Mente & Cervello 54 – Giugno 2009
Per quanto parziale sia la conoscenza che abbiamo del cervello, sappiamo comunque che il potere della mente nell’interpretare la realtà -e dunque nel produrla- è davvero molto grande. Il caso del placebo è una delle prove più evidenti. L’effetto placebo agisce persino su malattie gravissime -quali i tumori- poiché «le aspettative e le convinzioni del paziente hanno una grande influenza sul decorso della malattia» (M.B. Niemi, pag. 29). Un’altra e assai diversa manifestazione di tale potere sono le allucinazioni, quegli stati mentali «il cui contenuto è cosciente, involontario e, sotto certi aspetti, simile al sogno e alla percezione» e che in alcune culture sciamaniche svolgono una reale funzione terapeutica (A. Lehmann e J. González, pp.76 e 80).
Ma il fenomeno nel quale la forza plasmatrice della mente diventa esperienza quotidiana è il linguaggio; in particolare la capacità di produrre eventi tramite metafore. I nostri concetti, infatti, «sono modellati in misura fondamentale dal fatto che la nostra mente abita in un corpo fisico, fatto di carne [secondo me l’affermazione è comunque ancora dualistica: la mente è la carne/Leib]. Di conseguenza, anche le nostre idee più astratte spesso hanno una struttura “incarnata” (…) Più che un artificio retorico, la metafora incarnata modella il modo stesso in cui facciamo esperienza del mondo» (G. Sherma e G. Clore, 102-103).
Un recente testo fenomenologico ne dà conferma: «L’immense majorité des phénomènes émotionnels est conceptualisée et exprimée en terme métaphoriques. Dans toutes ces configurations, la source la plus basique est souvent le corps: l’orientation, l’apparat sensori-moteur, la posture, tous ces éléments sont à l’origine d’un grand nombre de métaphore concernant les états émotifs» (Lorenzo Altieri, Eidos et Pathos. Corporéité et signification entre Phénoménologie et Linguistique Cognitive, Zeta books, Bucharest 2009, p. 328).
Ancora una volta, «il cervello non è un computer progettato sulla carta per funzionare al meglio, ma il prodotto di tentativi ed errori di milioni di anni di storia evolutiva» (P. Garzia, 105). Una storia che non corrisponde affatto a una linea unica e progressiva poiché «cervelli complessi sono comparsi indipendentemente in più di un phylum» (P. Patton, 96); lo dimostrano le prestazioni cognitive di altri animali come molluschi -polpi soprattutto-, pesci e uccelli, in particolare i corvi, i quali ultimi hanno mostrato persino capacità che finora erano ritenute esclusive neppure dei mammiferi ma soltanto degli umani, come «l’abilità di ricordare episodi specifici del passato e di prevedere quelli futuri» e cioè l’abilità «nota come viaggio mentale nel tempo» (Id., 101). Si confermano, ancora una volta, le tesi sostenute dalla zooantropologia.
Tra gli altri articoli di questo numero della Rivista, ne segnalo uno sull’importanza del gioco per diventare adulti curiosi e creativi e un altro sull’ossessione del denaro, nel quale si cita un’affermazione di Schopenhauer per il quale «la ricchezza è come l’acqua di mare: quanta più se ne beve tanta più sete si ha» (N. Westerhoff, 85).
2 commenti
Alberto G. Biuso
È esattamente quanto cerco di praticare da vari anni, caro Marco.
Come forse ricorderai, sono molto critico nei confronti di qualunque forma di riduzionismo. E infatti ho scritto “carne/Leib“, distinguendola chiaramente dalla “carne/Körper“. La chair di Merleau-Ponty, insomma.
La mia prospettiva è fenomenologica, non materialistica.
marco de paoli
Caro Alberto,
sicuramente la mente costituisce un ambito solo imperfettamente conosciuto, anche se non sappiamo quanto o quanto poco ne conosciamo (ho sentito spesso dire che “noi usiamo soltanto il 10% del nostro cervello”, ma è una sciocchezza: noi dovremmo conoscere il 100% del nostro cervello per dire che ne usiamo solo il 10%).
E’ però troppo perentoria l’affermazione per la quale “la mente è la carne”. Questa è una posizione filosofica ben precisa, ma ve ne sono altre non meno plausibili (proprio la nostra ignoranza rende possibile diverse ipotesi): ad esempio (a non ricordare Schopenhauer e Bergson per i quali qualcosa di non fisico – il Wille o l’élan vital – genera il cervello animale) il neurofisiologo e premio Nobel Eccles, in collaborazione con Popper, ha scritto tre volumi (“L’io e il cervello”, tr. it. Armando) sostenendo la tesi secondo la quale vi è un’interazione fra mente e cervello senza riducibilità dell’un termine all’altro. Non si tratta peraltro di un ritorno all’occasionalismo à la Malebranche (separazione mente-cervello con “regolazione” e “sincronizzazione” per opera divina), fino al successivo “parallelismo psico-fisico”, e nemmeno di un ritorno in toto al cosiddetto dualismo cartesiano (in realtà poi non del tutto così dualistico). Il dualismo ha comunque i suoi argomenti non meno del monismo, spesso evidentemente rozzo: ad esempio i materialisti tedeschi fisiologi dell’ottocento (Buchner, Moleschott, etc.), che sostenevano che il cervello produce i pensieri come il rene l’orina, non si rendevano conto della grande differenza: l’orina è una struttura chimica e materiale, i pensieri no. Quindi si capisce abbastanza bene come il rene produce l’orina, ma non altrettanto come il cervello produce i pensieri. Su base monistica io posso in qualche modo capire perché una disfunzione cerebrale determini l’agnosia visiva o l’afasia, ma non posso capire perché la mia volontà di muovere il braccio determini effettivamente il movimento del braccio. Posso cioè capire perché i nervi e il cervello agiscano sulla mia mente e i miei pensieri, ma non posso capire perché una volontà o un desiderio psichico e non fisicamente materiale possano comandare ai miei nervi di muovere i muscoli e quindi di muovere il braccio.
Proprio la difficoltà e complessità estrema dell’argomento suggerisce la necessità di una prospettiva non escludente, atta a saggiare vie di ricerca diverse e comunque molteplici.
Con un saluto