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Theorein / Kairós

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Pornografia
(1960)
di Witold Gombrowicz
Con: Riccardo Bini (Witold), Paolo Pierobon (Federico), Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
Traduzione di Vera Verdiani
Scene di Marco Rossi
Regia di Luca Ronconi
Sino al 5 aprile 2014

 

Pornografia_3Un romanzo, Pornografia di Gombrowicz, dai molti strati, dai numerosi enigmi. Ronconi lo trasforma in un’azione teatrale nella quale gli attori raccontano i personaggi, descrivono quello che fanno mentre lo fanno. Non soltanto Witold, colui che nel romanzo dice ‘io’, ma anche tutti gli altri. Si raccontano mentre «si comportano» per «non fare altro», mentre parlano allo scopo quasi sempre «di non dire qualcos’altro», mentre sono spesso a terra, striscianti come il verme protagonista di una scena chiave dove amore e morte ancora una volta si accompagnano e si fondono.
I due protagonisti -Witold e Federico- vivono un soggiorno nella campagna polacca mentre intorno infuria la guerra. Loro sono concentrati sulla figlia dell’amico che li ospita e sul ragazzo al loro servizio. Vorrebbero che i due si amassero, si unissero, copulassero. E invece Enrichetta e Carlo mostrano reciproca indifferenza. Il parossismo del desiderio induce Federico e Witold non soltanto a guardare ma anche a costruire situazioni che favoriscano il loro obiettivo. Non li ferma l’arrivo di Venceslao, fidanzato di Enrichetta, di Amelia -madre di lui e donna «cattolica e di alti sentimenti morali»- di un partigiano in crisi, di un giovane ladro che uccide Amelia. Anzi. Ogni evento è inserito in una trama nella quale i due vivono e proiettano la loro potenziale ma evidente omosessualità. Si sentono gli echi del desiderio che muove von Aschenbach in Morte a Venezia, la frenesia che anima Bouvard e Pécuchet, la guerra antieroica e grottesca della Trilogia del Nord celiniana, il modello classico di Aminta.
Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno. In una pagina del suo Diario Gombrowicz scrisse che il vero problema della nostra specie non è la morte ma è «l’invecchiare, questa forma di morte che sperimentiamo ogni giorno. E non tanto l’invecchiare in sé, quanto il fatto di essere così completamente, così terribilmente tagliati fuori dalla bellezza. Quello che ci disturba non è che stiamo morendo, ma che il fascino della vita ci diventi inaccessibile. Al cimitero ho visto un ragazzo che camminava fra le tombe come una creatura di un altro mondo, misteriosa, rigogliosamente in fiore, mentre noi sembravano dei mendicanti» (1953; cit. nel Programma di sala, p. 23). Creatura intessuta di un tempo che appare infinito ma che può anche di botto sparire non nella morte ma nella trasformazione del desiderio in vita, in generazione, in figli. Gombrowicz lo dice con chiarezza: «La bellezza e la gioventù non dovrebbero essere qualcosa di gratuito e di fine a se stesso, un meraviglioso dono della natura, una specie di coronamento? E invece, nella donna, il fascino serve a generare, è foderato di gravidanze e pannolini e la sua massima realizzazione comporta un figlio che segna la fine del poema. Un ragazzo, incantato da una ragazza e da se stesso con lei, non fa in tempo a toccarla che è già padre e lei -madre; quindi la ragazza è una creatura che sembra praticare la gioventù, ma in realtà serve solo a liquidarla» (1954; ivi, p. 25). È la verità. È la negazione del presente in vista di un futuro altrui. È la «liquidazione» della bellezza a favore della generazione di qualcosa che a sua volta diventerà funzionale ad altra carne senza senso.
La corporeità metafisica che intesse Pornografia è anche un modo di affrancamento dal ciclo del nascere e del morire, per diventare il presente nel quale converge il tempo/ora, il Καιρός.

 

18 commenti

  • agbiuso

    Aprile 4, 2014

    “Condivisibile senz’altro, ma in qualche modo ovvia”.
    L’affermazione che hai citato è senz’altro ovvia, caro Diego. Dovrebbe esserlo di più anche nell’azione politica.

    “Perchè l’arte dovrebbe essere immune dal giudizio morale, o, per usare un altro termine, politico della comunità in cui essa germoglia?”
    E infatti immune non è; ci sono delle forme di critica (letteraria, musicale, figurativa) che discutono anche del significato etico dell’opera.

    “Io penso che si possa sottoporre a giudizio l’artista, così come il politico, il filosofo, l’ingegnere, il cuoco, l’ortolano”.
    Certo. Però non si può discutere di ingegneria con i criteri dell’ortolano, né di filosofia con criteri ingegneristici, e neppure di estetica con criteri politici. Aristotele e Wittgenstein (tra gli altri) ci hanno insegnato che ogni ambito della conoscenza e della vita deve essere analizzato con la sua propria forma linguistica. Comprendere le differenze (in ogni senso possibile del verbo) è parte fondamentale del lavoro del pensiero.

  • diego

    Aprile 4, 2014

    La torsione moralistica dell’arte è tipica di tutti i regimi autoritari e di quelli totalitari.

    Caro Alberto, ho riflettuto a lungo, durante la notte, su questa affermazione. Condivisibile senz’altro, ma in qualche modo ovvia. Allora io pongo una domanda, senza avere una mia risposta, ma proprio una domanda che non è retorica. Perchè l’arte dovrebbe essere immune dal giudizio morale, o, per usare un altro termine, politico della comunità in cui essa germoglia? Ricordo abbastanza bene la genialità di Manzoni, quando portò sul proscenio del rito artistico la scatoletta, venduta a peso d’oro, contenente la famosa merde d’artiste. Il geniale Manzoni volle irridere alla ritualità sacerdotale che conferisce all’arte un territorio privilegiato. Io penso che si possa sottoporre a giudizio l’artista, così come il politico, il filosofo, l’ingegnere, il cuoco, l’ortolano. Io credo nell’opinione di Gramsci, che inseriva ogni attore sociale nello steso grado di responsabilità. Ho scritto perchè amo questo sito, e le riflessioni che evoca nella mia dilettantesca ma appassionata riflessione.

  • agbiuso

    Aprile 3, 2014

    “Il regista/autore esprimerà ben i concetti che ha in mente, anche pessimistici se lo sono, non mi pare affar suo corroborare uno o un altro atteggiamento della società su quel tema col suo film, no?”
    Condivido pienamente, cari amici, queste parole di Mario.
    La torsione moralistica dell’arte è tipica di tutti i regimi autoritari e di quelli totalitari.
    Dall’Indice dei libri proibiti della chiesa papista allo zdanovismo staliniano e alla condanna nazionalsocialista dell’ “arte degenerata”.

    Spero di vedere il film di von Trier -uno dei più grandi artisti viventi- e di poterne parlare a ragion veduta. In generale, io credo che termini come “pessimismo” e “ottimismo” abbiano poco senso in sé, figuriamoci se applicati all’arte.
    Si tratta di avere uno sguardo lucido sul mondo e di riuscire a tramutarlo in forma. Qualunque sia poi il contenuto e la direzione di tale forma.

  • diego

    Aprile 3, 2014

    No, caro Mario, io appunto non ho visioni bigotte e sessuofobe, e temo che il film le corrobori; è un timore «da sinistra» non «da destra»

    se hai letto il magnifico «contro il ’68» è evidente come il senso di individualistica irresponsabilità, la mancanza di senso del limite, è proprio la cifra che sottende una società dove tutto si consuma, tutto si mercifica, e in primo luogo la trasgressione che diviene innocua e metabolizzata nello spettacolo

    nulla è più borghese dell’«antiborghese» da salotto

    Il grandissimo filosofo di Catania/Milano che ci ospita in effetti col suo testo ha colpito nel segno, anche se nella «autocritica» finale ha un po’ ritrattato

    comunque, io sono ignorante come cinema e in più di gusti lievi, tipo nouvelle vague

    ora basta, se no il grande filosofo ci caccia e ha ragione

  • mario

    Aprile 3, 2014

    Mi rendo conto che la situazione è assai grave, in effetti.
    Beh, consolati: se sei davvero affetto da quel morbo inguaribile e, come ipotizzi, il film si rivelasse un “bel corroborante alle visioni bigotte e sessuofobe”, la tua fazione farebbe festa… e tu con loro, no? 😉

    Finalmente ristabilito l’ordine morale che una zoccola che la dà via a destra e a sinistra senza quartiere è riprovevole e il “messaggio” del film avrebbe aiutato la tua mission pedagogica, no? ;-))

  • diego

    Aprile 3, 2014

    ho il mio morbo inguaribile, vecchio mio, in fondo sono cattolico, caro Mario, e, summa iniuria, anche catto comunista per cui in fondo sono ammalato di pedagogismo, oppure perbenismo di sinistra

    non mi pare affar suo corroborare uno o un altro atteggiamento della società su quel tema col suo film, no?

    sì e no, perchè ognuno ha una responsabilità sociale del proprio operato, ma ovviamente vale per gli affetti dal morbo di cui ho accennato sopra

  • mario

    Aprile 3, 2014

    Grazie Diego 🙂

    Risposte:

    1) la tua ultima è la sentenza di Cassazione e come tu stesso dici, chiude ogni diverbio. Anyway…

    2) il film in questione è di Lars von Trier, noto torturatore d’attori, non uno che mi pare si faccia scrupoli di lisciare il pubblico a carezze. Chiamiamolo ‘metodo artaudiano’ anche sul pubblico?
    Del resto, Tarantino l’ha fatto con Kill Bill e ciò non gli ha impedito di diventare un Blockbuster, me par…

    3) scusa, ma chi ha detto che un film – perché parla d’eros (o di qualunque altra cosa) debba farlo in modo ‘compiacente’ x essere ‘buona pubblicità’ del tema? Il regista/autore esprimerà ben i concetti che ha in mente, anche pessimistici se lo sono, non mi pare affar suo corroborare uno o un altro atteggiamento della società su quel tema col suo film, no?
    Tu hai visto Le Onde del Destino? Ne sei per caso uscito pensando che una “visione cupa” del matrimonio ti scoraggiasse a convolare a nozze?
    O (nel caso tu non fossi religioso) hai forse ripreso ad andare in chiesa dopo averne visto il finale miracolistico?

    La sessuofobia, come la pedofilia, il femminicidio e le altre nequizie di cui la nostra razza si fregia spesso, secondo te, stanno nel cinema o nell’occhio di chi guarda (come la bellezza, altresì)?

    Non è che sei anche tentato di proibire l’heavy metal e i fumetti horror perché “diseducativi per i giovani”, neh? Perché nel caso, anche dopo la visione del cupo von Trier, mi metto a fare il filo a tua figlia (se ne hai una) per punirti, sai… ;-)))

    Un abbraccio cupissimo.

  • diego

    Aprile 3, 2014

    scusa Mario, mi sovvengono due domande, dopo che ho letto la bella recensione sul blog

    prima domanda:
    fermo restando la libertà d’artista, ma un film che dura cinque ore non rischia di essere qualcosa di poco efficace vista la discrepanza fra la fisiologia dello spettatore e la durata dello stare seduti davanti allo schermo? Non è una domanda maliziosa, ma proprio tecnica, non è in qualche modo sbagliato fare film così lunghi?

    seconda domanda:
    ovviamente non ho visto il film, ma non c’è il rischio che alla fine sia un film «nemico» della sessualità, raffigurata in termini cupi? D’accordo che un film non deve avere intenti morali, però non viene in mente all’autore che possa comunicare una visione pessimistica dell’erotismo e quindi, paradossalmente (neanche tanto però) diventare un bel corroborante alle visioni bigotte e sessuofobe?

    ti pongo le domande alle quali puoi rispondere anche semplicemente che un artista fa quel che crede, ma noi spettatori possiamo a nostra volta giudicare come crediamo

  • mario

    Aprile 2, 2014

    Troppo buono, ho solo rubacchiato con fiuto 😉

  • agbiuso

    Aprile 2, 2014

    Bellissima, densa, rigorosa recensione quella che hai scritto su Nymphomaniac, caro Mario.
    Grazie per avervi inserito un mio pensiero, che dalla tua analisi riceve chiarimento e senso.

  • mario

    Aprile 2, 2014

    Colpevole della generazione di figli, mi son permesso pure di scippare una (bellissima) frase dal lucido e affilato articolo, che mi sembrava perfetta per inquadrare il senso (come a tutta prima sempre sfuggente) del nuovo Lars von Trier “pornografico” a sua volta, citandola nella mia rece del film, da domani nelle sale.
    Che vi consiglio di vedere, poi se ne discuterà (qui, attraverso la rece che Alberto non ci farà mancare a sua volta, nei commenti su Posthuman o dove vorrete) 🙂

  • agbiuso

    Aprile 1, 2014

    Questione molto interessante, caro Diego.
    Per quanto ne so, il problema è comunque dibattuto in ambito bioetico con tesi diverse e articolate. Certo, lo è soprattutto fuori dall’Italia, la quale è fortemente condizionata dalla posizione cattolica, che è integralmente e fanaticamente orientata sulla questione della riproduzione. Non si dà problema: fare figli è necessario, doveroso, “naturale ed etico”.
    L’umano ricondotto al coniglio, insomma (come, per fare un esempio, confermano le famiglie dei membri di Comunione e Liberazione, i cui pargoli sono decisamente in numero superiore alla media).

  • diego

    Aprile 1, 2014

    Colgo l’occasione, caro Alberto, a proposito della responsabilità di generare dei figlioli, per esporti una mia riflessione su un aspetto intorno al quale non ho trovato trattazioni specifiche. Veniamo al punto. Della consapevolezza del morire, del nostro «essere per la morte» molto si è scritto e ragionato (per esempio il grande filosofo di Meßkirch). Sapere che dobbiamo morire ci distinge dagli altri animali, ci comporta una riflessione molto impegnativa, terribile ed affascinante nel contempo. È ormai assodato che agli albori dell’umanità, per un lungo periodo, gli umani non collegavano l’atto sessuale alla nascita dei piccoli. Con l’avvento della consapevolezza ci siamo ritrovati appunto con una responsabilità (in senso letterale: richiamabilità) tutta umana. Non mi pare che su questa responsabilità, su questo «essere per la vita», su questo fardello dovuto alla nostra conoscenza, si sia riflettuto come sulla coscienza del morire. Certo, far l’amore è meglio che morire, ma dare la vita vuol dire anche dare la morte ad essa congiunta. Scusa la digressione dilettantesca, ma qui sono in casa di amici e ne abuso.

  • agbiuso

    Aprile 1, 2014

    Nessun fastidio naturalmente, caro Diego. Anzi gratitudine a entrambi.
    Tu scrivi: “vedere nei propri figli la giovinezza che risorge consola parecchio”.
    Ecco, “consola”. Si fanno figli per sé, per la propria “consolazione”, senza pensare che si generano dei mortali e si moltiplica il dolore. Un’espressione di profondo “egoismo”, di trionfo della volontà dell’io.
    Per quanto riguarda la scrittura teatrale ti ringrazio ma non credo di saperlo fare.

  • diego

    Aprile 1, 2014

    aggiungo una cosa buffa, caro Pasquale

    Alberto scrive cose serie e belle e io te, sul bordo a chiacchierare, tipo due pensionati sul ciglio del cantiere, secondo me siamo fastidiosi

  • diego

    Aprile 1, 2014

    grande Pasquale, i tuoi bei racconti finiscono spesso in quel modo e, ho notato, spesso c’è di mezzo l’acqua (il fiume, il torrente nell’orrido, il lago, la riva ultima sull’oceano); ti confesso una cosa, anch’io faccio le scale a piedi con lo stesso pensiero identico, deve sembrare un infarto, così almeno hai chiuso senza farla tragica

    ricordo uno zio di mio padre, morto stupidamente per un colpo di boccia sulla testa mentre osservava il gioco delle bocce, una morte perfetta, antiretorica; una morte antiretorica, ecco come mi piace

  • Pasquale D'Ascola

    Aprile 1, 2014

    Comincio a invidiare chi per sé ha trovato il modo di uscire di scena. Céline si porta in Danimarca due fiale di cianuro. Non le userà , sappiamo, ma averle a disposizione conforta. E si può sempre sperare nell’infarto fulminante. Da ultimo faccio le scale di buon passo e a tre a tre; dovesse essere il momento, meglio che scoppi il cuore, piuttosto che conservarsi, riempirsi di attenzioni per arrivare sani all’Alzheimer o in buona salute al cancro. Ne, ne. Buona continuazione, dicevano i miei nonni accomiatandosi. Bah

  • diego

    Aprile 1, 2014

    ricordo con piacere l’Agammennone messo in scena da Ronconi, tanti anni fa, al Fabbricone di Prato, e mi colpì l’uso delle sue «macchine» da scena

    sulla questione, caro Alberto, direi che però vedere nei propri figli la giovinezza che risorge consola parecchio, perchè la vita non è il nostro «io», è un fenomeno di cui il nostro «io» è solo un espediente efficace, un crocevia organizzativo

    hai mai scritto per il teatro? uno bravo e coltissimo come te ci riesce di sicuro

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