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Mente & cervello 71 – Novembre 2010

Il linguaggio umano è una facoltà innata, come pensa Chomsky, o è un’acquisizione evolutiva, come sembra ritenere Darwin? In realtà, anche questa dicotomia è troppo rigida e non dà conto della complessità degli eventi. Il biologo cognitivista W.T. Sherman Fitch III -intervistato da D. Ovadia- ritiene che la struttura linguistica sia fatta di moduli innati che poi il tempo biologico e quello culturale contribuiscono a sviluppare nei modi più ricchi e diversi, non soltanto nell’uomo ma anche -pur se in modi diversissimi- negli altri animali.

Un’altra questione di confine tra neuroscienze e filosofia riguarda quanto il Brain imaging ci suggerisce a proposito del libero arbitrio. Già le pluridecennali ricerche del neurofisiologo Benjamin Libet hanno messo in luce attraverso delle evidenze sperimentali che un soggetto umano diventa consapevole di una qualsiasi decisione da lui stesso assunta solo dopo 0,5 secondi dall’inizio dei processi cerebrali che hanno innescato quella decisione, anche se poi lo stesso soggetto opera una retrodatazione della sua sensazione all’istante in cui essa ha avuto inizio nel cervello. La ragione di tale ritardo è evidente: in una varietà di situazioni quotidiane il nostro corpo ha bisogno di reagire in maniera assolutamente immediata –praticamente automatica- pena il verificarsi di grossi danni. Si tratta di quelle attività neuronali prive di qualunque consapevolezza che di fatto costituiscono il basso continuo della nostra vita corporea. Libet sostiene tuttavia la realtà del libero arbitrio contro ogni forma di determinismo e ciò sulla base del fatto che rimangono al soggetto fra 100 e 200 msec nei quali può porre una sorta di veto all’impulso stabilito in sede neuronale: «il libero arbitrio cosciente non dà inizio alle nostre azioni liberamente volontarie. Può invece controllare il risultato o l’esecuzione attuale dell’azione. può consentire all’azione di continuare, o può metterle il veto, in modo da non farla accadere» (Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza,  Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 143). Ma nuovi metodi, come la MPVA (analisi multivariata del pattern) sembrano mostrare che «forti segnali nella corteccia prefrontale e parietale -aree coinvolte nell’elaborazione di obiettivi nuovi o complessi [vengono elaborati] fino a 10 secondi prima che il volontario decida consciamente di agire. Questo risultato ha implicazioni profonde: significa forse che non abbiamo il libero arbitrio? Oppure il libero arbitrio entra in gioco soltanto per decisioni più complesse?» (D.Bor, p. 84).

Il disturbo di personalità borderline rientra tra queste “decisioni più complesse”? Credo proprio di sì. Ebbene, «non è per scelta che i pazienti affetti da DPB agiscono come fanno di solito; sono invece in balia di una combinazione di processi di cui non sono consapevoli» (M.K. Raskin, p. 88). Molte persone vengono colpite da tale disturbo (solo in Italia sembra che siano circa un milione) e avendo avuto a che fare con simili soggetti posso confermare le gravi difficoltà che investono la loro vita: «instabilità emotiva, comportamento impulsivo e disturbi delle relazioni interpersonali. Le tempeste emotive di queste persone non sono solo intense ma anche frequenti» (89). Certo, si tratta di comportamenti di cui tutti più o meno siamo vittime; solo che nei soggetti affetti da DPB essi sono molto più accentuati della media.

Il dossier di questo numero della Rivista è dedicato a un argomento di grandissimo interesse: il cyborg, il simbionte (come lo definisce G.O.Longo), l’ibrido tra il corpo organico e gli apparati artificiali. Coniato nel 1960 da Clynes e Kline per indicare un uomo migliorato e potenziato al punto da riuscire a sopravvivere in un ambiente non terrestre, il termine cyborg -organismo cibernetico- è diventato centrale per qualunque riflessione antropologica che voglia comprendere la continuità profonda tra l’umano e il mondo in cui esso è immerso e del quale è parte. E non si tratta di questioni speculative. Una lunga intervista al pilota Alex Zanardi, che un incidente in gara privò delle gambe, mostra come l’ibrido natura/artificio svolga una funzione terapeutica di enorme importanza. Tramite raffinati innesti, infatti, Zanardi è tornato a correre e a vincere. È interessante la convinzione da lui riferita che «se un giorno troverò un modo efficace di collegare il cervello all’auto, probabilmente sarò lo stesso pilota di un tempo» (C.Sgheri, pp. 36-37). Il cyborg non è infatti una protesi meccanica ed esterna al corpo ma una incorporazione dell’esterno dentro la mente. Milioni di persone, comprese probabilmente quante stanno leggendo queste righe, sono «sistemi intelligenti costituiti da un “noi” e dai software che usiamo» (S. Schneider citata da D. Ovadia, 47), a partire dai software installati nei più semplici cellulari. Ha ragione Andy Clark quando sostiene che «è la presenza di una plasticità inusuale a rendere gli umani, ma non le altre specie, dei cyborg nativi: siamo stati programmati da Madre Natura per annettere, strato dopo strato, strutture ed elementi esterni quali parti integranti delle nostre stesse menti espanse» (ibidem)

Kevin Warwick, ricercatore di cibernetica all’Università di Reading (GB) ha fatto di se stesso la propria cavia, impiantandosi nel corpo un sensore attraverso il quale al suo passaggio le porte del Dipartimento dove lavora si aprono, i computer si accendono e una voce gli augura il buongiorno. Il suo scopo, racconta, «era quello di capire che cosa si prova quando la tecnologia entra a far parte del proprio corpo. Il risultato mi ha sorpreso: non solo non ho sentito una violazione della mia privacy (anche se i miei movimenti erano noti al computer centrale) ma ho percepito la “protesi” come parte integrante del mio organismo e, a dir la verità, è stata dura separarsene al termine dell’esperimento» (42). Non più protesi esterna, dunque ma parte intima del corpo. Torniamo così al problema del libero arbitrio: «quando la coscienza di un individuo è basata sia sul sistema nervoso umano sia su una macchina, chi è responsabile dei pensieri e delle decisioni? E se l’uso di queste tecnologie fornisce al soggetto capacità che gli umani non hanno -memorie aggiuntive, rapidità inusitata nella comunicazione, possibilità di sfruttare le conoscenze archiviate nel silicio, controllo a distanza di macchine o altri uomini- che cosa accadrà nelle nostre società?» (44).

Una risposta si può trovare nel recente libro di Alva Noë, Out of Our Heads. Why You Are Not Your Brain, and Other Lessons from the Biology of Consciousness (2009), recensito qui da P. Garzia. Noë sostiene infatti che «l’interazione con l’ambiente, fin dai primi istanti di vita, è determinante per la maturazione dell’attività nervosa centrale e l’emergere della vita cosciente», alla quale concorre in modo decisivo «tutto il nostro corpo, fatto di sensi, percezioni, emozioni, interazioni continue con l’ambiente» (104). Se non si comprende la natura corporea, olistica, mondana e allargata della mente, non si può intendere nulla della sua struttura/funzione e «si rischia di arrivare alle aberrazioni di quanti in passato affermarono che il cervello secerne la coscienza così come i reni l’urina e il fegato la bile» (ibidem). Ma sull’importante libro di Noë cercherò di tornare in altra sede. Questa nota è infatti già troppo lunga

1 commento

  • diego b

    Novembre 28, 2010

    un soggetto umano diventa consapevole di una qualsiasi decisione da lui stesso assunta solo dopo 0,5 secondi dall’inizio dei processi cerebrali che hanno innescato quella decisione, anche se poi lo stesso soggetto opera una retrodatazione della sua sensazione

    purtroppo i duri tempi economici mi imporrebbero di non acquistare la rivista, ma anche solo questo accenno mostra quanto il numero da lei segnalato, caro prof. biuso, sia di enorme interesse

    che esistono due diversi modi di far agire il nostro corpo nello spazio, in fondo l’ho sempre saputo; da ragazzo ero un modesto calciatore, e mi sono sempre domandato come fa una mezzala con i piedi buoni ad azzeccare quesi passaggi, quelle belle ed efficaci giocate? Non ha il tempo per pensarci su, eppure sceglie quella giocata che lo distingue dal terzinaccio come me

    la destrezza, l’abilità manuale, è un sapere pronto all’uso; altra cosa è invece il pensiero a bocce ferme dove son consapevole di pensare

    però, anche il pensiero consapevole in realtà si nutre di un lavoro sotterraneo, non conscio; porto la mia esperienza personale: io faccio il grafico, sono un modestissimo impaginatore di depliant e volantini, nulla di alto valore artistico, eppure quando mi metto lì, e mi dicono: «diego, inventati qualcosa per la sagra della salsiccia!», io accosto vari elementi, scritte, immagini e poi mi viene in mente un’idea decente; ma non la costruisco in modo consapevole, essa scaturisce sempre dal mio cervello un po’ all’improvviso, nel mentre ci penso su, ma da dove viene? non lo so!

    caro prof. biuso, chiedo scusa per la lunghezza, ma in questo blog trovo una concentrazione di cose interessanti davvero inegualiabile altrove

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