Il 19 luglio del 1992 Paolo Borsellino veniva massacrato insieme alla sua scorta. Dopo qualche settimana un mio conoscente catanese, imparentato con una delle famiglie mafiose più potenti dell’Isola, mi disse che le morti di Falcone e Borsellino erano state in realtà un favore fatto da Cosa Nostra a importanti uomini politici. Pensai, naturalmente, che fosse un modo per giustificare i suoi familiari. Invece aveva ragione. L’ultima conferma è il modo con il quale Giorgio Napolitano si comporta alla prospettiva che si sappia quanto si sono detti lui e Nicola Mancino, che nel 1992 era ministro degli interni e con il quale Borsellino si incontrò pochi giorni prima di morire. Un incontro dal quale il giudice siciliano uscì sconvolto.
Invece di contribuire all’accertamento della verità -o almeno della verosimiglianza- su quella tragedia, la massima carica della repubblica italiana attacca i magistrati palermitani che indagano tra grandi difficoltà su quei fatti. Inserisco qui sotto il decreto con il quale Napolitano solleva un conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Per comprendere il significato di questo testo, nel quale le parole sono utilizzate per nascondere e non per comunicare, consiglio la lettura del breve commento di un giurista che ben ne chiarisce il contenuto e dell’intervista a un altro giurista il quale afferma che rispetto a quanto asserisce Napolitano «le norme dicono l’opposto a lettori informati ed equanimi». La sorella e il fratello di Borsellino esprimono giustamente il loro sconcerto di fronte a tutto questo. Ai miei occhi è l’ennesima conferma della natura criminale dello Stato. Elias Canetti sostiene che il segreto indicibile è uno dei nuclei del potere. È vero. Il contenuto dell’incontro di Borsellino con Mancino era segnato nell’agenda rossa del magistrato, che fu sottratta da un carabiniere in occasione dell’attentato. Il contenuto dei colloqui tra lo stesso Mancino e Napolitano deve rimanere segreto. Possiamo intuire perché.
Se non fossero morti nel 1992, Falcone e Borsellino sarebbero stati accusati, disprezzati, emarginati dai governi -in gran parte berlusconiani- che si sono poi susseguiti, dalla stampa, da molti dei loro colleghi, da chi oggi li celebra. Dallo Stato e dalla società.
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agbiuso
Le affermazioni, i giudizi, i sentimenti di Totò Riina sono quelli di un feroce analfabeta che mai ha visto luce nella sua esistenza.
Ma più orrende ancora sono le vite di coloro che hanno letto libri, conoscono la storia, sanno fare politica e che hanno depistato le indagini, hanno taciuto, ostinatamente rifiutano ogni domanda.
E stanno ancora molto in alto, sino a che -speriamo presto- la morte farà precipitare anche loro nel gorgo del nulla che sempre li ha attraversati.
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Strage via D’Amelio, Riina: “Borsellino era intercettato da Cosa nostra”
Cosa Nostra conosceva gli spostamenti di Paolo Borsellino perché avrebbe messo sotto controllo i telefoni del giudice e dei suoi familiari. Per questo il 19 luglio 1992 fu facile per boss e picciotti pianificare e mettere in atto la mattanza di via Mariano D’Amelio, sotto la casa della madre. “Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: ‘domani mamma vengo’”. A confermare un sospetto su cui investigatori e magistrati hanno lavorato per anni è Totò Riina mentre parla con il detenuto Alberto Lorusso, durante l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. Adesso il testo di quelle conversazioni intercettate dalle microspie della Dia sono depositati agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo. Durante i processi sull’attentato di via D’Amelio, avvenuto 57 giorni dopo la strage di Capaci, era emersa l’ipotesi che le utenze di Borsellino fossero controllate dagli uomini di Cosa nostra.
“Ma mannaggia – prosegue Riina – Ma vai a capire che razza di fortuna. Alle cinque mi sono andato a mettere lì”. “Quello senza volerlo – spiega il capomafia corleonese – le ha telefonato”. “Troppo bello: sapevo che ci doveva andare alle cinque. Piglia, corri e mettigli un altro sacco”, continua Riina facendo intendere, secondo gli inquirenti, che dopo avere sentito la conversazione tra Borsellino e la madre, evidentemente intercettati dalla mafia, si affrettò a imbottire la 126 usata come autobomba con un altro sacco di esplosivo. “Minchia come mi è riuscito”, aggiunge.
Pesanti, poi, i giudizi espressi sulla sorella del magistrato ucciso, Rita: “Una disgraziata – dice a Lorusso – la vedi inviperita nel telegiornale, quanto è inviperita la disgraziata, non ha digerito la morte di questo suo fratello che ci ha suonato il campanello a sua madre”.
Ma non è l’unica rivelazione che il capo dei capi confida all’ambiguo detenuto pugliese, Lorusso. Riina, come già emerso grazie ad alcune indiscrezioni a marzo, rivela che fu lo stesso Borsellino, suonando il campanello dove era stato piazzato un telecomando, ad azionare la bomba nascosta nella 126 parcheggiata davanti alla casa della madre che uccise anche gli uomini della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo.
“Questa del campanello però è un fenomeno… Questa una volta il Signore l’ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto”. “Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla… Ma lui l’attiva lo stesso”, commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Ma la morte di Borsellino, per Riina era un’ossessione. Il boss racconta di avere cercato di uccidere l’ex giudice del pool che istruì il maxi processo per anni. “Una vita ci ho combattuto – dice – una vita… Là a Marsala (il magistrato dopo aver lascito Palermo divenne procuratore capo a Marsala, ndr)”. “Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?” si chiede Riina. “Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre”, aggiunge confermando che a innescare l’esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre. “Minchia – racconta – lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E’ troppo forte questa”.
La dinamica di Riina non è totalmente smentita dagli inquirenti. Secondo cui, Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell’autobomba, l’impulso che avrebbe innescato l’esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l’attentato al rapido 904, avvenuto il 23 dicembre del 1984 nei pressi della Grande galleria dell’Appennino tosco-emiliano, per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell’esplosione. E via D’Amelio essendo una strada stretta e chiusa avrebbe fatto correre troppi rischi a chi avrebbe schiacciato il pulsante.
“Le conversazioni di Riina su Borsellino e sulla strage di via D’Amelio svelano particolari che lasciano sgomenti: lo Stato non era in grado di proteggere Paolo Borsellino, addirittura non rimosse le auto parcheggiate davanti casa della mamma, mentre Cosa nostra sembra che ne controllasse i movimenti, addirittura intercettandolo”. Questo il commento del senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia.
“Continuo a ribadire – aggiunge – la necessità di fare il possibile affinché emergano tutte le verità, anche quelle più amare e terribili. Bisogna accertare le responsabilità nelle stragi del ’92/’93″. “Giovedì prossimo – conclude l’esponente del Pd – con la Commissione antimafia avremo un’importante audizione con il direttore del carcere di Opera, da dove Riina è stato intercettato. Utilizzando tutti i poteri previsti dalla legge istitutiva della Commissione, partiremo proprio da quelle conversazioni per continuare a fare luce sul periodo stragista”.
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Fonte: il Fatto Quotidiano, 22.7.2014
agbiuso
Quella povera cosa che è Eugenio Scalfari viene giustamente rasa al suolo dall’articolo con il quale Paolo Flores D’Arcais risponde all’accusa di essere “fascisti di sinistra” rivolta da Scalfari a tutti coloro che hanno criticato Napolitano.
Fonte: Micromega.
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Eugenio Scalfari ha dato del “fascista” a chi critica le tesi del Quirinale sul conflitto con la Procura di Palermo. Un’accusa infamante, secondo il più classico stilema staliniano di chi, in mancanza d’argomenti, vuole intimidire i dissidenti. Così, per discutere nel merito, il direttore di MicroMega lo sfida ad un confronto pubblico.
[Questo articolo può essere riprodotto integralmente o parzialmente da qualsiasi testata, purché venga citata per esteso la fonte]
di Paolo Flores d’Arcais
Fascisti di sinistra. Questa l’offesa sanguinosa, l’oltraggio irricevibile per ogni democratico, scagliato da Eugenio Scalfari. Che a conclusione del suo incenso per la sentenza già scritta (così Gustavo Zagrebelsky) della Corte Costituzionale pro-Napolitano, accusa chi si è fin qui opposto alle tesi del Quirinale di aver manifestato una “consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra”. Tratti pure da eversore chi non la pensa come lui, ma “fascista” questo no, questo non è tollerabile, Scalfari ha passato il segno.
Oltretutto, tra quanti hanno sostenuto la posizione che a dire di Scalfari merita tanto infamante etichetta ci sono tre dei più illustri collaboratori del quotidiano da lui fondato (in primis Franco Cordero, che il giorno dopo il peana scalfariano ha scritto proprio su “la Repubblica” un testo di micidiale razionalità che rade al suolo quel “Te Deum”, cospargendovi sale). Oltre a MicroMega e al modestissimo sottoscritto, suo direttore. E ovviamente all’intera equipe del “Fatto quotidiano”, cha ha su Scalfari ormai l’effetto del drappo rosso sul toro. Dunque, se si deve rispettare la logica (e Scalfari la vuole certamente rispettare, poiché ha da tempo annunciato di sentirsi soprattutto un filosofo) il fondatore di Repubblica ha dato del “fascista” anche ad alcune delle personalità più eminenti della sua stessa testata. L’aggiunta “di sinistra” non attenua, visto che molti fascisti “di sinistra” erano estremisti del regime, pasdaran diremmo oggi, fascistissimi, insom-ma.
Naturalmente si può non rispondere, si può tacere per sovrabbondanza di carità cristiana o per la profondità del disprezzo (e/o della pena) che l’autore dell’insulto, con la sua enormità, può generare nell’animo di chi lo subisce. Io invece, in nome della stima, e perfino dell’affetto che fino a qualche tempo fa ho nutrito per Eugenio, non lo snobberò col silenzio ma considererò piuttosto la sua infamante accusa “sine ira et studio” (come insegna il suo collega Spinoza).
E in primo luogo: Scalfari con l’espressione “sembra quasi”, preposta a “un fascismo di sinistra”, potrebbe volersi ispirare al principio etico di cautela che il suo collega filosofo Hans Jonas riteneva ormai imprescindibile. Escludo a priori, infatti, che la sua ingiuria nasca dal riflesso automatico di chi il “fascismo di sinistra” lo conosce perché lo ha fatto (secondo la lezione “verum et factum convertuntur” di un altro suo collega, il Vico). Tali riflessi pavloviani sono più frequenti in chi vuole rimuovere un passato scomodo, e invece Scalfari ha ammesso i suoi trascorsi fascisti tanto in una lunghissima intervista a Pierangelo Buttafuoco sul “il Foglio” di Giuliano Ferrara del 29 maggio 2008, quanto nel recentissimo “Meridiano”, aperto dalle 66 pagine del suo “Racconto autobiografico”, dove a pag.LXXXVI ricorda che scrisse su “Roma Fasci-sta” parecchi articoli, “sul partito, sulla guerra, sull’Europa del futuro come sarebbe stata dopo la vittoria dell’Asse, che era fuori discussione” (veniale la dimenticanza del tema razza e antiebraismo, quando in un articolo del settembre ’42 inneggia al “fattore principale e necessario” dell’Impero: “la volontà di potenza quale elemento di costruzione sociale, la razza quale elemento etnico, sintesi di motivi etici e biologici che determina la superiorità storica dello Stato nucleo e giustifica la sua dichiarata volontà di potenza”, reiterando con: “Gli imperi moderni quali noi li concepiamo sono basati sul cardine ‘razza’, escludendo pertanto l’estensione della cittadinanza da parte dello Stato nucleo alle altre genti”).
Quello di Scalfari, inoltre, non è un riflesso condizionato, poiché egli ha bensì sempre ammesso il suo fascismo, ma fascismo tout court, senza pretendere di fregiarsi di un “fascismo di sinistra”. Il suo prudenziale “sembra forse”, perciò, oltre che una dotta citazione filosofica da Jonas, non esplicitata per modestia (secondo l’insegnamento “vivi nascosto” di un altro collega di Scalfari, Epicuro) deve avere una diversa spiegazione (un filosofo non scrive mai nulla a vanvera). L’unica plausibile è una moderata presa di distanza da Iosif Vissarionovič Džugašvili detto Stalin, di cui Scalfari ha deciso di assumere epiteti, linguaggio e “logica” ma con il quale non vuole completamente identificarsi. Accusare di “fascismo” chi a sinistra non si allinea è infatti il più classico stilema staliniano, la forma più vieta della retorica sia del “Padre dei popoli” che del “Migliore” tra i suoi allievi, una sorta di biglietto da visita di chi, a sinistra, in mancanza di qualsiasi argomento vuole bollare e intimidire dissidenti, pericolosi per la ricchezza di ragioni logico-fattuali in grado di addurre.
Probabilmente non è un caso, perciò, ma un cortocircuito dell’inconscio, freudianamente rivelatore, se l’infamante chiusa scalfariana contro chi ha osato dubitare dell’assolutezza delle sue “ragioni” è il sigillo staliniano a un articolo/ditirambo pro-Napolitano, quello stesso Napolitano che nel Congresso del Pci chiamato a discutere la rivolta operaia d’Ungheria del ’56 (“fascista” secondi i gerarchi dell’Urss) e a reprimere il dissenso motivatissimo di Antonio Giolitti contro i carri armati, si esibiva in un peana staliniano d’annata: “L’intervento sovietico in Ungheria … ha contribuito, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione … a salvare la pace nel mondo”.
Quanto agli argomenti sulla questione Napolitano vs Procura di Palermo, propongo a Scalfari un’ovvia sfida: un confronto pubblico, in un teatro o in una trasmissione televisiva, non appena la Consulta avrà pubblicato la motivazione della sentenza. Sfida ovvia, poiché la filosofia è essenzialmente dialogos e altrettanto ovvio che un filosofo quale è Scalfari a questa forma di riflessione con cui il suo collega Socrate ha inaugurato la storia del pensiero Occidentale troverebbe umiliante sottrarsi.
(8 dicembre 2012)
agbiuso
“Se un italiano qualunque fosse indagato dalla Procura di Palermo in merito alla trattativa Stato mafia e telefonasse al Quirinale, qualcuno forse gli risponderebbe? Se poi, anche con una certa insistenza, miracolosamente, riuscisse a chiedere consigli direttamente o indirettamente a Napolitano in merito alle accuse che gli vengono mosse, gli verrebbe data retta? O verrebbe invece dissuaso da un pronto intervento delle Forze dell’Ordine? Oppure, come dovrebbe essere scontato, il Quirinale chiamerebbe i magistrati raccontando per filo e per segno le richieste improprie ricevute?
Se l’italiano al telefono si chiama Nicola Mancino, ex ministro degli Interni al tempo dell’assassinio di Paolo Borsellino (che uscì dal suo ufficio sconvolto dopo la sua ultima visita) c’è per lui un apposito numero verde, un call center presidenziale e una consulenza giuridica su misura”.
Leggete anche il resto.
agbiuso
Sul Fatto Quotidiano di oggi Marco Travaglio fa giustamente a pezzi –esattamente in dieci pezzi– le interpretazioni, le menzogne e le miserie di Eugenio Scalfari.
Una delle espressioni e insieme delle cause dell’indecenza dell’Italia sono le sue televisioni e i suoi giornali, dei quali ormai la Repubblica rappresenta un esempio tra i più penosi.
In un’informazione così desolata e desolante, per fortuna si può ancora ascoltare qualche voce razionale.
agbiuso
L’editoriale odierno di Eugenio Scalfari è di grande conforto. Infatti a leggerlo si capisce che neppure questo strenuo difensore di Monti-Napolitano ha davvero argomenti da opporre a quelli con i quali Gustavo Zagrebelsky ha mostrato tutta la sconsideratezza di Napolitano, il quale ha, semplicemente, “torto marcio“.
Biuso
La gravità di quanto sta accadendo tra Roma e Palermo viene taciuta dalla “grande stampa” (della TV non mette conto parlare), compreso il “foglio progressista e democratico” che si chiama la Repubblica.
Democrazia vuol dire anche andare periodicamente a votare ma significa soprattutto divisione dei poteri e presenza di una stampa che dà le notizie e critica il potere.
L’Italia è dunque una democrazia assai debole.
agbiuso
Alcuni fatti confermano il marcio che intesse tutta questa vicenda, marcio che parte dall’alto.
Filippo Scuderi
Ipotizziamo che un Magistrato debba emettere un mandato di cattura contro un personaggio mafioso, ipotizziamo che questo Magistrato firmi il mandato di cattura con un suo codice personale, ipotizziamo che il processo è eseguito con il Giudice protetto dietro una gabbia, e l’accusato non può guardarlo e non può conoscere il suo nome, allora in questo caso come si fa a far saltare in aria un Giudice con tutta la sua scorta? Solo se lo stato trasforma quei numeri della firma in un nominativo.
Cinzia
Il vero significato delle parole “scongiurare sovrapposizioni delle indagini… = sottrarre le indagini alla procura di Palermo”; “pubblicità improprie…=legge bavaglio e controllo delle intercettazioni”. Già nel IV secolo a.C Aristotele attribuiva l’uso improprio o distorto delle parole ai sillogismi euristici o ai paralogismi. Queste vecchie tecniche sono ancora in uso nella nostra stucchevole e corrotta classe dirigente. Ciò spiega bene la necessità di impedire la crescita culturale dei cittadini, penalizzando l’istruzione pubblica e stordendo i giovani con continue favolette mediatiche.
agbiuso
Roberto Scarpinato -procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta- ha scritto una lettera a Paolo Borsellino, che comincia con l’amara e ormai banale constatazione che “più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio”.
Nicolò Zanon, “membro laico” (cioè politico) del Consiglio Superiore della Magistratura in quota PDL ha chiesto l’apertura di un procedimento disciplinare contro Scarpinato.
Dopo Ingroia, indotto a lasciare l’Italia per il Guatemala, un altro magistrato amico di Borsellino viene messo sotto accusa dal partito di Berlusconi.
A conferma, ennesima conferma, che si tratta di un partito di mafiosi e che quanti -tanti- lo hanno votato e lo sostengono sono complici del crimine e della morte.
diego b
Dopo qualche settimana un mio conoscente catanese, imparentato con una delle famiglie mafiose più potenti dell’Isola, mi disse che le morti di Falcone e Borsellino erano state in realtà un favore fatto da Cosa Nostra a importanti uomini politici. Pensai, naturalmente, che fosse un modo per giustificare i suoi familiari. Invece aveva ragione.
agghiacciante, non mi viene altro aggettivo, caro alberto
Biuso
Su Repubblica-Palermo leggo:
“Si sta lavorando – scrive Napolitano – si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio. Si deve giungere alla definizione dell’autentica verità su quell’orribile crimine che costò la vita a un grande magistrato protagonista con Giovanni Falcone di svolte decisive per la lotta contro la mafia. […]
Come ha fermamente dichiarato il presidente del Consiglio Monti, ‘non c’è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità’, ritardi e incertezze nella ricerca della verità specie su torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia. E proprio a tal fine è importante scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione”.
Poche cose sono disgustose come l’utilizzo che spesso il potere fa delle parole.