L’obiettivo di Plotino è il medesimo di tutta la filosofia ellenistica e romana: l’autarchia dell’uomo divenuto finalmente saggio, di colui che nel geroglifico degli innumerevoli segni sa intravedere un percorso di salvezza per sé, «tutto è pieno di segni ed è sapiente chi da una cosa ne conosce un’altra» (II, 3, 7); di colui che «vive bastando a se stesso, tò oùtos zoé échonti» (Enneadi, trad. di G.Faggin, I, 4, 4); di colui che vorrebbe certamente che ogni umano fosse felice ma che rimane ugualmente felice anche se questo non accade; di colui che «per la stoltezza degli altri o dei parenti, non si renderà infelice né si legherà alla fortuna buona o cattiva degli altri» (I, 4, 7); di colui che è del tutto consapevole della transitorietà sia degli uomini sia delle collettività. Il saggio
potrà considerare grande cosa la caduta di un regno e la rovina della sua città? E se stimasse ciò un gran male o semplicemente un male, ridicola sarebbe la sua opinione, né egli sarebbe saggio, ove considerasse grandi cose del legno, dei marmi e, per Zeus, la morte di esseri mortali. (I, 4, 7)
Racconta Possidio che furono queste le parole pronunciate da Agostino sul letto di morte (Vita, 28.11). Il vescovo di Ippona non ricordò, morendo, un testo della Bibbia o dei teologi suoi colleghi ma quello dell’ultimo grande pensatore pagano. Scelta comprensibile e significativa ma anche contraddittoria poiché per Plotino la somiglianza con il dio non è la partecipazione alla sua sofferenza su una croce -concetto inaudito e totalmente insensato per il paganesimo- ma consiste in uno stato di «Intelligenza impassibile, immobile e pura, aeì phronousin en apathei tò nò kaì stasìmo kaì katharò» (V, 8, 3), in un esistere quindi «duskìneton kaì duspathè», immutabile e impassibile (I, 4, 8). Il saggio sa l’essenziale, sa che «se il fuoco che è in te si spegne, non si spegne tuttavia il fuoco dell’universo» (II, 9, 7).
2 commenti
agbiuso
Naturalmente lei ha ragione, Anatol, a osservare che il Dasein non è neppure concepibile senza il Mit-sein e l’In-der-Welt-sein, che ogni individuo è parte di una trama e di un ordito assai più ampli. A me non sembra, comunque, che l’autarchia degli stoici e dei neoplatonici venga meno a tale principio. Piuttosto, si tratta di fare di se stessi un crocevia di pensieri, di storie, di potenze, che attutendo la miseria della persona la liberi proprio da quell’individualità che sta (anche per Schopenhauer) all’origine di ogni sofferenza.
Il saggio di cui parla Plotino non è un supersoggetto ma la dissoluzione della soggettività in una pace che affonda nella materia stessa. So che Plotino rifiuterebbe una simile accezione della parola materia ma il fuoco dell’universo di cui egli parla è ai miei occhi composto di stelle, minerali, galassie, vuoto. Di tutto ciò che esiste senza mai soffrire, qualunque sconvolgimento accada. E’ la materia il luogo della serenità.
Anatol
Ma se l’individuo è quel che diviene in relazione al macrocosmo di individui e cose in cui si trova, non è conseguente a questa sua organicità la sua profonda sofferenza, il suo non bastare mai a se stesso, ma concepire la propria realizzazione con gli Altri? E’ sul serio concepibile un realizzarsi che metta da parte la collettività? La sua storia che è mia storia e il suo presente che è a sua volta mio presente?
Lorenzo Bellomo