero somigliare sempre più una macchina a un umano (o in ogni caso a un animale consapevole) ma la mia opinione è che si tratterebbe di una semplice analogia -per quanto forte- con il corpomente. Quest’ultimo, infatti, è frutto di un lunghissimo processo non soltanto ontogenetico,individuale, ma anche filogenetico, di specie. Frutto dunque di milioni di anni di evoluzione. Ho l’impressione quindi che senza la densità di tali processi biologici non si possa avere un corpomente. Ancora una volta, senza il tempo non si dà l’umano, la sua coscienza, il suo sapere di esserci.
diegob
approfitto di questo passaggio caro alberto, per porti una domanda, su questo punto della questione corpomente
secondo te, dotando una macchina di una sua propria corporeità (per esempio arti sensibili) e poi anche di una memoria capace di registrare eventi (mettiamo che la macchina apprenda per esempio a «temere» la pioggia e quindi a ripararsi se piove) e poi anche di un centro di coordinamento capace di analizzare gli aventi accaduti alla macchina e in grado di concepire la conservazione della «vita» della macchina come il suo scopo principale, potrebbe scaturire, quando i processi fossero molto articolati, una mente?
diegob
nessuna macchina e nessun programma computazionale sono sinora riusciti a superare il Test di Turing
questo è già molto chiaro nelle prime illuminanti pagine di un saggio scritto da un filosofo di mia conoscenza, dal titolo curioso: «cyborgsofia»
battute a parte, caro alberto, questo è il tema fondamentale: una mente vera è un processo che emerge dalla corporeità