Sul numero di maggio 2010 del mensile Nuova Secondaria leggo un breve articolo dedicato agli insegnanti francesi che a Vitry-sur-Seine hanno compiuto un vero e proprio “ammutinamento”, sospendendo i corsi a causa del clima di assoluta insicurezza personale in cui sono costretti a lavorare: «All’ombra di compassate pedagogie imperversano allievi alla soglia del crimine. (…) Passate in corridoio, e vi lanciano insulti e gesti di minaccia. State spiegando, spalancano la porta, succede tre volte, quattro volte al giorno, un ragazzo mette la testa dentro, parla con qualcuno, senza badarvi. Ormai molti di noi si chiudono dentro a chiave. Dobbiamo fare i poliziotti, perché nei corridoi si urla, ci si scontra, ci si batte, le porte delle aule vengono prese a calci» (pp. 16-17).
Nel pieno della pratica sessantottina, Pasolini scriveva che gli studenti «sono regrediti -sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita- a una rozzezza primitiva (…) lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare» (Lettere luterane, Einaudi 1976, pp. 8-9).
Viziati e protetti in modo osceno dai loro genitori, blanditi dal mercato e dalla pubblicità, decerebrati da dosi massicce di televisione e videogiochi, coccolati a ogni lacrimuccia e giustificati a ogni aggressione da professori-amici e da professoresse-mamme, adulati da tecniche pedagogiche alle quali si può ben applicare l’ironia di Schopenhauer -«nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, Adelphi 1981, tomo I, p. 647)-, innumerevoli studenti rappresentano un settore della società fra i più violenti e conformisti, pervaso da una crudeltà gratuita e giocosa, da un’arroganza teppistica. A queste persone è sempre più difficile rivolgersi con parole che abbiano un qualche significato. I ragazzi vi sostituiscono il puro niente del significante, dell’urlo onomatopeico e idiota.
Troppi professori (dei pedagogisti non mette conto di parlare) hanno dimenticato le sagge riflessioni di Antonio Gramsci: «il ragazzo che si arrabatta con la storia e la matematica si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. (…) La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”». (Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117). Sta qui la vera radice della fine della scuola. Un’istituzione che regala diplomi e lauree a dei sostanziali analfabeti merita davvero di scomparire.
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24 commenti
agbiuso
Quando una società rinuncia ad educare emergono inevitabilmente fenomeni come un narcisismo di massa che ritiene di poter apporre ovunque la propria firma, il proprio inutile nome.
agbiuso
«Sono l’insegnante che ha subito un accoltellamento da un suo alunno di seconda superiore. Avevo preferito inizialmente la linea del silenzio stampa, ma poi una serie di informazioni false diffuse sui media, in particolare circa presunte note con cui avrei vessato l’alunno, mi aveva indotta a rilasciare un’intervista a Repubblica subito dopo le mie dimissioni dall’ospedale, nonostante fossi ancora molto sofferente.
Le dichiarazioni successive, soprattutto quelle rilasciate in televisione dal difensore dell’alunno, mi inducono oggi ad un’ulteriore precisazione. Scelgo volutamente la stampa in luogo della televisione, in accordo con i miei legali, perché lo ritengo un medium informativo più discreto e non voglio che l’accento venga messo sugli aspetti scandalistici ed emotivi della vicenda.
In primo luogo tengo a precisare che, nonostante sia uscita dall’ospedale il quarto giorno dopo l’intervento, il dolore al braccio è ancora intenso, ho diverse ferite da taglio sulla testa, inclusa una microfrattura cranica, e che i colpi inferti vicino al collo per puro caso non hanno intercettato l’aorta, altrimenti non sarei più qui. Sono ancora ben lontana dal poter riprendere una vita normale. Mi attende infatti una lunga e dolorosa fisioterapia, oltre che un percorso di supporto psicologico, senza considerare il danno permanente che potrebbe conseguire a quanto accaduto.
Dispiace sentire minimizzare implicitamente dall’avvocato del ragazzo il dolore fisico che ancora provo, dispiace che si scelga di farlo in tv, così come, ribadisco, mi è dispiaciuto non ricevere le scuse della famiglia, che (a differenza di quanto dichiarato) conosceva la mia mail istituzionale, così come la conoscevano tutte le altre famiglie e gli alunni che l’hanno usata per dimostrare la loro solidarietà alla mia persona, oltre che alla scuola.
Vorrei si lasciasse alle persone deputate e competenti (psichiatri, educatori, magistrati) la valutazione del ragazzo, del suo vissuto e delle sue azioni: ho piena fiducia che chi di dovere saprà garantire il percorso di cui lui ha bisogno, lontano dalla risonanza mediatica e nel rispetto del dolore di tutti.
Colgo l’occasione per condividere anche una breve riflessione sulla scuola, perché tanto si è detto e scritto della scuola in queste settimane.
Tengo a dire che ho scelto di trasferirmi all’IIS Alessandrini di Abbiategrasso proprio perché lo conoscevo come una scuola dell’accoglienza, dell’inclusione, del supporto agli alunni in difficoltà; è un istituto in cui molta attenzione viene prestata all’umanità degli alunni e ai loro percorsi di crescita, in cui la maggioranza dei colleghi e lo stesso gruppo di dirigenza si impegnano a fondo a questo scopo, in cui è attivo uno sportello psicologico tenuto da un professionista capace ed esperto. Penso di essere a mia volta una docente attenta ai bisogni anche emotivi dei ragazzi e aperta al dialogo con le classi.
Alcuni spunti di riflessione però si impongono.
1. Purtroppo la scuola fa un lavoro molto delicato e discreto in un contesto sociale ed economico che utilizza quotidianamente il linguaggio della competizione, della mercificazione e della violenza, che del litigio fa spettacolo, che dell’uccidere fa il principale obiettivo dei videogiochi per bambini, e che ai linguaggi d’odio si è quasi assuefatto, in cui gli stessi rappresentanti delle istituzioni non si sottraggono ad aggredire verbalmente anche le minoranze o categorie fragili come i migranti. La scuola opera in un contesto politico in cui si preferisce investire risorse nelle armi e nella guerra piuttosto che nei servizi e nella solidarietà sociale.
2. In secondo luogo la scuola è oggetto costante di discredito sociale, ritenuta causa del disagio dei ragazzi, primo capro espiatorio di un livello culturale sempre più basso nel nostro paese, benché, giorno dopo giorno, ognuno di noi si impegni a stimolare gli alunni, a creare ambienti di apprendimento che consentano loro di diventare cittadini critici e capaci di apprezzare la bellezza e di costruirsi un percorso di vita».
agbiuso
Molto istruttiva anche questa analisi di Marina Boscaino, sul Fatto Quotidiano del 3.9.2014:
Riforma della scuola: esempio eloquente del degrado della democrazia
Biuso
Condivido questa franca analisi di Giorgio Israel.
La condivido anche perché negli ultimi anni di insegnamento liceale la formula del “successo formativo garantito” mi veniva rivolta dai presidi durante gli scrutini come una vera e propria arma. Non mi intimidivano, naturalmente, ma sulle valutazioni di non pochi colleghi tale arma aveva un effetto devastante.
Ora all’università le percentuali di studenti ai quali sono costretto a non dare la materia sono certamente più alte della media. Ma la filosofia è un sapere esigente e difficile, che richiede uno studio che gli studenti hanno liberamente scelto e al quale hanno dunque il dovere di dedicarsi in modo sistematico e rigoroso.
E questo vale per ogni disciplina insegnata e appresa in Università.
L’obiettivo descritto da Israel –la trasformazione dei docenti in assistenti sociali sottoposti a una onnipotente burocrazia- viene da lontano ed è funzionale alla distruzione di ogni atteggiamento critico verso chi comanda.
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La scuola e l’autentica promozione del merito
di Giorgio Israel, Roars 4.9.2014
Grande è la confusione sotto i cieli dell’istruzione italiana, il che, contrariamente al pensiero del presidente cinese Mao Tse Tung, non è affatto una buona cosa. Ci riferiamo soprattutto alla questione della valutazione e del merito dove la schizofrenia è tale da raggiungere paradossalmente esiti coerenti. Le cronache annunciano che le promozioni all’esame di maturità sfiorano la totalità, cui però non corrisponde una crescita di qualità: al contrario, prevale la tendenza verso la mediocrità generalizzata. Si leva pronto il coro di chi coglie l’occasione per proporre l’abolizione dell’esame di stato, e anzi di ogni esame, visto che agli esami di terza media le percentuali sono analoghe. Nulla di strano poiché da decenni c’è chi persegue una scuola senza voti ed esami, appiattita su quella che fu sfortunatamente definita la “media minima”. Una persona di buon senso potrebbe chiedersi quale coerenza vi sia nel parlare da mane a sera di valorizzazione del merito e poi cancellare ogni selezione. Una coerenza c’è, se s’identifica il merito con la promozione del “successo formativo garantito”. È la coerenza perversa dell’appiattimento che si avvale di tanti strumenti, come l’identificare ogni cattivo rendimento scolastico come “difficoltà di apprendimento”. La persona di buon senso potrebbe chiedersi che cosa resti in mano all’insegnante se lo si priva del potere di premiare i migliori e penalizzare chi non s’impegna. Ma anche qui dipende da come si pensa la funzione dell’insegnante: un “maestro” nel senso pieno del termine ha bisogno di quel potere, un “facilitatore”, un “animatore”, deve rinunciarvi. A lui spetta il mero compito di promuovere il successo formativo garantito, di applicare fedelmente le innumerevoli prescrizioni ministeriali, di riempire centinaia di moduli, di somministrare e correggere i test, di assolvere la funzione di badante del processo di autoapprendimento. Sbaglierebbe quindi la persona di buon senso a stupirsi che, mentre si cancella la promozione del merito per gli studenti, il tema centrale sia la valutazione dell’insegnante: difatti, l’intenzione è di trasformarlo in un badante.
Così non è da stupirsi che l’unica forma seria di valutazione, quella basata su procedimenti ispettivi interni alla categoria, sia trascurata, non solo perché costosa, ma perché corrisponde all’unico modo di concepire la valutazione come un processo di crescita culturale. Prevalgono idee di valutazione basate su tecniche numerico-statistiche e la tentazione di ricorrere agli esiti dei test Invalsi. Anche qui il buon senso suggerisce che valutare un insegnante dagli esiti della sua didattica è assurdo: si rischia di punire chi opera in un contesto difficile e premiare chi opera in un contesto facile. Ma questo non interessa chi non bada alla sostanza ma solo alla forma; tantomeno costui si preoccupa del fatto che i procedimenti statistici che sono alla base dei test Invalsi siano autoreferenziali, in quanto standardizzano a tal punto le visioni delle materie che le abilità valutate dai test Invalsi sono quelle di risolvere i test Invalsi stessi, e nient’altro.
Il peggio è che l’ideologia che sta dietro queste tendenze è manifesta ma avanza in modo caotico, a pezzi e a bocconi, infilandosi tra una sperimentazione e l’altra, col risultato che la scuola italiana è un vestito di Arlecchino. Come se non bastasse, gli “sperimentatori” si accaniscono sempre più, ora mirando alla soppressione degli esami, ora riesumando progetti di ristrutturazione dei cicli pensati quasi vent’anni fa, ora progettando la riduzione dei licei a quattro anni, mentre nell’ultimo anno un corso dovrebbe essere tenuto in altra lingua, non importa se con una drammatica caduta di livello per l’assenza di competenze linguistiche sufficienti; o addirittura pensando di trasformare le scuole in centri sociali.
A ben vedere, la situazione all’università non è diversa. Anche qui si è radicata l’idea del “successo formativo garantito”, per cui un docente che boccia troppo finisce sui giornali. Del resto, cosa direbbe la persona di buon senso leggendo sull’avviso di un corso universitario che «la percentuale prevista di studio dello studente sul totale dell’impegno richiesto è del 65%»? Direbbe che è ridicolo pensare che quella percentuale sia indipendente dalle capacità dello studente. Eppure, i docenti universitari sono talmente assuefatti a un siffatto demenziale linguaggio burocratico da non farci più caso. Si era promesso che l’ultima riforma si sarebbe ispirata al principio della valutazione ex post: fate le scelte che ritenete più opportune e sarete valutati per gli esiti. È accaduto esattamente il contrario, per cui l’università è ridotta a un sistema che agisce in esecuzione delle minuziose direttive dell’onnipotente agenzia di valutazione (Anvur), ispirate da escogitazioni statistiche impermeabili a qualsiasi critica di merito. La situazione ha raggiunto livelli tali da suscitare proteste e l’ammonimento di chi ha avvertito che, di questo passo, sarà la morte della valutazione. Ma non è così: sarà piuttosto la morte dell’università come sistema di didattica e ricerca basato sul fondamentale principio dell’autonomia e in cui resti tempo per pensare alla conoscenza, alla cultura, e non solo alle procedure. L’ultimo disastro attiene al tema della trasmissione generazionale. Tutti sapevano che le gigantesche immissioni ope legis di qualche decennio fa avrebbero prodotto un’imponente ondata di pensionamenti e un pericoloso salto generazionale. La trasmissione delle conoscenze e delle esperienze è un fattore fondamentale in un sistema dell’istruzione, secondo quel delicato equilibrio descritto da Hannah Arendt quando insisteva sulla necessità di preservare una base di “conservatorismo” per fornire ai giovani gli strumenti per il rinnovamento. Ma ora si affaccia un nuovo provvedimento che “rottama” altri docenti approfondendo la rottura generazionale e culturale. Chi si riempie la bocca dei modelli esteri non dice che nelle università statunitensi si può restare fino a novant’anni o essere licenziati a cinquanta. Non si fanno le guerre generazionali nell’ambito della cultura e dell’istruzione.
Vi sarebbe poi da dire qualcosa circa l’ostinazione a non voler ripensare l’accesso alle facoltà di medicina guardando ai modelli esteri, la ripetitiva sceneggiata dei test in cui chi non copia o “collabora” è un fesso. Così, il vero dramma nazionale è sempre l’incapacità di concepire l’autentica promozione del merito. Sarebbe interessante approfondire le radici storiche di tale incapacità, legate a una tradizione dirigista inesauribile che si ripropone ora sotto vesti progressiste ora sotto vesti tecnocratiche. Ma forse anche questo è un tema troppo culturale in tempi in cui è lecito parlare soltanto per cifre e statistiche.
Adriana Bolfo
Gentile Alberto, avevo iniziata una lunga risposta e inavvertitam, poi, ho scontrato qualcosa e vanificato tutto. Riprenderò un altro giorno, a un’ora meno tarda. In sintesi: credo che la Lettera e don Milani vadano contestualizzati; non mi pare che egli fosse per lo ‘svacco’ contemporaneo, e ‘contemporaneo’ da troppo, che vediamo nell’istruzione e, in genere, nel sociale; i suoi poveri erano forse veramente trattati da ultimi, e così, credo, tanti delle classi subalterne, da tanti insegnanti.
Che molta scuola, pretendendosi ‘non di classe’, sia diventata ‘declassata’, e non solo negli ultimi anni, è solo e proprio vero. A ciò hanno cooperato in maniera massiccia idealità e idealitari (crasi di idealisti egualitari) del ’68 e dintorni, moltissimi dei quali comunque privilegiati rispetto ai ragazzini di Barbiana e assolutamente inconsapevoli del privilegio di poter tranquillamente studiare senza dover combattere col lavoro-miseria (e non mi riferisco solo ai ragazzi della borghesia).
Non credo che don Milani volesse la facilitazione ad oltranza e lo svuotamento del sapere, non mi pare ricavabile dalla Lettera; disvelava le barriere di classe, anche irriflesse, nella pratica soprattutto della scuola dell’obbligo, alla base della politica scolastica, e della politica in genere, e agenti nella quotidianità della scuola grazie a insegnanti e a regole (nell’insieme, tradizioni) di fatto discriminanti. E’vero che non si può dire che cosa vorrebbe o non vorrebbe chi non può più rispondere né con le parole né con le azioni. Dalla lettera non ricavo né lassismo né giustificazione della negligenza nei compiti di alunno e di insegnante. Certo, molto si è prestata al disastro o molto è stata impiegata per il disastro scolastico, perché moltissimi hanno vista la protesta di classe come giustificazione al diritto di non far nulla e di avere/dare tutte le scorciatoie nella scuola stessa, proprio quei moltissimi che, invece, sarebbero stati (e non si sono sentiti) nell’obbligo socio-politico o semplicemente obbligo di dare/fare di più a fronte del vantaggio sociale di cui godevano, cioè di poter studiare tranquillamente, con qualche svago e vacanza. E non parlo solo dei figli della borghesia, quelli che poi, sono d’accordo con lei, sono stati abilissimi a cavalcare la tigre e a costruirsi comunque dei vantaggi.
I facilitati-faciloni di tutte le classi hanno piegata la Lettera a proprio uso e consumo, perché lavorare meno e avere (la promozione) fa sempre comodo e concedere e parer buoni e illuminati anche. Molti devono esser sentti i poveri montananri di Barbiana senza esserlo; e, ohimé, molti si saranno sentiti don Milani senza sacrificio alcuno, del proprio tempo e delle propri privati-pubblici protagonismi.
Inoltre: che a Barbiana si desse poco spazio all’affettività è anche mia impressione; certo nulla ne è finito nella Lettera. E le ragazzine, in minor numero nella scuola (perché veramente poche nella frazione o più ‘legate’ ai lavori per e nella famiglia?), non sembrano neppure esistenti. Non possiamo chiedere a un prete-uomo (e non sto facendo una boutade, dato che nei confronti di un prete-donna avrei comunque dello scetticismo), e per giunta di un’epoca pre-rivoluzione sessuale e pre-femminista, certe sensibilità e accortezze nel rapportarsi, e nel far rapportare gli alunnni maschi, a un essere uguale-differente-uguale. Una critica a Barbiana e in particolare alla società marcatamente a valore maschile si trova nella Lettera di una professoressa, leggibile in uno dei siti su don Milani e Barbiana, che non so segnalare a memoria.
Ora chiudo perché ho fatto davvero tardi. Mi scuso per non aver risposto prima, ma per un po’ non sono riuscita a ritrovare la rubrica specifica. Ragionare su un problema è talmente piacevole che le promessa sintesi per continuare un’altra volta è diventata più lunga della lettera maldestramente interrotta. Va bene così: anche questo era da fare. La ringrazio dell’attenzione e le auguro buon proseguimento.
Filippo Scuderi
“OT”
Mercoledì 26 Maggio alle ore 16,30 presso ex Monastero dei Benedettini (Catania zona Piazza Dante)auditorium G.De Carlo” si terrà il 2° congresso internazionale HENRY SIDGWICK
Etica,Psichica,Politica
PS: filipposcuderi1@virgilio.it per eventuali risposte di Lo Giudice e Catania
grazie
F.S.
Biuso
@Adriana Bolfo
Che Don Milani fosse personalmente severo coi suoi allievi è una questione diversa dal significato e soprattutto dalle conseguenze della Lettera a una professoressa.
Quel testo afferma senza infingimenti: «Siete tutti d’accordo. Ci volete schiacciare» (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967, p. 64); «la scuola selettiva è un peccato contro Dio e contro gli uomini», «perché è solo la lingua che fa uguali» (106 e 96). La Scuola di Barbiana vive del «sogno d’una lingua che possa essere letta da tutti, fatta di parole d’ogni giorno» (133), la lingua che di lì a poco avrebbe cominciato a trionfare negli slogan urlati in piazza, per trasferirsi -pronunciata dagli stessi individui- nel trionfo delle televisioni, dove tutti parlano con grande chiarezza, con una lingua tanto più semplice quanto più deve farsi veicolo di vendita, dove il modello della semplicità che da tutti si fa capire, che nessuno esclude, è l’imbonitore televisivo. Il sogno della Scuola di Barbiana è diventato realtà.
La lingua è in grado di rendere ovvia, di trasformare in senso comune anche l’idea all’inizio più inconsueta. «C’è poco nella vostra scuola che serva alla vita»: quante volte, da allora, questa frase è stata ripetuta, ripetuta fino a diventare vera, fino a far coincidere la vita con le esperienze più diverse ma da escludere dal rango di esperienza il contatto con Dante, Caravaggio, Einstein, Proust, Darwin, Spinoza. Inserendovi, invece, «il contratto dei metalmeccanici» (27 e 29). Anche di questa incredibile ma vincente confusione di livelli è vissuto il Sessantotto. Esso si è inebriato nell’attacco furibondo a una scuola della quale non voleva superare i pur concreti e grossi limiti ma che voleva soltanto e semplicemente distruggere come sovrastruttura di classe. Distruggerla cominciando a trasformarla davvero in scuola di classe, imponendole l’obbligo di promuovere guardando non al merito ma al lavoro del padre. Inventando il dovere etico e didattico di compensare l’ingiustizia nella società con il premio dell’avanzamento a scuola per chi proviene da un ceto piuttosto che da un altro.
«Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali» (55). Con questo assioma profondo e inoppugnabile, la Lettera riassume la sua diagnosi e prescrive la sua terapia. Chi non è disposto ad abbracciare con passione o almeno ad accettare un simile dogma evangelico-marxista viene accusato di essere una povera creatura generata da «quell’aborto che voi chiamate scuola» (29), di compiere una costante opera di eliminazione dei più deboli e quindi di meritare una serie di ingiurie che vanno dalla stupidità alla cattiveria, dalla superficialità alla somiglianza con il «criminale nazista» (78); «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo» (39).
Gli insegnanti vengono poi attaccati sul piano più direttamente professionale mediante espressioni anch’esse divenute proverbiali, luoghi comuni da allora vincenti: i professori sono «gente disattenta che tiene il coltello dalla parte del manico», con un orario di lavoro talmente indecente da suscitare disgusto quando sciopera o crede di avere diritti sindacali. (21, 62-63, 88-89, 108). I professori sono espressione di quel PIL, Partito Italiano Laureati, che viene definito il più grosso partito italiano, il più rappresentato in Parlamento, il più discriminante. Ottenere un titolo superiore di studio significa essere reo di colpa grave dato che lo si è ottenuto -che lo si sappia o meno- con il sangue, la fatica, il lavoro di migliaia d’altri uomini meno fortunati. Questa furia iconoclasta, questa summa di fondamentalismo cristiano, non fa davvero distinzioni di posizione ideologica o partitica: Confindustria e PCI sono la stessa cosa, i lettori di Famiglia cristiana o dell’Espresso sono tutti colpevoli se fra i loro rampolli hanno dei laureati. «I partiti dei lavoratori non arricciano il naso davanti ai figli di papà. E i figli di papà non arricciano il naso davanti ai partiti dei lavoratori. Purché si tratti di posti direttivi (…) Il colmo della raffinatezza è appartenere a un partitello senza massa (socialproletario o cinese). Una manifestazione “cinese” a Firenze nel settembre 1966 era messa su da studenti figli di grossi professori universitari» (76).
C’è qui la prefigurazione, ironica e amara, di uno degli elementi del Sessantotto. I ragazzi della buona borghesia che scendono in piazza gridando parole d’ordine contro la loro classe, i figli di papà in lotta per sopprimere le condizioni che li hanno generati. Ma la Lettera non è stata in grado di prevedere che i «Pierini», come li chiama, saranno capaci di utilizzare a man bassa la sua stessa raffinata retorica. I figli sempre promossi dei signori faranno tesoro della lezione linguistica e ideologica della Scuola di Barbiana. Senza alcun senso di colpa, senza traccia di disagio, scriveranno e ripeteranno entusiasti che «gli esami vanno aboliti», che non è giusto bocciare poiché coloro che subiscono tale ingiustizia tornano poi «a lavorare nei campi. E in tutto quello che mangiamo c’è dentro un po’ della loro fatica analfabeta» (21 e 41). Ma a Barbiana non si vide lungo. La retorica antiselettiva, il disprezzo verso il merito colpiscono fatalmente, prima o poi, proprio coloro che godono di minori protezioni, coloro che non hanno il patrimonio di famiglia su cui contare, coloro che non possono usufruire di raccomandazioni. Se «una scuola che seleziona distrugge la cultura» (105), una scuola che non seleziona più ribadisce tutte e ciascuna delle diseguaglianze di partenza, sposta la differenza sul mercato del lavoro, diffonde nella società civile la convinzione della inutilità dell’apprendere, del formalismo del diploma e dell’efficacia invece delle protezioni. Almeno, è questo ciò che è avvenuto.
No, nessun merito, nessuna differenziazione possono valere di fronte a un’altra enunciazione apodittica: «tutti i ragazzi sono adatti a tutte le materie» (81). Qui opera per l’ennesima volta una delle grandi e potenti utopie scaturite dall’antropologia di Rousseau: l’immane pretesa di abolire per decreto i limiti cerebrali di una persona, la negazione prometeica della natura. E non vale l’obiezione che la Scuola di Barbiana si riferisse all’istruzione dell’obbligo. Non c’è infatti criterio logico o didattico che legittimi la bocciatura nella scuola secondaria se essa è comunque un delitto in quella primaria. La Lettera sembra mostrarsi in questo inconseguente, ma sembra soltanto perché pone poi tante di quelle difficoltà alla selezione anche nelle scuole secondarie da richiederne di fatto l’abolizione. È qui, dunque, in questo abilissimo testo che trovano la loro prima espressione il 6 politico nelle scuole e il 27 garantito nelle Università.
Strumenti, questi ultimi, di distruzione effettiva della scuola. Una sorta di notte nella quale tutte le menti sono mediocri e se ne vantano quale segno di fratellanza umana. Un appiattimento in nome del quale la Lettera può proporre in tutta serietà l’abolizione o il drastico ridimensionamento -in ordine- del latino, della matematica, della filosofia, della pedagogia, di gran parte della tradizione letteraria italiana. E con quali motivazioni, poi! Contro i Sepolcri si afferma che «io non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri» (130).
Quando i criteri diventan questi è naturale che a definire la scuola nascano le metafore più tristi eppur significative: la scuola come tribunale di giudici prevenuti contro i poveri o ciechi verso la loro condizione, la scuola come ospedale che cura i sani e respinge i malati. Il docente, piuttosto, non è e in ogni caso non deve mai essere un giudice di alcunché o un medico dell’anima ma solo uno specialista della formazione che ha lo scopo di trasmettere conoscenze tecniche e suscitare nell’allievo una riflessione che sia dell’allievo appunto e non del maestro.
Ed ecco che -quasi come in un laboratorio, quasi in vitro- la Lettera a una professoressa mostra il suo lato oscuro che è anche la verità di tutte le utopie. La scelta in favore degli ultimi si rivela quale tentativo di sottomettere le menti e le vite a un Maestro che dia loro verità, l’amore per l’Uomo si capovolge in disprezzo per la libertà degli individui. Un khomeinismo pedagogico la pervade mostrando a volte apertamente tutto il proprio rigore fanatico. Si afferma che a scuola si va per ascoltare il maestro e non per avere opinioni personali, si difende l’uso della frusta nei confronti dei più recalcitranti, si nutre solo disprezzo verso i bisogni sportivi e sessuali dei giovani, si propone il celibato per gli insegnanti in modo da creare comunità di formatori che con il loro stesso esempio respingano lo stile di vita “moglie, macchina, mestiere” (e in ciò si indicano quali modelli la chiesa cattolica, Gandhi, il presidente Mao, il quale «ha additato all’ammirazione dei compagni un operaio che s’è castrato» [86]).
Sarebbe scorretto e ingeneroso negare alla Lettera una funzione di stimolo didattico al rinnovamento del modo quotidiano di fare scuola in Italia e non solo. Ma è legittimo chiedersi se un maggior contatto fra scuola e società civile, una migliore collaborazione fra le componenti del mondo educativo, una reale eguaglianza delle opportunità (ma non degli esiti!) avrebbe potuto ottenersi a un minor costo rispetto alle gravi conseguenze del fondamentalismo di Barbiana.
Per quanto riguarda, invece, il resto del suo intervento, Adriana, sono completamente d’accordo con lei. In particolare, l’insegnamento non è solo voce, non è soltanto testo, non è video. E’ l’intero corpo del docente a trasmettere significati, a dialogare, a costituire esso stesso una parte fondamentale di qualunque lezione-interazione.
Adriana Bolfo
Scrivo un po’ a salti, prima della notte fonda, perché argomento e luogo mi interessano. Non ho capito se il prof. Galavotti intenda indicare don Milani come esempio di lassismo scolastico. E’ solo un dubbio che forse mi vien dal leggere in fretta. Don Milani , v. suoi scritti specialm le lettere, sembra esser stato severissimo coi suoi allievi. Seconda cosa: credo che l’insegnante in classe e non (solo) in video conti e conterebbe ancora molto: presenza viva di persona, non robot snocciolante nozioni da uno strumento. Ma certo gli strumenti sarebbero da provare, in un esperim di insegnamento integrato: per esempio, e invento sul momento, una parte più schematica di un programma o argomento da svolgere da soli e mediante strumenti (esercizi di grammatica e di calcolo, cioè attività di allenamento; schemi/schede di argomento da sviluppare..). La presenza in classe mi sembra insostituibile al fine dell’educazione , cioè istruzione e convivenza e apprendimento di modi dell’istruzione e della convivenza. La severità dovrebbe essere nell’atteggiamento generale (certo in questo sono retrograda), a cominciare dal modo in cui ci si siede nel banco – e alla cattedra: nessuno che si stravacchi; pretendere che ci siano i libri e che vengano aperti (molti non lo crederanno, ma spesso i ragazzi hanno il libro e non lo tirano fuori dallo zaino!!!); pretendere che non facciano contemporaneam dell’altro, con la scusa che comunque stanno in silenzio – se ci stanno; limitare le entrate in ritardo…Bisognerebbe essere noiosi e pignoli in tali e altri fatti formali che sono, in realtà, sostanziali e diventano funzionali al lavoro del momento e al vivere in comunità. E pazienza se ‘perdiamo minuti’ per la nostra preziosa lezione..come se lezione non fosse (anche) tutta quanta la situazione. E certo, comunque, maggiore severità nella valutazione, maggiore densità nei contenuti. Aiutare e anche reindirizzare chi ‘rimane indietro’..ma pretender e pretendere. Lo so che per stanchezza cadiamo e molliamo, anche perché, in realtà, l’insegnante fino alla scuola superiore non è sostenuto da nessuno e si trova esposto a tremila cavilli e intoppi. Quello universitario vive in parte in un altro mondo e si sostiene col prestigio del ruolo,comunque; se è anche serio e presente mi pare che possa proficuamente lavorare.
Sono pensieri un po’ così, da fine-lunga-giornata allungata cercando questo dialogo. Stimola a riflettere anche appassionatamente. Buona ‘sera’ a tutti!
Enrico Galavotti
Secondo me la tragedia della scuola italiana è avvenuta nel ’68. Prima di allora alle elementari esistevano due esami: in seconda e in quinta e alle medie si rimandava a settembre col rischio di dover ripetere l’anno anche se non si superava una materia.
Poi è venuto don Milani e poi la contestazione. Da allora è stato un crescendo di assurdità, di cui l’equazione scuola dell’obbligo = tutti promossi ha raggiunto il vertice.
Si chiusero inoltre le scuole speciali e s’inserirono i disabili di qualunque handicap nella scuola di stato, abbassando il livello delle classi.
Si resero formali le verifiche orali e scritte e persino gli esami (ora scomparsi del tutto alle elementari e la Moratti li voleva togliere anche alle medie, in quanto l’obbligo è a 16 anni).
Senza richiesta di rendimento è venuta meno la disciplina. La scuola s’è trasformata in un centro socio-assistenziale (persino i professionali oggi sono un coacervo di casi borderline).
Da circa un decennio gli stranieri che non sanno una parola d’italiano vengono messi subito nelle classi corrispondenti alla loro età, e anche se sono intelligenti e volenterosi abbassano inevitabilmente il livello della classe.
Quando i ragazzi arrivano alle superiori sono già distrutti e i pochissimi che arrivano all’università si trascinano lacune incolmabili, che li rende laureati analfabeti.
Insomma con l’acqua sporca del nozionismo astratto e del becero autoritarismo s’è buttato via il bambino dell’apprendimento faticoso.
Io sono nella scuola praticamente da più di mezzo secolo e devo dire che il livello di apprendimento dei ragazzi è andato progressivamente scemando, al punto che mi chiedo se non sia meglio tenere aperta la scuola solo a chi, al momento dell’iscrizione, riesce a superare test molto selettivi. A tutti gli altri riserverei i corsi di formazione professionale.
Salvatore Ricupero
Ringrazio il prof. Biuso per la sua ospitalità e gli intervenuti a questo dibattito che hanno fornito gli spunti del mio intervento. Mi presento per maggior chiarezza nei confronti di chi avrà la pazienza di leggermi.
Sono docente di materie scientifiche nelle scuole medie superiori, attualmente anche allievo di corsi universitari umanistici e sono anche genitore. Quindi coinvolto a pieno titolo in questo dibattito.
La complessità delle problematiche inerenti la scuola e la formazione in genere tende a negare qualsiasi forma riduzionistica o semplificatrice che dir si voglia, alla discussione.
La formazione, che include concetti quali educazione, istruzione ed apprendimento è una partita a tre che si gioca fra società, scuola ed utenza.
Qualunque discussione sull’argomento tende sempre ad escludere, non so perché, una delle tre dimensioni e quindi a ridurre la complessità del problema, falsando o approssimando in tal modo le possibili soluzioni.
Esempi:
Schopenhauer. “nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante”. Chi si interessa di pedagogia conosce Pestalozzi e le sue esperienze di educatore. Schopenhauer, non credo avesse di tale esperienze. Credo che gli individui non nascano stupidi, ma che stupidi invece lo possano diventare nella loro vita. Schopenhauer esclude di fatto la figura dell’essere/discente, privilegiando il binomio stato sociale-sistema educativo. Ma di Schopenhauer non mi meraviglio, dato il tempo storico in cui è vissuto ed il contesto sociale a cui apparteneva;
Gramsci/Biuso. “la partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni”. Io credo che la innegabile assenza, nella scuola di oggi, di tensione verso la conoscenza, la conseguente assenza del sacrificio allo studio che ne deriva e la domanda di facilitazioni che ne consegue, chiede fortemente la presenza del polo “società” e non può ridursi al semplice binomio docente-discente. La società in genere non ha saputo dar risposte adeguate, nel tempo, al giusto processo di massificazione dell’istruzione. Ove per adeguate risposte intendo strutture scolastiche opportune (se è vero che l’architettura condiziona sia il pensiero che la incolumità delle persone!), docenti qualificati e insomma centralità della cultura in una società moderna.
Purtroppo noi abbiamo saltato il modernismo per giungere in un post-modernismo distruttivo, disattivando progressivamente la funzione civilizzatrice della scuola.
L’homo oeconomicus di cui parla Foucault ha sancito la dipendenza dei saperi, della ricerca e dell’educazione da un sapere tecnico che pomposamente si definisce “scienza della economia”.
Che attendersi dai giovani se questa è l’unica scelta del catalogo “vita” che abbiamo presentato loro?
Avviso per i naviganti: Le borgate romane degli anni settanta, di pasoliniana memoria, ospitavano scuole con tasso di violenza almeno uguale a quello delle scuole di oggi.
Non vi fa pensare, inoltre, che l’episodio oggetto di questa simpatica discussione sia avvenuto proprio nella patria della pedagogia, la patria cioè di J.J. Rousseau, Fabre e, lasciatemi dire di Daniel Pennac, che teorico non è, ma grande educatore si? Io in Francia ho vissuto parecchio, per lavoro, e vi assicuro che a me la cosa ha lasciato molto perplesso!
Saluti a tutti, buon lavoro e pace fra i pensatori liberi.
Salvatore Ricupero
Alessandro Salerno
Proprio dopo il mio intervento, nel quale proponevo come misura minima per invertire la tendenza allo sfacelo l’introduzione di una prova scritta severa per tutte le materie universitarie, ecco quello di un giovane universitario – si presume – pieno di scorrettezze non solo ortografiche. A chi lo ha fatto notare prima di me sono stati mossi rimproveri e attacchi. Ma non si tratta di una polemica personale. Uno dei problemi è proprio questo: anche gli studenti dotati delle migliori intenzioni, di buona volontà e di qualche capacità, non hanno la minima padronanza della lingua italiana. E stiamo parlando di facoltà umanistiche! Ce ne vogliamo rendere conto? Non dovrebbero essere per primi i docenti universitari ad intervenire? Può uno studente con queste lacune laurearsi in una facoltà umanistica? Per fare che cosa poi?
Francesco Lo Giudice
Io vorrei ringraziare Alfio per aver dato vita a questo dibattito. Cio’ mi ha permesso di guardare oltre le parole di Filippo e capire il vero senso del suo commento (che io appoggio pienamente), ho anche letto i suoi commenti su agb.. fantastico ! Caro Filippo vorrei parlarti dal vivo e scambiare le nostre idee. Ti sembrerà strano ma le tue parole sono ispiratrici per un ragazzo che tante volte si é trovato indeciso sulle scelte da intraprendere nella vita, sei diventato un’ ispirazione ! Per favore contattami !
p.s. Alfio tu sei stato un poco ipocrita e precipitoso, dovresti scusarti con Filippo, non’è giusto precipitarsi su delle accuse infamanti e rovinare la reputazione di un ragazzo che ha tanta voglia di imparare ! (e a questo proposito di consiglio di leggere i suoi commenti su agb, magari impari qualcosa anche tu !)
Francesco Lo Giudice
Biuso
Per Scuderi, Simeoni, Catania.
Ribadisco l’invito a non cadere in polemiche personali. Ogni eventuale ulteriore intervento di questo genere verrà cancellato.
Grazie.
laura catania
Penso che la spruzzata di veleno di Alfio sia inopportuna nei confronti di Filippo Scuderi
Piuttosto che valutare il senso profondo e la sensibilita’ si é soffermato sull’apparenza della forma. Cosa piuttosto comune in questo mondo fatto di superficialità.
Ho avuto modo di leggere i vari commenti di Filippo Scuderi su agb e malgrado alcuni errori di ortografia dettati piuttosto dalla foga della scrittura che dalla mancanza di educazione scolastica- il senso delle sue parole risulta essre profondo e sansato. Pertanto caro Alfio invece di criticare il prossimo cerca di sapere scrivere cose inerenti agli argomenti.
Laura Catania
Enrico Galavotti
Infatti il punto è proprio questo, che non esistendo i livelli noi viviamo nella più assoluta burocrazia e tendiamo non a premiare il merito ma a promuovere gli scarsi. La scuola è ente burocratico che sforna diplomi e la vera formazione avviene quando se ne esce, sul luogo del lavoro, in corsi a pagamento o a titolo personale.
Peraltro coi mezzi mediatici che abbiamo oggi, la scuola potrebbe essere fatta con tv, reti, skype e negli istituti ci si dovrebbe andare solo per fare laboratorio o comunque per fare tutto ciò che online non si può fare (danza, musica, recitazione, cucina…).
filippo scuderi
Alfio@ Gent.mo Alfio Simeoni, evidentemente ti nascondi dietro un dito,scriverò male , scriverò di impulso, ma con il cuore ,aspetto un tuo commento no un tuo attacco a chi non conosci.
ti chiedo a questo proposito di controllare i miei commenti su agb,e di correggere gli eventuali altri miei errori,e di togliere il mio nome dal tuo commento.
grazie
F.S.
Adriana Bolfo
Studio approfondito per i più bravi e/o motivati, in seguito a scelta del tutto individuale e non burocratizzata, da cui poter recedere quando lo vogliano. Unico dovere: il programma ‘normale’ come base senza che il bravo si atteggi a ‘troppo bravo per’. Il prof della materia e della classe segua in linea di massima lo studio, con consigli, se richiesto, di metodo e di libri. Verifiche scritte e orali impegnative in proporzione ai progressi. Uno dei modi possibili per motivare di più i motivati, altrimenti loro si siedono e li si perde. E -ripeto – non burocratizziamo il tutto, per esempio, con ‘corsi di eccellenza’ e simili: insegnanti e studenti onesti eccellono anche senza corsi speciali e senza ‘figure tutoriali’ create ad hoc; se mai, si segnalino occasioni e modi di approfondire anche fuori scuola: conferenze, stage…
Inoltre, bastano due o tre entusiasti e motivanti, tra gli alunni, a vivacizzare l’apprendimento di una classe, per lo meno il tono e il modo medio di stare a scuola e, forse, anche sui libri a casa. L’insegnante gratificato in questo modo lavora meglio. Non ho dati costanti di conferma. Bisognerebbe provare.
In linea di massima, dalle elementari all’università: chiedere maggiore impegno e risultati per dare le famose ‘sufficienze’ – e oltre. Si accetta troppo, certo per stanchezza e disilusione quando anche non in seguito a pressioni, un livello scarso di continuità nello studio, puntualità nei compiti, presenza in classe. Troppi perdonismi e spreco di energie, che andrebbero impiegate invece, specie nella scuola dell’obbligo, a sostenere quelli in difficoltà reale ( per malattie, deprivazione socio-affettiva, circostanze pratiche sfavorevoli…). Qualcuno, ogni tanto, scopre che studiare è bello. Ed è anche bello non volere che tutti studino a tutti i costi, specialm nelle scuole e nelle materie che ciascun adulto reputa interessanti. Il valore legale del titolo di studio non trasforma il pezzo di carta in un fine-a se-stesso? E perché continuare col mito che i laureati in quanto tali trovano lavoro?
Per quanto riguarda livelli e tempi di apprendimento: ma possibile che uno bravo in alcune materie secondo il programma di un anno X di un curriculum debba penare, quell’anno per altre materie per le quali avrebbe bisogno di tempi diversi? In altre parole: perchè non può frequentare il terzo anno di matematica e il secondo di disegno contemporaneamente? Certo che sarebbe un problema grosso rispetto all’attuale organizzazione, ma perchè non avviare, in qualche luogo di buona volontà, un esperimento in tal senso?
Abbiate pazienza voi che leggete…:quando si parla di scuola e di studio mi lascio prendere la mano.
Enrico Galavotti
Il problema del disimpegno dei ragazzi è anche dovuto al fatto che non esiste la possibilità di distinguerli per livelli di apprendimento. Noi abbiamo sempre avuto delle classi di livelli molto differenziati, sicché un docente, dopo un po’, inizia a farsi una media statistica del livello generale, che sicuramente non premia i volenterosi e tanto meno le eccellenze. I ragazzi fan presto ad accorgersi che per essere promossi non occorre tanta fatica. E’ il concetto stesso di “classe” che oggi dovrebbe essere sostituito con quello di “livello”.
agbiuso
Chiedo per cortesia di non rivolgere attacchi personali nei confronti di chi inserisce commenti su questo sito.
Ciascuno si assume la responsabilità di ciò che scrive e del modo in cui scrive.
Grazie.
alfio simeoni
dispiace dirlo, ma la scuola italiana in sfacelo è testimoniata anche da come scrive scorrettamente il sig. Filippo Scuderi. Mi piacerebbe sapere che scuola ha fatto e chi le ha dato un ‘pezzo di carta’ chiamato diploma o laurea (?).
filippo scuderi
Personalmente penso che si deve iniziare dalle fondamenta, sia per gli alunni sia per i professori , si deve cercare di trovare un metodo per gratificare il lavoro scolastico per chi insegna e per chi impara ,motivare dare qualifiche premi ad anno scolastico finito, e facile puntare il dito o nascondersi dientro un dito ma in realtà chi sta dietro i cosiddetti bottoni non pigia quelli giusti,i ragazzi non sono più motivati sono pochi i professori(e lei è uno dei pochi) che riescono ad accattivarsi l’attenzione da parte degli studenti da fare in modo che quest’ultimi si innamorano delle lezioni e usano l’intelligenza come è giusto che sia. Ricordo in un colloquio con una professoressa di italiano (non cito ne la scuola ne il nome) parlando dei sogni dei ragazzi, prendo in ballo il libro di Paulo Coelho L’Alchimista
dove alla fine,il sogno è sotto gli occhi , senza andare troppo lontano,
la prof.mi risponde che il libro lei non l’aveva letto tutto, l’aveva l’asciato a metà , ma come fa una prof di lettere a prendere un libro come L’Alchimista e lasciarlo a metà? secondo un mio punto di vista ho no si è mai letto, altrimenti una volta iniziato difficilmente non si legga tutto,nemmeno un prof di chimica (senza offesa) si comporterebbe cosi.
Filippo Scuderi
Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero , e con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e con il tempo che non potremmo riempire . Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale.
B.Pascal
Alessandro Salerno
Il pesce puzza sempre dalla testa. O, in altri termini, i sistemi si governano dall’alto. Lo sapeva anche Gramsci. Per prima ha ceduto l’università. Tutto il resto è conseguenza. Occorrerebbe rimettere in piedi l’università. Bisognerebbe introdurre la prova scritta per ogni materia e chi fa errori di ortografia non passa. Uno/due laureati l’anno sono più che sufficienti per i primi tempi. Finanziamenti non in base al numero di iscritti ma in base alla produzione scientifica dei docenti della facoltà. Solo per fare queste due cosette occorrerebbe una rivoluzione o un cataclisma, vero? Mi ha molto colpito l’ultima frase del suo articolo, anche perché è qualcosa che vado pensando da parecchio tempo: “Un’istituzione che regala diplomi e lauree a dei sostanziali analfabeti merita davvero di scomparire”. Il nodo della questione è tutto qui. Ed è quello che sta avvenendo.
Dario Generali
Caro Alberto,
la situazione di assoluto degrado in cui versano molte scuole è la diretta conseguenza delle politiche scolastiche irresponsabili e fallimentari che abbiamo in passato denunciato a più riprese e in ogni sede istituzionale, civile ed editoriale.
Senza rigore culturale e didattico non si può pensare di ottenere alcunché in ambito formativo e le stesse istituzioni scolastiche perdono ogni significato e si pongono come un inutile sperpero di denaro pubblico e come una clamorosa prevaricazione al diritto dei giovani ancora motivati e intelligenti ad ottenere quella formazione intellettuale alla quale avrebbero diritto.
Solo un ritorno alla centralità culturale nella vita delle istituzioni scolastiche e il superamento dell’utopistico e velleitario pregiudizio del diritto al successo formativo potrà restaurare la legittima aspirazione dei giovani migliori al diritto formativo, che rappresenta inoltre una necessità culturale, economica e civile, oltre che un presupposto necessario della socialità.
Un caro saluto.
Dario
Enrico Galavotti
Perché gli adulti in televisione cosa fanno? Si urlano in faccia senza ritegno, si insultano, si interrompono di continuo senza ascoltare quello che dice l’altro, ognuno vuole avere ragione a tutti i costi. Lo vediamo in tutte le trasmissioni e i conduttori, invece di smorzare la cosa, ci godono perché fa audience.
I giovani non sono che lo specchio della nostra società.