Arte povera più azioni povere 1968
MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina – Napoli
A cura di Germano Celant e Eduardo Cicelyn
Sino al 20 febbraio 2012
Materassi, lampadine, fili metallici, candele, neon, tubi di gomma, basi di scope. Tutto può diventare arte. Duchamp lo ha insegnato tra i primi. L’arte povera lo ha efficacemente mostrato. Arte raffinatissima, in realtà. Perché nell’arte è la disposizione spaziale che conta, sono le forme, i colori, le intenzioni. E questo vale per tutta l’arte, povera o solenne che sia. Quanti ripetuti soggetti dell’arte sacra -Madonne con bambino, ad esempio- si fondano su questa interiorità dello sguardo? Dove sta la differenza tra un qualsiasi santino raffigurante madonne-gesù-cristi-bambini e il medesimo soggetto in mano a Leonardo, Tiziano, Caravaggio (a caso citati)? Sta nel significato puramente astratto e insieme inscindibilmente fisico che un artista regala alla materia traendolo da essa. Ecco perché il magnifico Monumento di stracci di Michelangelo Pistoletto rappresenta una compiuta e ricca sintesi dell’arte povera. L’armonia tra la tomba trecentesca della splendida chiesa Donnaregina Vecchia -un gotico che vibra nella luce- e gli stracci che Pistoletto ha incuneato negli interstizi del monumento è un’armonia totale. Poiché è lo sguardo umano la fonte senza fine dell’arte. Il resto è molecola, è chimica.
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alberto esse
Alberto Esse
“Arte Povera 2011”: quattro errori per una mistificazione critico-storica (parte prima)
L’operazione-evento “Arte Povera 2011”, che doveva costituire un importante momento di documentazione e storicizzazione di un movimento che giustamente è considerato con il Futurismo di fondamentale importanza nell’avventura delle arti visive del secolo passato, rischia di ottenere effetti opposti.
E non solo a causa di due errori (o falsi) storico-critici: l’estensione forzata e forzosa fino ai nostri giorni di un movimento conclusosi all’inizio degli anni ’70 e la sua limitazione a soli ed esclusivi 13 protagonisti. Errori (o falsi) tanto evidenti da destare stupore (a chi non sia addentro all’odierno sistema dell’arte in Italia) che il fior fiore dei direttori di musei e istituzioni di arte contemporanea coinvolti nell’operazione ed il fior fiore dei critici raccolti nell’enorme catalogo che accompagna la mostra non se ne siano minimamente accorti. Ma tant’è!
Se si esaminano le mostre in corso e si leggono i contributi critici del catalogo appare evidente che vi sia un tentativo diffuso di far passare come elemento fondante, quando non esclusivo, dell’Arte Povera quello dell’uso di materiali poveri (visti e declinati in tutte le loro funzioni poetiche, estetiche, concettuali, oniriche ecc).
Ora, se è innegabile che l’uso di materiali poveri (considerati soprattutto, molto concretamente, come portatori di una visione poveristica anticonsumistica) fosse UNA delle caratteristiche di questo movimento, è altrettanto innegabile che accanto a questa ve ne erano altre della stessa importanza e fondanti: la critica al ruolo e alla funzione della figura dell’artista quale “giullare” del sistema dell’arte basato sul mercato e la critica al sistema di produzione e diffusione dell’arte (allora e tuttora) vigente attraverso gallerie e musei, con la conseguente ricerca di nuovi ed “altri” circuiti di comunicazione e di nuovi ed altri utenti individuati in primo luogo nelle classi e categorie sociali protagoniste del grande cambiamento in atto in quegli anni.
Da quest’insieme di caratteri deriva la forte spinta antiistituzionale di una forma artistica che non a caso veniva apertamente definita, nel primo e più significativo manifesto, come “Arte di guerriglia”. Tutte caratteristiche che oltre ad essere, come visto, ben presenti nei testi critici erano soprattutto presenti nelle opere e nell’operare anche dei nostri, o meglio celantiani, “magnifici tredici”.
Il tentativo di mistificare e svuotare l’Arte Povera dei suoi significati primari, riducendola da complessa arte di guerriglia a innocua merce da aste, è pienamente confermato poi nelle scelte espositive con cui, almeno nelle principali mostre di Milano, Bologna e Torino, rispetto a una possibile ipotesi di museizzazione, si è scelto la via della museificazione. Vale a dire, la acritica e meccanica trasposizione in spazi rigidi di opere spesso nate per vivere ed essere fruite fuori da gallerie e musei. Opere spesso nate per essere interattive e coinvolgenti, per essere strumento performativo, per essere toccate, usate, a volte anche distrutte costrette in rigidi spazi museali dove, per ragioni di principio o di sicurezza, non possono essere pienamente fruite e utilizzate, ma nemmeno toccate subendo una straniante decontestualizzazione ambientale e storica con un’operazione di re-aurizzazione che contravviene in pieno al loro spirito iniziale.
Certamente il problema della museizzazione, e in generale della esposizione delle opere storiche dell’Arte Povera, è complesso e di difficile soluzione. Ma il negarlo, il non prenderlo minimamente in considerazione, il non affrontarlo con corrette scelte filologico-espositive nell’allestimento della maggioranza delle mostre di “Arte Povera “2011”, il far languire in spazi e situazioni inadatte opere nate per interagire e vivere assieme al fruitore è , a mio avviso, un ulteriore errore imperdonabile che va a completare un’operazione tesa al progressivo svuotamento dell’Arte Povera a favore di una sua re-aurizzazione che risulta funzionale non tanto alla ricerca e alla sistematizzazione storica e critica quanto a una banale reificazione.
Il re (o il critico o i critici demiurghi) è nudo. Possibile che nessuno (o pochi) se ne accorga?
alberto esse