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Mente & cervello 74 – Febbraio 2011

La plasticità del cervello è enorme, esso possiede «una capacità apparentemente infinita di cambiare,  adattandosi millisecondo per millisecondo» (C.H. Kinsley e E.A. Meyer, p. 102). Fra le tante prove di tale potenza ci sono le illusioni ottiche, già illustrate nei due numeri precedenti di Mente & cervello e che qui arrivano allo spettacolare fuoco d’artificio illustrato dai titoli di tre articoli di Susana Martinez-Conde e Stephen L. Macknik: Falso movimento, Scolpire l’illusione, Cibo per la mente. Il triangolo impossibile di Penrose, le prospettive cangianti di Escher, le ombre di Shigeo Fukuda, il cubo tribarra di Guido Moretti provano come il “semplice fatto” della visione sia una realtà di inimmaginabile complessità nella quale convergono fattori cerebrali, processi evolutivi, condizionamenti culturali, attese, desideri, abitudini. Una vera e affascinante sintesi dell’identità psicosomatica della persona umana, già saputa da artisti come Giuseppe Arcimboldo -che con frutta, verdura, ortaggi, libri costruisce figure umane- e dalla lunga schiera dei suoi continuatori.

Se è dunque vero -come sostiene Jean-Pierre Changeux– che «il pensiero è chimica, tutto sta nel capire come la chimica si trasforma in pensiero» (82). Intervistato da Daniela Ovadia, il celebre neuroscienziato riconosce l’indissolubilità dei fattori biologici e di quelli culturali: «una questione che ci siamo posti è perché l’evoluzione darwiniana ha selezionato uno strumento come il cervello umano, che per arrivare alla sua espressione più completa ci mette, se tutto va bene, almeno 15 anni. La risposta è stata: perché è uno strumento perfetto per il suo scopo, che è la produzione e l’interiorizzazione della cultura. Non a caso solo l’uomo è stato capace di elaborare la scrittura, che è una forma perfetta di supporto esterno alla creazione di memorie» (82-83).

Insieme alle potenze del cibo, del guardare, del linguaggio, siamo dominati da quella dell’amore. Millenni di letteratura si basano su tale forza quotidiana e indistruttibile. Paola Emilia Cicerone dedica un approfondito articolo al cosiddetto -dai sociologi- polyamory, ai legami rivolti a superare la coppia a favore di sentimenti e relazioni a tre o più nelle quali ognuno degli attori coinvolti sa degli altri e li accetta. Il dato di partenza è che in natura -e cioè in quasi tutte le altre specie animali- non esiste monogamia. La presenza così pervasiva o addirittura esclusiva di questo tipo di rapporto in molte culture -sicuramente in quella ebraico/cristiana- è un dato acquisito, appreso, e non biologico. Almeno, è questo che pensano i sostenitori del “poliamorismo”. Si pone però almeno un problema consistente. La gelosia è un sentimento naturale almeno quanto il bisogno di amori molteplici. È naturale poiché rappresenta un modo del possesso, che della relazionità umana è espressione fondamentale. Il poliamorismo implica e comporta il superamento della gelosia, sostituita dalla “compersione”, un neologismo atto a indicare «l’opposto della gelosia, o meglio la sua sublimazione: la gioia che si prova quando la persona amata riceve amore da altri» (31). Un’affermazione che ha senso soltanto se si ritiene che l’amore rivolto verso l’altro sia qualcosa di diverso dal “riflesso della nostra tenerezza”. E questa è davvero un’illusione.

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