di Haile Gerima
Etiopia, 2008
Con: Aron Arefe (Anberber), Abiye Tedla (Tesfaye), Takelech Beyene, Teje Tesfahun
Trailer del film
Anni Settanta del Novecento. Anberber vive in Germania dove studia medicina e fa parte di un gruppo di etiopi oppositori del regime di Hailé Selassié. Alla caduta dell’imperatore, torna in patria insieme ad altri amici, pieno di speranze e di progetti che la guerra civile e la dittatura leninista di Menghistu dissolvono ben presto. Inviato dal nuovo regime in Germania Est subisce, dopo la caduta del Muro, un attentato razzista. Tornato nel suo villaggio etiope, segnato dalle esperienze vissute, racconta da qui la propria vicenda. L’incontro con una donna creduta strega, e per questo ai margini della vita sociale, sembra aprire una nuova vita.
Autobiografia di un uomo e della sua terra, Teza (Rugiada) -Premio speciale della giuria a Venezia 2008- vuol creare uno spazio sospeso tra la storia e il mito, fra le ideologie europee e l’arcaismo magico dell’Etiopia. Spesso ripetitivo nel montaggio e lento nei ritmi, il film riesce comunque a esprimere un completo disincanto sulla grettezza delle comunità di villaggio e sul fanatismo dei regimi liberatori. Che guardino al sedicente progresso comunista o alla presunta saggezza contadina, in entrambi dominano la meschinità, la violenza, il rifiuto dell’altro, l’ignoranza di quanto complesso sia il mondo.
4 commenti
marco de paoli
Grazie Andrea,
soprattutto perché le tue parole testimoniano quel legame che prende chi conosce l’Etiopia. E grazie a Alberto Biuso, che offre gli spazi per questi proficui scambi di idee.
Andrea
A Marco
Bell’articolo. Le tue parole pesano come un macigno e delineano uno spaccato reale dell’Etiopia che conosco molto bene in tutti i suoi anfratti. Le mie radici sono di Addis Abeba. Amo questo paese come nessun altro e provo tanta emozione ogni qualvolta che ci metto piede. L’Etiopia sin dai tempi di Haile Selassie, attraveso gli eccidi di Menghistu, fino alla soglia del pragmatismo etnico dei giorni nostri, non è cambiata granché. Cambiano solisti e orchestra, ma siamo sempre fermi al crocevia della modernità. Il sodalizio potere-repressione è ancora vivo e vegeto nella sua interezza storica e socioculturale. Non so se dico un’eresia, ma auguro a questo paese che amo come a tutta l’africa un secolo dei Lumi, anche se l’auspicio è un po’ tardivo.
Alberto G. Biuso
Grazie, Marco, del tuo bellissimo commento, che mi fa capire -e fa capire ai visitatori di questo spazio- che cosa sia l’Etiopia. E, più in generale, quale tonalità possa avere il vivere in contrade del mondo tanto lontane e così diverse. Le tue parole -si sente- accolgono l’alterità senza giudicarla, la scrutano, la comprendono.
E grazie anche per il consiglio cinefilo…
marco de paoli
Caro Alberto,
mi chiedi via mail, vivendo io da quasi cinque anni in Etiopia, cosa penso del film Teza di H. Gerima.
L’ho visto recentemente in Italia. Non è un capolavoro (è veramente “ripetitivo e lento” come tu scrivi). Tuttavia è un film che non è certo disdicevole vedere, soprattutto per chi conosce l’Etiopia.
Certo ho notato varie piccole ma significative incongruenze nel film. Una per tutte, mi ha fatto sorridere vedere in un film ambientato principalmente negli anni settanta-ottanta un manifesto pubblicitario ad uso turistico che oggi fa bella mostra di sé un po’ ovunque in Etiopia e che non credo risalga a quegli anni. Anche vedere l’acqua scendere abbondante dai rubinetti fa sorridere amaramente, in un paese di ataviche siccità che periodicamente causano centinaia e centinaia di migliaia di vittime se non milioni e dove le bambine raccolgono l’acqua nelle pozzanghere. Perfino noi, bianchi privilegiati di Addis Abeba, stiamo a volte giorni interi senza acqua e abbiamo sempre le taniche di scorta.
Però il popolo etiope anche nella sua povertà ti colpisce. Siamo stati nei villaggi e non faccio fatica a credere che vi sia quella grettezza peraltro tipica di ogni villaggio. Ma il regista esagera, è un po’ un illuminista progressista che vive in America e taccia come superstiziosa una cultura certo arcaica, ma che andrebbe esaminata meno pregiudizialmente e semmai con sguardo più etnologico, più volto a capire che a giudicare. Che i poveri e gli sventurati del mondo si affidino a Dio o credano alle superstizioni, è cosa che noi figli dell’occidente difficilmente possiamo comprendere. Io ho visto le indemoniate, ho assistito a danze quasi nevropatiche, e non ho condannato nulla. Piuttosto ho ripreso in mano i libri di etnologia: Frazer, Levy-Bruhl, de Martino fino ai più recenti.
Nel film comunque ho rivisto i costumi tradizionali etiopi, gli shamma, ho rivisto il cibo tradizionale etiopico, ho rivisto vari luoghi ben noti di Addis Abeba, ho rivisto la danza iskista fatta con i movimenti delle spalle.
Poi, ho visto come dovevano essere i sequestri di persone che sparivano per sempre nell’epoca di Menghistu: arrivavano le camionette, scendevano di corsa gli uomini con la mitragliatrice, facevano l’incursione, sequestravano e via, tutto in pochi minuti. Era proprio così che avveniva, ho raccolto varie terribili testimonianze di persone, poche, perché i più si portano dentro cicatrici e squarci ma non vogliono parlare. Ancora pochi anni fa, nel 2005, è avvenuto così: centinaia di morti ad Addis Abeba in due giorni, carri armati per le strade, si sentiva sparare a poche decine di metri da casa, ma in occidente non se ne sa quasi nulla.
No, non si tratta di un capolavoro del cinema, però risveglia emozioni in chi conosce questo paese ed invita chi non lo conosce a conoscerlo meglio, anche perché l’Etiopia è una parte drammatica del passato coloniale italiano oggi rimosso e spesso nemmeno insegnato nelle scuole. Se si pensa a tutto questo, e a quali film mediamente sono in giro oggi, direi che il premio è giusto.
Se però vuoi vedere un film sull’Etiopia che è davvero un bellissimo film, allora questo è “Vai e vivrai”. L’ho visto qui nell’originale francese, molto migliore della traduzione italiana che non rispettava l’originale giocato sull’uso simultaneo di tre lingue, l’amarico, il francese e l’jiddish. E’ la storia di un bambino che la madre in un campo profughi (era la guerra con la Somalia) mette su un camion per salvarlo spacciandolo per ebreo, negli anni in cui gli ebrei etiopi tornavano in Israele. Cresce con una coppia di francesi, frastornato fra cultura ebraica ed europea. Torna in Etiopia come “medico senza frontiere” e ritrova la vecchia madre che urla come dalle viscere rivedendolo. In questo film in una scena ho visto l’Etiopia: quando nel ricco occidente vede sprecata l’acqua che scende abbondante mentre fa la doccia, il bambino memore di ataviche povertà grida e piange disperato.
Addis Abeba,
29 aprile 2009