Detachment – Distacco
di Tony Kaye
Con: Adrien Brody (Henry Barthes), Sami Gayle (Erica), James Caan (Il professor Seaboldt)
USA, 2011
Trailer del film
Henry Barthes insegna come supplente nelle scuole di Chicago. Gli va bene così, in modo da non doversi legare per troppo tempo a nessuna classe, scuola, luogo. L’istituto che lo assume per un trimestre è uno dei peggiori: studenti completamente demotivati e violenti, genitori o assenti o nemici dei professori, amministrazione che intende chiudere la scuola. Barthes attraversa luoghi e persone con gentilezza e con un distacco dentro il quale ci sono in realtà molta passione e molto dolore. La sua famiglia è composta soltanto dal nonno, ospite di un istituto per anziani. Una delle studentesse più brave e più disprezzate dai compagni si innamora di lui. Fuori dalla scuola incontra una ragazzina che si prostituisce e le offre il proprio alloggio. Sembra che dentro Barthes tutto scorra a partire da un’antica ferita.
Alla scuola pubblica statunitense è dedicato il ritratto che essa merita: luoghi che hanno perduto interamente qualunque funzione educativa, in cui non si impara nulla e che rimangono in piedi soltanto come centri sociali nei quali il compito dei docenti è «di evitare che i ragazzi si accoltellino durante la ricreazione». Il genitore di uno studente tra i più violenti difende in modo iroso e insensato il figlio, adducendo tutte le più improbabili patologie e dichiarando che il principio della scuola è questo: «Nessuno deve rimanere indietro». Il risultato è che rimangono indietro tutti. Pensiamoci quando ci facciamo complici della colonizzazione pedagogica americana. Quello slogan, infatti, risuona di continuo anche nelle scuole italiane.
Ma Detachment non è un film sulla scuola. È un film sull’esistenza, come l’epigrafe da Camus fa subito capire. È un film sulla solitudine inoltrepassabile di ciascuno, sulle passioni che ci schiantano, sulla fragilità umana moltiplicata da una civiltà che ama presentare se stessa come la più avanzata e felice che la storia abbia mai costruito. E che anche per tale pretesa accresce in realtà la delusione e quindi la tristezza.
Al di là dei suoi temi, l’aspetto più coinvolgente è la matura tecnica cinematografica che fa coincidere contenuti e forma nei colori, nei flashback, nel grandangolo utilizzato in quasi tutte le scene collettive. Come un occhio che guarda gli umani e dilata l’assurdo che li intesse.
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2 commenti
agbiuso
Qualunque cosa è forse meglio della tristezza e della disperazione, caro Diego. Una mia antenata diceva “fammi la faccia, fammi la finta, basta chi lu me cori si cuntenta”.
Ma meglio di tutto è imparare (perché si impara questa cosa) a guardare il volto della Gorgone senza diventare di pietra.
diego b
un film sulla solitudine inoltrepassabile di ciascuno
a volte penso che questo è il tema di fondo di ogni narrazione che tratti il nostro tempo, la nostra epoca
a volte penso che anche una finzione d’amore o d’amicizia è già meglio di nulla
già saperlo però, ci rende meno soli?
grazie della bella recensione, caro alberto