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Mente & cervello 88 – Aprile 2012

È spontaneo, facile, quasi istintivo scorgere negli oggetti e nelle situazioni più diverse dei volti o dei profili umani: montagne, fette di pane, rocce, liquidi e tanto altro, diventano facilmente occhi, naso, bocca. La ragione è evidente: «I volti sono indispensabili per la nostra sopravvivenza […], una buona parte del cervello è dedicata a individuare e riconoscere facce. […] Non essere in grado di notare un ghigno poco amichevole, ci potrebbe mettere in grave pericolo» (R. Wiseman, p. 80). Qui sta anche la radice della miriade di credenze nel paranormale, la facilità con la quale suoni, forme, immagini vengono attribuiti a entità e a potenze misteriose. Siamo infatti «progettati per credere» (questo è il titolo dell’articolo di Wiseman) «ma lo stesso meccanismo che ci permette di arrivare rapidamente a conclusioni esatte a partire da pochi dati può anche generare falsi positivi, o persino portarci completamente fuori controllo» (Id., 77).
Il corpomente non è affatto passivo, è chiaro, ma è invece un vero e proprio facitore di mondo. Non c’è alcuna implicazione idealistica e tantomeno solipsistica o irrazionale nel celebre esperimento mentale quantistico «del “gatto di Schrödinger” che, chiuso in una scatola e invisibile al mondo, è teoricamente sia vivo sia morto, finché un osservatore esterno non contribuisce, con la sua sola presenza, a farlo precipitare in uno stato di decoerenza, decretandone la vita o la morte nella realtà» (D. Ovadia, 68). La ricerca sulla quantum mind, la spiegazione quantistica della coscienza, è uno degli ambiti scientifici più fascinosi, fecondi e dagli sviluppi potenzialmente enormi. Come afferma Giuseppe Vitiello, fisico dell’Università di Salerno, «la coscienza non è un fenomeno quantitativo: non esiste un numero al di sopra del quale posso dire che una persona è cosciente e al di sotto del quale faccio diagnosi di incoscienza. La coscienza è un fenomeno qualitativo. Come posso misurare la qualità? Posso farlo sostituendo i quanti con i qualia, che rappresentano l’unità qualitativa dell’esperienza cosciente» (Id.,70). L’ipotesi a questo proposito più articolata è probabilmente quella di Penrose-Hameroff, esposta ne La mente nuova dell’imperatore (Rizzoli, 1992), che qui viene così riassunta:

Questo tipo di “attività quantistica” avviene nel cervello a livello dei microtubuli, strutture che hanno la funzione di sostenere la cellula, come uno scheletro, e trasportare al suo interno i neurotrasmettitori. I microtubuli sono composti da una proteina, la tubulina, che contiene alcuni elettroni delocalizzati. Sono questi che, sempre secondo Hameroff e il suo complesso modello matematico, governano i fenomeni quantistici all’interno della singola cellula, fenomeni che possono propagarsi in tutto il cervello attraverso le giunzioni tra neuroni, dando luogo a una manifestazione quantistica su vasta scala in una determinata area del cervello. Da questa emergerebbe l’esperienza cosciente, profondamente ancorata nella geometria dello spazio-tempo (e quindi da noi percepita come reale). Esisterebbe anche un marcatore di questa attività cosciente: le onde theta, già considerate dai neurofisiologi come segnale di attività cerebrale consapevole e registrabili con un normale elettroencefalogramma. Esse sarebbero, in sostanza, l’impronta dell’attività quantistica del cervello. (Id., 71-73)

Naturalmente si tratta di ipotesi ma credo che soltanto proposte teoriche così complesse possano contribuire a «capire come quel “silenzioso e grigio contenitore di molecole senza odori, sapori e temperatura, di atomi e di campi elettromagnetici in vibrazione” che è la realtà, diventi il “luogo pieno di rumori, colori e odori in cui il cervello ci fa vivere”», come scrive G. Sabato (pp. 104-105) recensendo un importante libro di Arnaldo Benini dedicato alla Coscienza imperfetta (Garzanti, 2012). Ciò che chiamiamo realtà è davvero un coacervo di atomi e di molecole, al quale una qualche mente cosciente -non necessariamente e solo quella umana- dà ordine, costruzione, significato. Con buona pace di qualunque realismo, vecchio o nuovo, ingenuo o sofisticato.
Tra gli altri argomenti di questo numero di Mente & cervello segnalo un rigoroso ma chiaro articolo dedicato al morbo di Alzheimer -alle sue basi genetiche, cause ambientali, complessità clinica- nel quale si ammettono i grandi limiti (a mio parere la totale insostenibilità procedurale) della sperimentazione sugli altri animali. Anche a proposito delle ricerche sull’Alzheimer «c’è un copione che si è ripetuto spesso. Si individua una molecola chiave nel meccanismo della malattia. Si trovano farmaci in grado di interferire con questa molecola. Nei primi studi sugli animali il farmaco promette bene. Si passa quindi fiduciosi alla sperimentazione sull’uomo. Che fallisce» (G. Sabato, 96).
Infine, un altro libro sulle cui tesi molti educatori dovrebbero riflettere: Riscoprire l’autorità, di Gino Aldi (Edizioni Enea, 2011). L’autore concorda con quanto anni fa sostenne Giuliana Ukmar nel suo Se mi vuoi bene, dimmi di no (Franco Angeli, 2003) e che ancor prima aveva affermato con chiarezza Maria Montessori, la quale era convinta che «lasciar fare quello che vuole al bambino che non ha sviluppato la volontà è tradire il senso di libertà» (cit. da C. Sgheri, 105). Gino Aldi scrive che

«lasciar correre è più facile che porre dei limiti e dei contenimenti, dire sì e accontentare il bambino o il ragazzo nell’immediato è più facile, non crea conflitto, ma alla lunga nasce nel cuore dell’educando la sensazione di essere abbandonato a se stesso, di essere solo, senza una guida sicura, il che nel tempo porta a sviluppare un senso di frustrazione e rabbia molto più grande di quella che poteva essere prodotta da un semplice no». Ed è proprio nella scelta di evitare a tutti i costi il conflitto con i più piccoli -una scelta troppo spesso praticata dagli adulti, genitori o insegnanti che siano- che si cela un pericoloso malinteso del nostro tempo: quello che ci spinge a tenere lontani i bambini da qualsiasi dispiacere o sofferenza. In questo modo però «l’infanzia diventa un’età dell’oro dalla quale è conveniente non uscire mai perché in essa si vive un mondo edulcorato e depurato dal dolore, dalla frustrazione, dai pesi che la vita riserva» (Ibidem).

Chiarissimo, no? Sgheri così continua la sua recensione: «Senza stigmatizzare una generazione di adulti smarriti e sempre più spesso incapaci di assumersi a pieno l’enorme responsabilità dell’educare…». No, invece, bisogna proprio “stigmatizzare” i troppi genitori che “generano” -appunto- senza aver mai pensato alla responsabilità e alla difficoltà che comporta l’educare dei cuccioli umani alla complessità e alla durezza del vivere; genitori disgustosamente servi dei loro pargoli, la cui tirannia questi ultimi si illudono di poter esportare al di fuori della famiglia e non appena si accorgono che la realtà del mondo è un po’ più cattiva e che i loro genitori li hanno ingannati, cadono -a seconda dei caratteri- nella frustrazione, nella depressione, nella violenza, nell’arroganza; genitori che danno sempre e sistematicamente ragione ai loro figli-studenti contro maestre e professori, i quali devono subire di tutto dai figli/teppisti. Ma anche molti insegnanti hanno le loro responsabilità: vili, demagoghi, ipocriti, pronti a rinunciare al loro ruolo di adulti per non “avere grane” con i ragazzi, con i loro genitori, con i presidi. È così che nasce il figlio/studente/cittadino smidollato e insieme teppista, la cui rappresentazione più strepitosa si trova in un breve racconto di Friedrich Dürrenmatt dal titolo, per l’appunto, Il figlio.

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