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Ontologia del nuovo

Roberta De Monticelli – Carlo Conni
ONTOLOGIA DEL NUOVO
La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi
Bruno Mondadori, 2008
Pagine XIV-254

ontologia_del_nuovo

La fenomenologia non è una scuola ma uno stile di pensiero, non un insieme di dottrine ma una serie di percorsi teoretici volti a comprendere l’unità profonda tra la mente che conosce e il mondo dentro il quale essa dispiega la propria attività. A tale “stile di pensiero filosofico” questo libro costituisce un’ottima introduzione, pur con delle rigidità nei confronti di una pratica della fenomenologia che si allontani dai testi husserliani. In particolare, il pericolo sembra individuato in Martin Heidegger, nel suo concetto di verità come aletheia, la cui conseguenza sarebbe un sostanziale relativismo (una interpretazione -questa- discutibile). In generale, viene difeso ciò che si definisce come «“cultura del rispetto” (del dato, del visibile, dell’esperibile)» (p. 7) contro la cultura del sospetto propria delle posizioni nichilistiche e scettiche (Nietzsche, ovviamente…).

Al di là di queste idiosincrasie, il testo è davvero di grande ricchezza e contribuisce a restituire alla filosofia degli obiettivi giustamente ambiziosi, tra i quali il coniugare il mondo dell’esperienza quotidiana con quello dei saperi e delle scienze naturali. La fenomenologia, infatti, non è un sapere fondato su altre scienze come ritengono positivismi e neoempirismi e neppure rappresenta una semplice metodologia o un’epistemologia ma è «in un certo senso una disciplina fondante» (65). L’invito che essa rivolge è di fermarsi, sospendere, ridurre l’io empirico -la semplice soggettività- all’Io puro, a ciò che tutti potrebbero e dovrebbero vedere al di là della propria particolare individualità.

Accogliere tale invito conduce a scoprire la profonda e costitutiva unità che vige tra la coscienza e il reale  -anche se da una prospettiva diversa, Natorp afferma che «Un qualcosa, un oggetto mi appare: ne ho coscienza, queste non sono due cose ma nei fatti una sola» (Allgemeine Psycologie nach kritischer Methode, libro primo, p. 211; cit. in M.Heidegger, Per la determinazione della filosofia, Guida 2002, p. 100)-, non nel senso idealistico della produzione coscienzialistica del mondo ma nel senso fenomenologico per il quale la coscienza è un luogo intriso di realtà, abitato da enti, fatto -letteralmente- di cose. Quelle “cose stesse” alle quali Husserl invita ad andare. L’intenzionalità è quindi «quella proprietà dei vissuti (Erlebnisse) che ne fa modi di presenza di oggetti e non semplici stati della creatura cosciente» (p. 39). L’unità di intenzionalità ed esistenza mostra l’insufficienza di ogni concezione del mondo che lo fa coincidere soltanto con il darsi di oggetti fisici. In realtà esiste, esiste davvero, «tutto ciò che costituisce il polo di riferimento o correlato di un atto intenzionale» (p. 158), un mondo fatto di qualia, di entità numeriche e geometriche, di ricordi e di attese. La coscienza non è una cosa ma è una funzione, la realissima funzione che ci consente di esperire e comprendere, che ci permette di esistere.

Essa è fatta di atti (come il guardare, l’impallidire o l’amare una data persona) nei quali si esercita una funzione (come il vedere, l’emozionarsi, il desiderare). La coscienza è il luogo semantico nel quale si danno gli interi; ed è quindi il luogo della concretezza rispetto alla astrazione costituita dalle parti percepite soltanto empiricamente. Questi interi sono le strutture eidetiche, i tipi e gli esemplari che rendono possibile la comprensione delle singole occorrenze di un ente; questi interi sono i dati non empirici che costituiscono il cuore della ricerca fenomenologica, dati che non stanno chissà dove ma abitano nelle cose stesse come loro caratteristica generale e universale. Ogni singolo oggetto, cosa, ente è l’esemplificazione delle strutture eidetiche. Se adottiamo il linguaggio di antiche dispute, diremo dunque che gli universali esistono non ante rem come strutture separate bensì come strutture immanenti a ogni singolo ente. È così che «con la sua tesi (EX) delle essenze in rebus, la fenomenologia esclude per la sua eccessiva povertà un’ontologia che abbia gli oggetti fisici come solo paradigma di ciò che esiste» (82).

È in tale crocevia di realtà e coscienza, di realtà immanenti alla coscienza e di una coscienza composta di enti, che si diramano le differenze tra le proprietà degli oggetti risultanti dalle loro parti -come il peso- e le proprietà emergenti dal loro intero -come la solidità o il colore. Il peso è un dato empirico misurabile quantitativamente, il colore è un dato semantico e qualitativo. Peso e solidità sono entrambi realissimi e la conoscenza di un qualunque ente comprende entrambi i dati, empirico e non empirico. Ad esempio, una melodia è qualcosa di nuovo rispetto ai singoli suoni che la compongono, un dipinto è cosa nuova rispetto alle singole pennellate cromatiche, «le proprietà specifiche della bandiera non sono riducibili a quelle della stoffa e a buon diritto possiamo quindi affermare che la bandiera è un’entità costituita dal, ma non identica al, pezzo di stoffa. La relazione di costituzione non solo mostra affinità profonde con la nozione di fondazione husserliana, ma ci mostra chiaramente come il tipo ontologico più alto negli strati di costituzione determini anche l’identità dell’intero oggetto» (173).

Ogni ente fisico è dunque composto di strutture atomiche e molecolari ma il suo fenomeno è fatto di caratteristiche che emergono da tale base e formano un intero, una unità di materia e di significati, di cognizione, di intenzioni, di collocazione spazio-temporale. E solo a quel punto un ente diventa un oggetto percepibile ai sensi e alla mente, solo così il fenomeno si dà.

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