Shutter Island
di Martin Scorsese
USA, 2010
Con: Leonardo Di Caprio
(Teddy Daniels), Mark Ruffalo
(Chuck Aule), Ben Kingsley
(Dr. John Cawley), Michelle Williams (Dolores Chanal), Emily Mortimer
(Rachel Solando), Max Von Sydow
(Dr. Jeremiah Naehring)
Dal romanzo di Dennis Lehane
Trailer del film
1954. Reduce dall’Europa, dove è entrato da soldato anche a Dachau, l’agente federale Teddy Daniels è incaricato di indagare sull’impossibile scomparsa di una paziente dal manicomio criminale di Shutter Island, nella costa orientale degli Stati Uniti. La donna, colpevole di aver annegato i suoi tre figli, viene ritrovata ma gli scopi di Teddy sono anche altri: comprendere che cosa davvero succede in quell’isola e incontrare il piromane che ha causato la morte della moglie. Il tempo si dilata, gli spazi diventano liquidi, gli incontri acquistano una coloritura livida come quella del cielo e del mare. In fondo all’enigma, o in cima a una scala, la verità è delirio.
Il grigio sontuoso che tutto intride fa emergere il colore dei sogni di Teddy Daniels come dei lampi difficili da comprendere e da accettare. L’acqua che lo trasporta e che lo circonda è l’elemento che lo scuote e lo trafigge. Le riprese dal basso offrono alle situazioni e alla luce la sostanza dell’inquietudine. E ovunque -anfratti, cielo, sguardi, oggetti, alberi, rocce, corpi- il mondo diventa un’immensa e pervasiva allucinazione. Un film potente, una disperata vivisezione della psiche, una esatta rappresentazione della follia ma soprattutto della sua asintotica vicinanza alla realtà. Quale realtà? Che cos’è reale al di fuori della mente, dei suoi significati?
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3 commenti
Serena D'Auria
D’accordo anch’io, con entrambi.
E condivido una nota che ho scritto a caldo, appena tornata dal cinema.
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Shutter island.
Isola saracinesca. Isola otturatore. Isola serranda. Serrare, chiudere, nascondere. Inscenare.
Il titolo dà l’idea di qualcosa di segreto, nascosto, di qualcosa che cela. O di una grande farsa.
E il film gioca sull’equivoco e non dà spiegazioni, alternando due o più realtà possibili e mantenendo integro il grande interrogativo che è alla base: chi è il pazzo? Cosa è la realtà? Dove sta la verità?
Shutter island, un film da guardare, sicuramente.
Di sera, al cinema. O di pomeriggio, in compagnia. A seconda delle sensibilità.
Perché è un film capace di inquietare oltre ogni limite possibile, di far crollare le certezze più elementari e di fare vacillare il limite razionale di ognuno. Capace di risvegliare i fantasmi del passato e di riportare a galla prepotentemente traumi non risolti, problemi archiviati in un cassettino remoto dell’inconscio, che sembravano confinati tanto in basso da non potere riemergere più.
Shutter island è un film psichiatrico, che avvia un processo di analisi sullo spettatore stesso. Tre o quattro copioni si intersecano in qualcosa che potrebbe essere allo stesso modo una grande costruzione mentale o un grande complotto. Siamo con Teddy quando arriva sull’isola, seguiamo le sue indagini, condividiamo le sue spiegazioni, ci caliamo nel contesto storico e riteniamo i fatti verosimili, perché sappiamo essere accaduti. Con Teddy subodoriamo il complotto e la dottoressa fuggitiva ci convince definitivamente. Con Teddy saliamo sul faro, con Teddy apriamo tutte le porte, con l’angoscia al culmine, accompagnati da una colonna sonora semplicemente perfetta. Con Teddy, all’ultimo piano, crediamo di essere caduti in una trappola diabolica. Quel registratore acceso ne è la prova migliore, stanno cercando di incastrarci, noi siamo con Teddy.
Ma la prova della pistola rimette tutto in discussione, solleva un dubbio tremendo. Il medico comincia a parlare, a dare la sua spiegazione, rilegge l’intero film in un’altra chiave, altrettanto lineare, altrettanto credibile. E ci mette in crisi, finiamo in un limbo, non sappiamo con chi stare, è un’impasse.
Scorriamo l’intero film, ci improvvisiamo detective. Cerchiamo di capirci qualcosa, ci confondiamo di più.
E si confonde anche Teddy. O ricorda. O finge.
Il buon borghese preferirà propendere per la seconda ipotesi, quella che vuole Teddy folle fin dall’inizio. Il buon borghese non può concepire una realtà diversa da quella che si è costruito intorno e che accetta acriticamente, e ogni elemento di disturbo va emarginato come “diverso” e “malato”.
Ma in fondo quella che riteniamo essere la realtà non è altro che un’elaborazione collettiva e condivisa. Basta che la società tutta decida di cambiare le regole e lo stato delle cose, e il senso della norma è ribaltato, ciò che ritenevamo “normale” diventa folle, e, in preda a una follia collettiva, un ordine si stabilisce. In fondo è folle chi ha una “norma” diversa. Null’altro.
E l’ultima scena ne è la prova. A Shutter Island ciascuno vive tranquillo, immerso nel proprio ruolo, o meglio nel ruolo che si è attribuito; la calma regna sovrana, quasi come nella peggiore delle distopie. E come nella peggiore delle distopie, chi non si adegua è pericoloso e sovversivo, va eliminato. Va lobotomizzato.
L’interrogativo finale di Teddy ci lascia un sapore strano in bocca: è meglio vivere una vita da pazzi, o morire da persone normali?
Biuso
Grazie per il suo commento e complimenti per la competenza cinematografica e musicale che dimostra.
Condivido l’apprezzamento per le scelte musicali del regista. E’ un altro Mahler rispetto a quello dei film di Visconti ed è sempre di grande suggestione.
Laura Caponetto
Sono d’accordo con lei. Un film potente.
Nell’utilizzo di espedienti tratti dal genere horror, specie nei sogni di Teddy (un esempio su tutti, la bambina che giace a terra, morta, e improvvisamente sbarra gli occhi).
Nella resa della psiche umana, che è mente fenomenica, fatta di emozioni contrastanti, sensazioni soggettive e corporee, tangibili e totalizzanti (mi riferisco, ad esempio, alla maestria di Scorsese nel miscelare l’amore e il senso di colpa di un marito al risentimento e al dolore straziante di un padre nella scena di Teddy nel lago di fronte casa).
Nella scelta della colonna sonora, dalla minacciosa e maestosa Symphony #3 (Passacaglia – Allegro Moderato), una marcia nera che introduce al manicomio e giunge all’apice del crescendo dinnanzi al cancello, sino al Quartetto per pianoforte ed archi in la minore di Gustav Mahler, intriso di patetismo e, insieme, di inquietudine (bellissimo l’accostamento tra il bianco delle pagine che si muovono vorticosamente, il rosso del sangue dell’ufficiale tedesco sfigurato e le note penetranti di Mahler).