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Andreotti, cosa turpe

Andreotti, cosa turpe

Di fronte al sopravvivere delle forze che uccisero Giorgio Ambrosoli, la prima sensazione è di scoramento. Un vero e proprio impero criminale costituito da mafia, banche, massoneria, servizi segreti, capi di governo, si coalizzò contro un uomo solo. Un uomo armato di nient’altro che della sua «passione dell’onestà» (Corrado Stajano, Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Einaudi 1995, p. VIII), di un coraggio che nasce dal dovere per il dovere, un uomo «capace, corretto, che non si risparmia» (22).

Il Presidente del Consiglio in carica -Giulio Andreotti- detestava ciò che l’avvocato milanese stava realizzando e fece di tutto per far sopravvivere la banca di Michele Sindona ripianandone i debiti con i soldi pubblici. Il capo del governo agì da «topo furbo, animale senza spine, senza ossa, senza muscoli, senza principî, usa l’intelligenza nell’appianare, nell’assorbire, nell’ammorbidire, nello smussare, nel cancellare» (201). La loggia massonica P2 si mobilitò con Gelli e con tutti i suoi uomini per frenare, intimorire, trasferire.
L’11 luglio 1979 Giorgio Ambrosoli venne ucciso a colpi di pistola davanti alla sua casa. Ai funerali, nessun uomo di governo. Una tragedia alla quale si aggiunge la tragedia che fra i membri della P2 -vera regista dell’assassinio- Licio Gelli sia oggi un libero cittadino e Silvio Berlusconi il capo del governo italiano.

Ma non bastava. Il maligno democristiano ha così risposto ieri alla domanda sul perché Giorgio Ambrosoli sia stato ucciso: «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».
Questa cosa turpe che ha nome Andreotti ammorba ancora di sé lo spazio.

9 commenti

  • Da da da - agb

    Dicembre 1, 2024

    […] dedicato a ciò che nelle sue lettere Aldo Moro (1916-1978) definì il «cupo sogno di gloria» di Giulio Andreotti (1919-2013), un uomo il quale – è sempre Moro a parlare –  ha «conquistato il […]

  • agbiuso

    Dicembre 18, 2015

    Finalmente è morto anche l’amico di Andreotti, il turpe Licio Gelli, il ‘padre ignobile’ che ha avuto la soddisfazione di veder vincere i figli Berlusconi e Renzi.

    Piero Ricca lo ricorda degnamente.

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    Ieri è morto Licio Gelli.

    Ieri è morto il gran maestro degli insabbiamenti e delle logge segrete, delle tangenti e delle stragi impunite, dei tentati golpe e dei fondi neri.
    Ieri è morto il manovratore dell’unità di crisi del sequestro Moro e il depistatore delle indagini sulla strage di Bologna.
    Ieri è morto un repubblichino travestito da partigiano senza mai rinnegare il fascismo.
    Ieri è morto il re dei criminali dal colletto bianco, il tessitore occulto che infiltrava governi e trattava con la mafia.
    Ieri è morto l’amico di Peron, il sodale di Sindona e Andreotti, il luogotenente italiano della Cia.
    Ieri è morto un grande mecenate e archivista, lodato in vita dalla prof.ssa Linda Giuva in D’Alema.
    Ieri è morto il capo di quella loggia segreta cui aderì, con tessera 1816, il giovane Berlusconi.
    Ieri è morto il teorico di quel Piano di Rinascita, puntualmente attuato dai suoi epigoni, fino alle leggi su misura di Berlusconi, fino alla controriforma costituzionale di Renzi. Fino allo svuotamento della democrazia per progressiva erosione dall’interno.
    Ieri è morto il custode degli inindagabili segreti di questa Repubblica fondata sul ricatto.
    Ieri è morto il teorico della manipolazione dei media, della corruzione dei partiti, dell’esautorazione del parlamento, dell’asservimento della giustizia.
    Ieri è morto il visionario di una democrazia senza popolo e senza regole, gestita da pochi e dall’alto.
    Ieri è morto un grande impunito, che non ha pagato in vita per i suoi molti torti.
    Ieri è morto una figura esemplare, lo spirito guida dell’italiano che sfrutta gli altri e si serve delle istituzioni per mai sazia avidità di denaro e di potere.

    Per la solita ipocrisia italiana non gli verranno concessi i funerali di Stato, come in quest’Italia, in gran parte fondata sul suo esempio, meriterebbe.
    Se fossero per una volta sinceri, i figlioli Berlusconi e D’Alema e il nipotino Renzi, andrebbero domani al suo funerale con grandi corone e discorsi commossi, per grazia ricevuta. Perché ieri è morto il padre della patria che loro amano e che hanno continuato a saccheggiare. Ma non lo faranno, per discrezione, per non dare nell’occhio, perché certi sentimenti è meglio coltivarli in privato: in fondo nemmeno Gelli – se potesse – andrebbe al suo funerale.

    Serenamente nel suo letto, ieri è morto il padre ignobile dell’Italia che abbiamo sempre combattuto.
    L’Italia che premia i furbi, i vigliacchi e i disonesti. Ma c’è un’altra Italia, lo sappiamo bene che c’è, e prima o poi prevarrà”.

    Piero Ricca

    Fonte: In morte di fratello Gelli

  • agbiuso

    Agosto 29, 2014

    “Del resto, non c’era bisogno delle parole di Riina per provare la mafiosità di Andreotti”. Non c’è dubbio. E soltanto un sistema politico-mediatico radicalmente corrotto ha potuto coprire quell’infame.

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    Mafia e politica, l’ultimo bacio
    di Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano, 28.8.2014

    Ventun anni dopo le prime rivelazioni del suo ex autista pentito Balduccio Di Maggio ai pm di Palermo, Salvatore Riina conferma – intercettato mentre si confida con il suo compagno di ora d’aria – ciò che chiunque conosce le carte del processo ha sempre saputo: e cioè che nel 1987 il capo di Cosa Nostra incontrò per davvero il sette volte capo del governo Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, in casa di Ignazio Salvo a Palermo. Lo incontrò, ma non lo baciò. Quante ironie, aggressioni e lapidazioni hanno subìto i pm Caselli, Lo Forte, Natoli e Scarpinato che ebbero l’ardire di istruire il processo al politico più potente della Prima Repubblica, indagando su quel summit e portandone le prove.

    Ironie che partivano da un dettaglio trascurabile, il bacio, anziché dalla sostanza: il colloquio col boss. Ora a quelle prove si aggiunge l’ammissione di Totò ‘u curtu, ma c’è da giurare che anche questa cadrà nel dimenticatoio: Andreotti è morto da padre della patria, omaggiato dal presidente della Repubblica Napolitano, del Consiglio Letta e del Senato Grasso (già capo della Procura di Palermo e poi di quella Nazionale Antimafia). Tutti sanno benissimo che fu per decenni un complice della mafia, ma questa verità non si poteva dire prima della confessione di Riina, e non si può dirla nemmeno ora. Sarebbe la miglior conferma del patto occulto fra Stato e mafia che aveva retto fino a metà degli anni 80 e che, dopo una breve crisi, fu rinnovato nel 1992-’93 con la trattativa aperta dai politici della Prima Repubblica tramite il Ros e chiusa dagli alfieri della Seconda tramite Dell’Utri (non a caso condannato per mafia e ora recluso a Parma a poche celle di distanza da Riina).

    Del resto, non c’era bisogno delle parole di Riina per provare la mafiosità di Andreotti: bastava la sentenza definitiva della Cassazione, che dava per assodati i suoi incontri con i boss Frank “Tre Dita” Coppola, Tano Badalamenti, Stefano Bontate (due volte, per discutere del delitto Mattarella, prima e dopo che venisse perpetrato), Nino e Ignazio Salvo e Andrea Maciaracina (fedelissimo di Riina). Il tutto fino alla primavera del 1980. Ora sappiamo, dalla viva voce dell’unico superstite insieme a Di Maggio, che ci fu pure il summit con Riina nell’87. Che avrebbe comportato per il Divo Giulio non la prescrizione, ma la condanna per mafia, se i giudici non l’avessero considerato insufficientemente provato.

    E dire che, anche senza la parola di Riina, il processo già pullulava di prove. Cosa raccontò Di Maggio il 16 aprile 1993 ai pm Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi? Di aver accompagnato Riina in casa Salvo all’incontro con Andreotti, iniziato con il bacio rituale del boss al ministro. Ciccio Ingrassia, grande attore siciliano, commentò: “Non so se i due si siano incontrati. Ma, se si sono incontrati, sicuramente il bacio c’è stato”. Dopo Di Maggio, di quell’incontro parlano altri 7 collaboratori di giustizia, tutti considerati attendibili: Enzo ed Emanuele Brusca, Calvaruso, Cannella, Cancemi, La Barbera e Camarda. Ma per il Tribunale diventano di colpo inattendibili. Tutti. Di Enzo Brusca i giudici scrivono che “la sua collaborazione è stata preceduta da reticenze, menzogne e persino progetti, concordati col fratello Giovanni, di inquinamento di processi e falsi pentimenti”.

    Quali? Il Tribunale non lo dice. Per la semplice ragione che ha sbagliato persona: quelle condotte disdicevoli le ha commesse il fratello Giovanni. Non Enzo, che anzi aiutò gli inquirenti a smascherarle. Al processo succede di tutto. I pm dimostrano che il 20 settembre 1987, giorno dell’incontro con Riina, Andreotti è a Palermo per la Festa dell’Amicizia Dc. E, secondo unanimi testimonianze, scompare dall’hotel Villa Igiea dall’ora di pranzo fino quasi alle 18, quando parla alla Festa. Dunque ha tutto il tempo di raggiungere casa Salvo, parlare con Riina e tornare in albergo. Brutto affare, per il senatore. Gli serve un alibi. Così manda avanti ben tre testimoni a giurare di averlo visto ben prima delle 18, per riempire l’imbarazzante buco di 5-6 ore.

    A deporre in suo favore si presentano un regista Rai, il segretario di un ex deputato Dc e l’amico giornalista Alberto Sensini (che risultava nelle liste della P2). Peccato che i tre si rivelino tutti farlocchi, o almeno “smemorati”. Il caso di Sensini è avvincente: l’allora inviato del Corriere della Sera giura di aver intervistato Andreotti quel pomeriggio poco prima del suo comizio alla Festa dell’Amicizia, che secondo la cronaca del Popolo si svolse alle 16. Dunque l’intervista fu intorno alle 15. Ma poi i pm scoprono che all’ultimo momento il comizio venne spostato, per il caldo, alle 18. E che Andreotti giunse stranamente in ritardo: dopo le 18,30. Dunque, stando al ricordo di Sensini, l’intervista era iniziata verso le 17,30. E prima, dalle 14 alle 17,30, Andreotti ebbe tutto il tempo per incontrare segretamente chi gli pareva.

    Fa fede la chiusura dell’intervista di Sensini, uscita l’indomani sul Corriere: “Così Andreotti Belzebù si congeda e va a parlare sotto i terribili tendoni del festival…”. Il buco temporale che Sensini doveva riempire si riapre. Come la risolvono, a questo punto, i giudici del Tribunale? Semplice: “Il Sensini ha espressamente affermato che si trattò di un ‘artificio letterario’”. Peccato che Sensini abbia dichiarato al processo che Andreotti, subito dopo l’intervista, si congedò da lui: l’artificio letterario non era la frase “Andreotti si congeda”, semmai la definizione di “Andreotti Belzebù”. In appello i giudici, che pure ebbero il coraggio di affermare la mafiosità del senatore a vita fino al 1980 ribaltando il verdetto di primo grado, preferirono sorvolare su queste anomalie a proposito del vertice con Riina, confermando per quell’episodio l’insufficienza di prove.

    Ora vedremo come la metteranno quanti sostengono che la storia non si fa nelle aule di tribunale. Giusta teoria, se avessero la decenza di aggiungervi un “soltanto”: la storia si fa anche nell’ora d’aria. Soprattutto se a parlare è il boss che incontrò Andreotti. Il bacio è un apostrofo rosa fra le parole “Stato” e “mafia”.

  • agbiuso

    Maggio 8, 2013

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    […]
    Una sconfitta molto più grave, sul piano umano e personale, che rende chiaro il livello di questa classe politica: non c’è stato un consigliere uno ad aver lasciato l’aula insieme a Umberto Ambrosoli. Non uno è uscito non dico a scusarsi, ma solo a dimostrargli che nelle istituzioni, prima ancora nel partito che ne ha sfruttato volto intelligenza e storia, non è solo. E invece, anche ieri, un altro Ambrosoli è stato abbandonato dalle istituzioni, da chi avrebbe invece sostenerlo.
    […]
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    Articolo intero: Andreotti, il vergognoso Pd lombardo che abbandona Ambrosoli
    di Davide Vecchi

    il Fatto quotidiano, 8 maggio 2013

  • agbiuso

    Maggio 8, 2013

    Per capire ancor meglio chi sia stato davvero Giulio Andreotti.

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    Andreotti non andò al funerale di mio padre. Preferiva i battesimi
    di Nando dalla Chiesa

    Non posso negarlo. Con lui avevo una questione personale. Per via dell’assassinio di un prefetto che mi era caro. Ucciso a Palermo il 3 settembre del 1982. Che era stato al suo diretto servizio: lui capo del governo, il prefetto – allora generale dei carabinieri – alla guida della lotta al terrorismo. Una settimana dopo quel 3 settembre venne intervistato alla festa dell’Amicizia (ossia della Democrazia cristiana) da Giampaolo Pansa. Che gli domandò perché non fosse andato ai funerali del prefetto. “Perché preferisco andare ai battesimi”, rispose lui mandando in sollucchero il pubblico.

    Era la sua ironia, quella che deliziava politici e giornalisti cortigiani. Poi andò dai democristiani siciliani e li invitò tra gli applausi a respingere “il falso moralismo di chi ha la bava alla bocca”. Ricordai perciò subito quel che il prefetto mi aveva detto passeggiando in campagna qualche settimana prima di essere ucciso, per spiegarmi perché gli fosse così duro rappresentare la legge a Palermo: “Gli andreottiani ci sono dentro fino al collo”. Feci a un quotidiano alcuni di quei nomi, invitando a cercare nei loro ambienti di partito i mandanti del delitto e mi costò un marchio di infamia. Scoprii poi che l’uomo politico si era pubblicamente pronunciato contro la nomina a prefetto della vittima sostenendo che il vero pericolo venisse da Napoli e non da Palermo, dove pure avevano tirato giù in pochi anni tutte le più alte cariche istituzionali.

    Scoprii ancora che il prefetto, dopo un’intervista del sindaco (andreottiano) di Palermo aveva scritto al capo del governo, Giovanni Spadolini, di essersi sentito minacciato “dalla famiglia politica più inquinata del luogo”. Parole grandi, cupe, che Spadolini, galantuomo, lasciò senza risposta. Scoprii perfino che il prefetto neonominato era stato invitato a colloquio dal suo ex superiore e gli aveva “dato però la certezza che non avrò riguardo per i suoi grandi elettori in Sicilia”. E che questi gli aveva risposto facendo misterioso riferimento al rientro in Italia di Pietro Inzerillo in una bara e con un biglietto di dieci dollari in bocca. E scoprii ancora (me lo disse il giudice Falcone) che il kalashnikov che aveva ucciso Totò Inzerillo, il fratello di Pietro, era lo stesso che aveva ucciso il prefetto. A volte le questioni personali fanno vedere ciò che gli altri non vedono, per pigrizia, per sonno della ragione, o per questioni personali eguali e contrarie. A volte danno perfino il coraggio di dire ciò che gli altri tacciono.

    Fu allora che decisi di scrivere un libro per raccontare quel “delitto imperfetto” che aveva lasciato sullo sfondo alcune sagome ben individuabili. Lontane, sfumate, ma visibili. Come quando nulla di preciso si sa sui fatti ma molto si capisce del clima morale e delle affinità elettive. Prima di avvisi di garanzia e di processi. Per proteggermi scrissi il libro di nascosto e lo feci uscire in Francia. Pubblicarlo in Italia fu proibitivo, perché l’uomo era potente e riverito. Era rimasto quasi trenta volte immune da richieste di autorizzazione a procedere in Parlamento. E lo avevano appena applaudito a scena aperta anche alla festa dell’Unità (del Partito comunista) a Roma. Quando il libro uscì con Mondadori, grazie a Giulio Bollati e a Corrado Stajano, lui vergò per me sul Messaggero il suo commento: “Spero che possa pentirsi di quel che ha scritto”. Proprio così: “pentirsi”, non “ravvedersi”.

    Il marchio di infamia divenne a vita, perché il potere ha memoria di elefante e impersonale, si tramanda nelle generazioni. Chiamato a spiegare queste cose nel maxiprocesso, prima dichiarò il falso poi alluse a cose cattive dette dal prefetto nei miei confronti. Ne venne richiesta l’incriminazione in aula, ma ne uscì con un espediente da allibire. Alla fine il prefetto ebbe giustizia inaspettata in Cassazione. La mafia per vendicarsi delle mancate promesse di impunità uccise il capo degli andreottiani in Sicilia, i cui ricchissimi amici erano già finiti senza scampo nel processo. Lui dimenticò le cresime e anche i battesimi. E quella volta, dieci anni dopo, scese a Palermo per un funerale. Perché, come diceva Mao, ci sono morti più leggere di una piuma e morti che pesano come montagne.

    il Fatto Quotidiano, 7 Maggio 2013

  • agbiuso

    Maggio 6, 2013

    Ora che la cosa turpe ha cessato finalmente di esistere, si scatena il rimpianto dei suoi complici e degli eredi dei suoi complici.

    τὸν τεθνηκóτα μὴ κακολογεῖν (o De mortuis nihil nisi bonum) è un’affermazione senza senso quando chi è morto è un criminale o un uomo pubblico responsabile di comportamenti nefasti. In caso contrario, non si dovrebbe parlar male neppure dei serial killer o di Adolf Hitler o di Iosif Stalin e di tanti altri. Dei quali, invece, si parla malissimo.
    
L’ipocrisia è a volte necessaria nella vita sociale ma non lo è in questo caso.

  • filippo scuderi

    Settembre 15, 2010

    Leggendo questo articolo mi viene in mente l’omicidio di Notarbatolo.
    Nel lontano 1893 viene ucciso Notarbaolo, ex sindaco di Palermo ex direttore del banco di Sicilia, l’unico indagato Palizzolo, dopo diversi processi tra Milano (dove per la prima volta si sente parlare in un processo della parola mafia) Bologna e Firenze, viene scagionato e addirittura ritorna in Sicilia da vero eroe , non parliamo del fatto che l’unico testimone muore il giorno prima del processo (suicidato) a questo punto mi chiedo in Italia non é cambiato nulla, tutto procede come al solito, possiamo ricordare Mattei, possiamo ricordare Livantino e tanti altri lasciati soli, é allora cosa dobbiamo fare visto che non è cambiato nulla, io personalmente ho tanta rabbia, l’italiano-siciliano che entra in politica deve chiedere scusa per questi precedenti, oppure dobbiamo usare le palline bianche e nere per mandare via dal nostro paese i tanti furbi-assassini, c’é il pericolo che rimanga un’Italia vuota , ma tanto é vuota lo stesso , vuota di memoria.
    Filippo Scuderi

  • Biuso

    Settembre 11, 2010

    Grazie, Pietro, per aver inserito qui la struggente, lucida e bellissima lettera inviata da Ambrosoli alla moglie, nella piena consapevolezza che avrebbe potuto morire. Quest’uomo agì nel solo interesse di quanti erano stati truffati dal mafioso Sindona e dai suoi complici nelle istituzioni e in Vaticano. Agì dunque in favore di anonimi, di sconosciuti. Questo lo rende grande. Ed è questo che fa vedere nella giusta luce il livello della gentaglia che lo lasciò solo, lo ostacolò, cercò di corromperlo, lo minacciò, e infine lo uccise. E che ancora lo disprezza. Costoro, a partire da A. e B., non hanno comunque colpa. Puzzare è nella loro natura di escrementi.

  • Pietro Spalla

    Settembre 11, 2010

    «Anna carissima (…) sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I. [=dichiarazione di fallimento della Banca Privata Italiana di Sindona, ndr], atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo. I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto (…) Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi». – Giorgio Ambrosoli (1933-1979)

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