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Bronzo sacro

Bronzo sacro

Nag Arnoldi
Sculture 1980 – 2010
A cura di Rudy Chiappini
Milano – Palazzo Reale
Sino all’11 settembre 2011

La scultura rappresenta probabilmente il culmine dell’arte contemporanea. Più delle tele o delle installazioni, infatti, essa stringe la materia a farsi pensiero, memoria, slancio. Moore, Mitoraj, Theimer -per quanto tra loro assai diversi- hanno fatto dell’arte plastica uno strumento privilegiato di indagine sull’enigma dell’umano e del tempo. Enigma al quale l’arte di Nag Arnoldi si avvicina con il coraggio di toccare la materia per trasformarla in forma dell’arcano, del sacro, della morte, della guerra, dell’animalità. Temi immensi, che vibrano in opere come Grande madre, un orrore che si spalanca al mondo dandogli vita e quindi preparandolo alla morte; Carapace, guerrieri corazzati dentro se stessi, segno di una solitudine estrema sino alla follia; Requiem per Gilles de Rais, dove la figura dell’aristocratico sadico e assassino diventa una ferita verticale che emerge come da una lapide.
Ma tutto in quest’arte è rivolto verso l’alto, in un tentativo pacato e insieme estremo di chiedere perdono per il fatto di esistere. Forse per questo -e non soltanto per i chiari riferimenti a Giacometti e per la tensione espressionistica dello stile- le opere di Arnoldi appaiono ascetiche sino a essere scarnificate, come se tutto sia sin da ora ostaggio della morte. E tuttavia, tuttavia una luce sembra percorrere questo bronzo riarso e frammentato. La luce del mito, l’animalità che salva nella sua stessa potenza e ruggito, la sintesi di ogni cosa nel Minotauro. Questa figura ancestrale è l’oggetto di molte opere dello scultore ticinese, fra le sue più belle. In una, Oltre il muro, il Minotauro tenta un’impossibile uscita dal labirinto. Per poi diventare, in Solitudine, una potente figura posta in piedi, sprangata dentro un carcere che entra nelle sue stesse carni sino a farsi un grande urlo. «Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto. Capì che non esistevano altri minotauri, ma un minotauro solo, esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima, né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e il rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto tra animali e uomini e fra uomini e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito; e quando l’avvertì come percezione senza comprensione, un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Pasifae, il minotauro sognò di essere un uomo».
(Friedrich Dürrenmatt, Minotauro. Una ballata [1985], in «Racconti», trad. di U.Gandini, Feltrinelli 1996, p. 367)

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